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Nella vicenda di Stefano Cucchi un orrore senza fine
Franco Corleone
Fonte: Il Manifesto, 2 novembre 2009
2 novembre 2009


La morte di Stefano Cucchi sgomenta per il carico di inaudita violenza esercitata verso una persona fragile; colpisce per il peso di omissioni, sciatterie, menzogne, che hanno accompagnato un calvario di sette giorni, dal fermo all'autopsia. È una vicenda che condensa in sé - esasperati - tutti i malanni e le contraddizioni del funzionamento della giustizia, del carcere non trasparente, della legge sulla droga.

Stefano Cucchi viene fermato per il possesso di un pezzo di hashish, all'udienza di convalida si presenta con un avvocato d'ufficio; il giudice conferma l'arresto e rinvia il processo a nuova seduta (quali esigenze cautelari impedivano la liberazione o gli arresti domiciliari?); entra infine nel tunnel che lo porta a Regina Coeli, poi al Fatebenefratelli e infine nel repartino bunker dell'Ospedale Sandro Pertini.

In questo percorso costellato di puntigliosità burocratiche non c'è spazio per i diritti elementari di civiltà, prima ancora che per il dettato dell'Ordinamento penitenziario; non c'è spazio per un briciolo d'umanità verso i familiari, prima ancora che per il diritto alla salute e alla vita di un detenuto.

La riforma che ha passato la sanità penitenziaria al servizio sanitario pubblico ha fallito, in un' occasione che poteva costituire il banco di prova per segnare la differenza e garantire i principi costituzionali.

Stefano Cucchi non è un caso isolato, purtroppo. Che cosa dicono oggi i nomi di Marco Ciuffreda, di Giuseppe Ales, di Alberto Mercuriali, di Roberto Pregnolato, di Stefano Frapporti, di Aldo Bianzino? Sono persone morte in carcere in circostanze non chiare o suicidatesi per reazione all'arresto legato alla detenzione di pochi grammi di stupefacenti. Sono persone presto dimenticate o su cui neppure si è acceso l'interesse dei media e delle istituzioni. C'è da augurarsi che questa volta le indagini procedano speditamente per arrivare a conclusioni non desolanti e non deludenti. Si tratta di sapere subito con precisione come sono andate le cose. Questa sarebbe la prima conquista di verità e di giustizia. La seconda, di non avere riguardi verso gli eventuali colpevoli, qualsiasi divisa essi indossino.

Infine, di riflettere sul serio sui tanti risvolti criminogeni della legge antidroga. Che non solo equipara nell'assurdo rigore delle pene droghe leggere e pesanti; soprattutto, abbandona per furore ideologico i tradizionali principi di garanzia, considerando presunto colpevole (di spaccio), passibile perfino di arresto, anche chi possiede pochi grammi di sostanza. Al di là degli effetti repressivi, la legge alimenta lo stigma verso i consumatori di droghe in quanto tali; indebolisce i soggetti colpiti dalla repressione per la vergogna e la paura; "autorizza" nei loro confronti la violenza morale del disprezzo e dell'intolleranza, anticamera spesso della violenza fisica. Così nel 2000, nel carcere di Sassari gli agenti della polizia penitenziaria poterono impunemente accanirsi contro detenuti inermi, quasi tutti tossicodipendenti, con un pestaggio selvaggio e dai contorni bestiali senza ragione alcuna.

Ci sono poi le attività di polizia sotto copertura per gli acquisti e il commercio di droga, previste dalla stessa legge: con il ritardo degli arresti e dei sequestri, i controlli e le ispezioni senza autorizzazione preventiva dell'Autorità giudiziaria si è dato il via ad attività che si fondano sull'impunità e sulla discrezionalità: che, nel caso di "mele marce" (vedi quelle del caso Marrazzo), arriva fino all'arbitrio, al ricatto e all'arricchimento illecito. Come ha scritto Adriano Prosperi (Repubblica, 30 ottobre), almeno riconquistiamo l'habeas corpus!