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"parole di parte civile" sulla morte di Stefano Cucchi
Stefano Anastasia (Presidente onorario associazione Antigone)
Fonte: Terra, 12 aprile 2010
12 aprile 2010

La condotta del personale sanitario del Reparto di Medicina protetta dell'Ospedale Pertini di Roma, certamente censurabile per i "gravi elementi di negligenza, imperizia e imprudenza, tanto nelle fasi diagnostiche quanto nelle più elementari regole di accortezza del monitoraggio clinico e strumentale, oltre che nell'assistenza stessa", non basta a spiegare la morte di Stefano Cucchi. Secondo i periti di parte civile, quella morte "è addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto in soggetto politraumatizzato e immobilizzato, affetto da insufficienza di circolo sostenuta da una condizione di progressiva insufficienza cardiaca su base aritmica..., intimamente correlata all'evento traumatico occorso e al progressivo scadimento delle condizioni generali".

L'evento traumatico può essere collocato "tra le 13 e le 14:05 del giorno 16 ottobre 2009", quando cioè Cucchi era detenuto nelle celle di transito del Tribunale di Roma. Questo è quanto reso noto ieri in una conferenza stampa cui hanno partecipato la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, Luigi Manconi e i parlamentari del Comitato per la verità su Stefano Cucchi. Ci fu violenza sul corpo di Stefano; avvenne nel Palazzo di giustizia, a opera delle persone cui la sua persona era istituzionalmente affidata. Lo scandalo di quella morte torna dunque alla casella di partenza: la malasanità si è solo aggiunta alla malagiustizia, in una spirale di degrado di funzioni pubbliche così importanti da far dubitare della lealtà istituzionale delle persone che vi sono preposte. In questi giorni, alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria si stanno meritoriamente distinguendo per la denuncia delle condizioni di sovraffollamento.

Intanto, però, un pubblico ministero alza le braccia e, denunciando il clima omertoso che vige nel carcere di Teramo, chiede l'archiviazione della denuncia delle violenze subite dal detenuto che avrebbe dovuto essere massacrato "di sotto", non in sezione, non davanti "al negretto" che avrebbe potuto testimoniare. La verità sulle morti e sulle violenze in condizioni di detenzione sembra impossibile da raggiungere: imbarazzi, reticenze, complicità costruiscono la fitta trama dell'omertà. Ma la verità non è solo un debito collettivo nei confronti delle vittime e dei loro cari, ma anche la sola condizione possibile per distinguere le responsabilità personali dalla affidabilità delle istituzioni. Speriamo che le parole "di parte civile" non restino le uniche chiare su episodi che minano la credibilità delle istituzioni giudiziarie e di polizia.