Di carcere si muore. Il suicidio tra i detenuti, ad esempio, ha oggi una frequenza 20 volte maggiore rispetto a quella nella cittadinanza italiana.
In un comunicato stampa del Centro Studi di "Ristretti Orizzonti" si precisa che "in alcuni paesi che riteniamo meno "democratici" e "civili" rispetto all'Italia i suicidi tra i detenuti sono meno frequenti: in Romania, ad esempio, ci sono 40.000 detenuti circa e avvengono di media 5 suicidi l'anno. In Polonia ci sono oltre 80.000 detenuti e si registra un numero di suicidi che è la metà rispetto a quello dell'Italia (dati del Consiglio d'Europa)."
Dall'inizio del 2009 sono già 61 i suicidi tra i detenuti nel nostro paese. Il penultimo, verificatosi venerdì 30 ottobre, è quello del ventinovenne Domenico Improta, detenuto nel carcere di Verona. L'ultimo in ordine di tempo è invece quello di Diana Blefari Melazzi, avvenuto nel carcere romano di Rebibbia femminile verso le ore 22 e 30 di sabato 31 ottobre. Lo stesso giorno in cui le è stata notificata la condanna definitiva all'ergastolo per l'omicidio Biagi.
Già dal 2006 era chiaro a tutte le persone che conoscono la vita carceraria quanto Diana stesse male. Articoli, appelli, raccolte di firme e interrogazioni parlamentari hanno più volte denunciato l'incompatibilità del carcere, specie del regime dell'isolamento chiamato 41 bis a cui è stata sottoposta per diversi anni, rispetto alle sue precarie condizioni psico-fisiche.
Dal finire della primavera del 2008 si trovava in carcere a Sollicciano insieme alle detenute comuni. Dal 21 ottobre di quest'anno stava invece nel carcere romano di Rebibbia femminile per avere dei colloqui con gli inquirenti.
Dopo la sua morte diverse agenzie di stampa e svariati siti Internet hanno allora cominciato a diffondere in modo del tutto strumentale la notizia secondo cui la Blefari avrebbe avuto intenzione di "collaborare con la giustizia", formula questa non specificata per far credere che lei stesse per diventare una "pentita" ma che comunque può significare cose molto diverse.
A settembre aveva scritto una lettera all'amico Massimo Papini, mai ricevuta da quest'ultimo ma conosciuta dall'antiterrorismo, nella quale esprimeva tale intendimento.
La supposizione più attendibile è che lei considerasse sproporzionata la condanna all'ergastolo e insopportabile il carcere. Nella storia dei processi a Br vecchie e nuove, Diana Blefari è una delle rare persone che, pur svolgendo il ruolo di "prestanome" per prendere in affitto case o autovetture, è stata condannata al "fine pena mai".
Lei non fu neppure vista nel luogo e nel giorno dell'omicidio di Marco Biagi dalla "pentita" rea confessa Cinzia Banelli. Tutto ciò significa che la Procura di Bologna e i giudici che l'hanno condannata all'ergastolo non presero in considerazione le sue limitate responsabilità e, senza recepire il grido d'allarme lanciato degli avvocati e suffragato da numerose perizie psichiatriche, ritennero normali le sue già precarie condizioni psico-fisiche.
Ad aggravare la situazione c'è poi un altro fatto traumatico. Il primo ottobre, dopo anni di pedinamenti e di controlli a distanza da parte delle forze di polizia, Massimo Papini viene arrestato come se fosse un brigatista e per Diana è di certo un grande dolore. Cambia perciò la situazione e anche ciò che lei vorrebbe dire agli inquirenti.
Dato che la Blefari già nel 1993, a Roma, fece una testimonianza spontanea per scagionare un dirigente del movimento studentesco accusato di una rissa alla quale non aveva partecipato, è molto probabile che lei volesse fare qualcosa di analogo per dimostrare l'estraneità di Massimo Papini rispetto alle nuove e già morte Br, l'organizzazione che fu responsabile degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D'Antona (20 maggio 1999) e Marco Biagi (18 marzo 2002).
Senza dubbio lei era fragile di fronte alla disumanità del carcere ma non risulta che sia diventata una "pentita". I fatti parlano più e infinite volte meglio delle parole scritte o pronunciate: Diana ha scelto di suicidarsi poco dopo aver ricevuto la comunicazione della condanna definitiva all'ergastolo; ha dato, in questo modo drammatico, il suo giudizio finale sul "fine pena mai". Meglio morire che vivere sepolti vivi per 30 e più anni, cioè fino alla morte fisica. Questo è ciò che di sicuro e fra l'altro, in una sorta di lucida follia, ha pensato pochi attimi prima di impiccarsi con strisce di lenzuola annodate.
Nel suicidio da lei compiuto esiste, più complessivamente, la comunicazione di messaggi multi direzionali: una contestazione radicale al carcere e all'ergastolo; la consapevolezza dei propri errori politici e della rapida e tragica esperienza delle nuove Br; un'implicita critica all'ingiusto arresto di Massimo Papini; uno schiaffo morale a chi non ha capito il suo malessere e soprattutto a chi ha finto di non comprenderlo al solo e vano scopo di trasformarla in una "pentita". In ultimo ma non per importanza, una richiesta di pietà e perdono a tutti.