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Brindisi: 22enne fermato per furto bicicletta si suicidò in Caserma, Carabinieri sotto accusa
Fonte: La Repubblica, 6 agosto 2010
6 agosto 2010

Aveva 22 anni ed era venuto in Italia dal Marocco in cerca di fortuna. Si suicidò nella cella di sicurezza della caserma di San Michele Salentino dove era stato recluso per aver rubato una bicicletta, nel bel mezzo di un funerale. I carabinieri che gli avevano messo le manette ai polsi avrebbero dovuto vigilare per scongiurare la tragedia, dice il magistrato inquirente che ha chiesto il rinvio a giudizio di tre militari alla custodia dei quali era affidato.
Sono adesso imputati per cooperazione in omicidio colposo, a fronte della presunta omissione dell'obbligo giuridico di impedire atti di autolesionismo da parte del detenuto. È l'ipotesi di reato formulata dal pubblico ministero Silvia Nastasia a carico del comandante Vito Chimienti, del vice Giuseppe Marrazzo e dell'appuntato Vincenzo Marrazzo, tutti difesi dall'avvocato Vito Epifani. Ipotesi ancora tutta da verificare.
L'ultima parola spetta adesso al giudice per le indagini preliminari, che deciderà infine se questa sciagura meriti un approfondimento in sede processuale oppure l'archiviazione. Accadde il 18 giugno, poco più di un anno fa. Quel 22enne si chiamava Abdelhafid Es-Saady. Nella comunità in cui viveva, lo conoscevano tutti. Sarebbero stati i compagni, venuti come lui dal Marocco, a rivelare nome e cognome, a chiamare i genitori in Italia. Urlarono di rabbia per una storia che, dicevano, non si poteva credere e per questo furono i primi a presentare denuncia in procura.
Abdelhafid era un ragazzo allegro c'era scritto in quell'esposto, malgrado il lavoro malpagato e in nero nei campi, dove si recava tutti i giorni. Non si perdeva d'animo anche se il contratto che non arrivava non gli consentiva di mettersi in regola con la legge italiana, per la quale rimaneva un clandestino. La comunità marocchina di Brindisi contattò il sindacato, la Cgil diede mandato all'avvocato Pasquale Fistetti tramite il quale fu interpellato il consolato per ottenere l'arrivo dei genitori in Italia. Il padre Rahal Es-Saady e Malia, la madre (residenti a Freita Kalaa nella provincia di El Saraghna), ottennero il visto anche perché avrebbero dovuto sottoporsi alla prova genetica.
Su disposizione della procura furono prelevati campioni utili alla comparazione del Dna, necessaria poiché le impronte digitali del ragazzo morto, e quelle presenti nelle banche dati della polizia e legate a quel nome, non coincidevano. L'esame avrebbe confermato che quel ragazzino ladro di biciclette era proprio Abdelhafid Es-Saady.
L'esito dell'autopsia del medico legale Giacomo Greco avrebbe invece azzerato ogni ipotesi diversa dal suicidio, non c'erano segni di violenza su quel corpo. Abdelhafid aveva confezionato il suo strumento di morte con le lenzuola, e si era impiccato nello spazio angusto della cella cadendo sulle ginocchia. Era andata così.