Gente che dà di matto. Ragazzi impastati di droga e chissà che altro. Teste calde. Persone da ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive. Costi quel che costi, evidentemente. C'è un filo rosso sangue che lega Giuseppe Uva alle le altre morti bianche successe in Italia negli ultimi anni. Federico Aldrovandi a Ferrara, Riccardo Rasman a Trieste, Aldo Bianzino in Umbria, Stefano Cucchi a Roma, le principali. Ci sono analogie, coincidenze e circostanze che si ripetono nel tempo e a distanza di chilometri. E ci sono le costanti, forze dell'ordine e singoli cittadini che alla fine diventano cadaveri in cerca di pace e verità.
C'è una versione ufficiale che al primo punto, sempre, narra di una notte brava di qualcuno in preda alle escandescenze. Dava testate ai lampioni Federico in via Ippodromo, era su di giri Riccardo nel suo appartamento, scalciava Stefano in caserma. E si picchiava Giuseppe Uva, l'autolesionismo messo a verbale con puntuale cadenza e singolare analogia. E poi la droga, quella maledetta compagna di sballo che per le forze dell'ordine, in tutti questi casi, ha costretto ad usare le maniere forti per neutralizzare la «resistenza al pubblico ufficiale», come da manuale di polizia.
Questo finché non si viene a scoprire, dalle analisi tossicologiche e dalle perizie mediche, che in realtà nessuno di quei ragazzi che hanno passato l'ultima alba della loro vita in una caserma, o in un letto d'ospedale dopo la caserma, aveva in corpo nemmeno un pizzico di sballo chimico. E poi i vestiti, il sangue, le chiazze che vanno e vengono, le macchie che si lavano e quelle che restano. Il giubbino intriso di rosso di Federico, gli abiti di Stefano, i pantaloni di Giuseppe sporchi in modo evidente sul retro, come racconta la sorella Lucia, chiedendosi come mai uno che si dà le botte da solo possa perdere sangue dal retto. E i suoi slip mai restituiti, come sono spariti altri indumenti tra una stanza di una caserma, un'infermeria o un pronto soccorso.
Ma anche i dottori, i medici, che in queste storie a sfondo cupo non riescono mai a cancellare sospetti e dubbi sul loro giuramento a Ippocrate, per essere gentili. I medici che hanno curato, si fa per dire, Stefano Cucchi durante la sua agonia al Pertini, ora che sappiamo della sua morte per disidratazione. O i dottori che hanno somministrato tranquillanti a Giuseppe Uva, pare Tavor, En e Solfaren, quando Pino era ormai un corpo bisognoso di ben altro che di dormire e rilassarsi, come raccontano le foto scattate al suo cadavere all'obitorio. C'è, anche, un'ultima cosa che torna sempre. C'è che tutte le morti bianche sono state morti in solitudine, senza testimoni che non fossero le forze dell'ordine. Tutte a parte quella di Giuseppe Uva, portato in caserma insieme ad un amico che non ha preso le botte, ma ha visto e sentito.