Nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia vi sarebbe stata una "cella delle punizioni": stretta, buia, dall'odore nauseabondo, nella quale sarebbero stati rinchiusi alcuni detenuti, tra cui il ventisettenne di nazionalità marocchina che, lo scorso 6 marzo, in quello spazio angusto si tolse la vita. La Procura della Repubblica di Venezia ha aperto un'inchiesta per accertare se siano stati commessi illeciti di natura penale nell'utilizzo di quella cella, non regolamentare, e ha iscritto sul registro degli indagati i nomi di sei appartenenti al corpo di polizia penitenziaria con l'ipotesi di abuso di autorità contro arrestati e detenuti; reato che l'articolo 608 del codice penale punisce con la reclusione fino a trenta mesi. L'indagine non riguarda Gabriella Straffi direttrice del carcere all'epoca dei fatti e che, da quanto emerso nel corso degli accertamenti, non era informata di quanto accadeva.
Nei giorni scorsi il sostituto procuratore Massimo Michelozzi ha chiesto al giudice per le indagini preliminari di Venezia di poter ascoltare con incidente probatorio, alla presenza dei legali degli indagati, sette detenuti che, nel corso delle indagini preliminari, hanno raccontato al magistrato numerosi particolari in relazione all'utilizzo di quella cella. In questo modo il pm vuole far acquisire il valore di prova alle loro dichiarazioni, evitando il rischio di non poterli ascoltare più avanti, nel corso di un eventuale processo in Tribunale: i detenuti sono tutti stranieri e, una volta usciti dal carcere, potrebbero non essere più rintracciabili.
Stando alle deposizioni rese finora, la cosiddetta "cella delle punizioni" sarebbe stata utilizzata in più di una modalità. Da un lato per ospitare momentaneamente nuovi detenuti in arrivo, in attesa di poterli sistemare: in questo caso la Procura ha ritenuto che non si possa configurare alcuna violazione, in quanto si trattava di sistemazione temporanea, giustificata dalla grave situazione logistica del carcere veneziano, sovraffollato e con pochi spazi disponibili. In altre occasioni, però, quella cella sarebbe servita per ospitare detenuti un po' troppo esuberanti, con l'obiettivo di farli calmare. Vero o falso? Il pm Michelozzi si sta muovendo per acquisire tutti gli elementi utili ad una completa valutazione.
Il quella cella, lo scorso 6 marzo si è suicidato (impiccandosi dopo aver ridotto la coperta in sottili strisce) un ventisettenne di nazionalità marocchina che in precedenza già una volta aveva tentato di togliersi la vita, ed era stato salvato grazie all'intervento delle guardie penitenziarie. Per la morte di quel detenuto sono finiti sotto inchiesta il responsabile delle guardie, nonché l'ispettore in servizio nel settore in cui si trovava il detenuto, in relazione a possibili carenze e omissioni nella sua sorveglianza. Per quale motivo, si chiede il magistrato, il giovane è stato messo in quella cella buia, senza essere sorvegliato, considerato il suo delicato equilibrio psichico? Perché non è stato lasciato nella sua cella assieme ai compagni che avrebbero potuto prendersi cura di lui?
L'intera vicenda va inquadrata in una situazione che, all'interno del carcere di Santa Maria Maggiore, è al limite del collasso (e della decenza), come denunciato anche recentemente da uno sciopero degli avvocati veneziani. I detenuti sono oltre 300 (di ben 22 etnie differenti), a fronte di una capienza di 160. Il tutto in spazi insufficienti e spesso non adeguati, tanto che alcuni detenuti vengono fatti dormire nelle aree che durante il giorno sono riservate alle attività ricreative. Ma non basta: l'organico della polizia penitenziaria è fortemente carente e mancano una sessantina di agenti nella sezione maschile e una ventina in quella femminile, con immaginabili problemi per l'organizzazione del lavoro e la gestione della sicurezza.