Rivedere sui giornali la faccia tumefatta di Stefano Cucchi è stato come un flash che l'ha riportata indietro di sei anni: «E' stato come rivedere la faccia di Marcello», dice con una calma che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione. Due storie che sembrano proprio parallele, quella di Stefano Cucchi e di Marcello Lonzi. O che comunque presentano troppi punti simili. Tanto per cominciare la stessa situazione: entrambi morti mentre erano detenuti in un carcere italiano, Cucchi in quello di Regina Coeli, a Roma, Lonzi alle Sughere di Livorno. Entrambi con ferite sulla faccia e poi sulla schiena. E stesso mistero sulle cause della morte. Con la differenza che se per Cucchi la giustizia pare stia facendo il suo corso in fretta, per Lonzi è ferma da sei anni. Da quando Marcello Lonzi, 29 anni, una condanna a nove mesi per il tentato furto di un'auto, venne trovato morto nel carcere toscano dal compagno con cui divideva la cella.
Era l'11 luglio del 2003. Da allora Maria Ciuffi aspetta di sapere come è morto suo figlio. Come è accaduto per Cucchi, anche lei, che vive a Pisa, non venne avvisata di quanto era successo: «A dirmi che Marcello era morto è stato il giorno dopo un parente che era stato avvisato dai carabinieri». Decesso dovuto a cause naturali, infarto da stress, come stabilì la prima autopsia eseguita prima che lei arrivasse a Livorno. Una risposta che mise la parola fine all'inchiesta aperta dalla procura di Livorno ma che, allora come oggi, non convince Maria, sicura che la morte di suo figlio sia la conseguenza di un pestaggio in cella. «Quando ho visto il corpo ho capito subito che non poteva essere morto per cause naturali», racconta. «Mi colpì il suo volto. La parte sinistra era tutta ferita, aveva la mandibola fratturata, due buchi sulla testa, uno vicino alla fronte, poi una ferita al sopracciglio e al labbro». Il corpo presentava anche una strana escoriazione a forma di "V" sullo sterno, della quale non si è mai capita l'origine. La prima indagine stabilì che le ferite Marcello potrebbe essersele provocate cadendo a terra, colpito dall'infarto, e sbattendo al faccia contro un termosifone. «Non poteva essere un infarto, era chiaro che Marcello era stato picchiato», continua a ripetere Maria.
Come spesso accade in questi casi, solo la testardaggine l'aiuta a non arrendersi. L'archiviazione dell'inchiesta rappresenta la fine di ogni possibilità di arrivare a far luce sulla morte di Marcello. Per questo Maria si rivolge alla procura di Genova denunciando il pubblico ministero livornese che aveva condotto le indagini, il medico legale che aveva eseguito l'autopsia e un agente di custodia del carcere, ipotizzando i reati di falso, omissione di atti d'ufficio e favoreggiamento di ignoti. La denuncia viene archiviata, ma un risultato Maria lo ottiene comunque: la procura di Livorno riapre le indagini sulla morte di Lonzi. Siamo nel 2006, e dopo tre anni, la salma di Marcello viene riesumata e si esegue una seconda autopsia. Che dà risposte nuove. Come la scoperta di otto costole rotte e numerose lesioni alla schiena. Di più: cercando di spiegare le ferite sul volto di Marcello, il perito nominato dalla procura spiega: sembrerebbero provocate da «un unico oggetto contundente con forma allungata e sottile».
La seconda inchiesta aperta dalla procura di Livorno ha portato per ora all'iscrizione sul registro degli indagati di tre persone con l'accusa di omicidio colposo: sono l'ex compagno di cella di Marcello e due agenti di polizia penitenziaria, ma altre novità potrebbero arrivare con la chiusura dell'inchiesta prevista entro la fine del mese.
Una settimana fa la mamma di Marcello ha scritto al ministro della Giustizia Angelino Alfano. «Mi spieghi perché ci sono voluti sei maledetti anni per capire che mio figlio era stato ucciso?», ha chiesto la donna. Le foto con il viso ferito e gonfio di Marcello Lonzi, gli occhi chiusi, il corpo nudo riverso su di un lato si possono vedere su internet. Basta solo digitare il nome del giovane toscano. «Sono così crude che come mamma non dovrei neppure guardarle, ma se sono arrivata fino a qui è solo grazie alla mia volontà di lottare», ha scritto Maria ad Alfano invitandolo a dare un'occhiata alle fotografie. «E non parlo solo per me - prosegue la lettera -, ma per tutte quelle madri che non hanno avuto lo stesso trattamento riservato al caso Cucchi». Fino a ieri sera, però, Alfano nessuna risposta è arrivata da Alfano.