Rete Invibili - Logo
Giustizia: suicidi in carcere; ecco l'identikit della disperazione
di Renzo Parodi
Fonte: Secolo XIX, 11 febbraio 2009
11 febbraio 2009

La fascia di età più a rischio è fra i venti e i trent'anni di età. Il caso di una detenuta che ha tentato di impiccarsi a Pontedecimo.

Giovani. Maschi. Alla prima detenzione. Colpevoli di gravi delitti di sangue, dopo 4/5 anni di detenzione. Sono gli identikit dei reclusi a più alto rischio suicidario, secondo gli studi criminologici più recenti citati dal dottor Paolo Peloso, psichiatra della Asl 3 genovese, impegnato nel mondo carcerario.

Chi è alla prima esperienza detentiva, chi soffre di gravi disturbi psichici, gli alcolisti, i tossicodipendenti, e chi deve scontare una lunga condanna sono le categorie più esposte alla tentazione di "uscire" dal carcere togliendosi la vita. Nelle carceri italiane, nel 2008 si sono contati 48 casi di suicidio, tre in più dei suicidi del 2007.

Un terzo erano detenuti in attesa di giudizio, la maggior parte di loro si trovava, per motivi diversi, in cella di isolamento. La fascia di età più colpita si è attestata fra i venti e i trent'anni di età. Nessun detenuto oltre i 60 anni si è tolto la vita.

Ogni guardia carceraria potrebbe riferire di salvataggi all'ultimo istante come quello capitato tempo fa nel carcere di Genova-Pontedecimo. Una detenuta è stata trovata in cella, il collo serrato da un fascio di corde che lei aveva inumidito, stirandosi a terra in modo da favorirne la stretta. Suicidi commessi inventandosi forche improvvisate con pezzi di sedia e lenzuola; atti di autolesionismo, provocati ingoiando batterie, oggetti metallici (un tempo le molle delle reti del letto), appartengono alla letteratura carceraria.

Suicidi e atti autolesionistici rappresentano una piaga che va sul conto delle sofferenze che rendono dura, spesso insopportabile, la vita dietro alle sbarre. Se n'è discusso nel convegno "Prevenzione e sostegno della fragilità psicosociale delle persone detenute", organizzato nel carcere genovese di Marassi, diretto da Salvatore Mazzeo.

Dirigenti e guardie penitenziarie, operatori sanitari, amministratori, esponenti del volontariato, magistrati si sono confrontati alla ricerca di una ricetta praticabile per alzare gli standard della convivenza forzata, mettere al riparo i detenuti più deboli, gli ammalati, i più fragili psicologicamente. Alessandra Scarzella, giudice di sorveglianza del tribunale di Genova, deve spesso decidere se non al buio nella penombra.

La legge fissa ovviamente parametri e regole ma ogni caso è diverso dall'altro e quando si tratta di ammettere un detenuto ammalato al regime alternativo alla detenzione o decretarne la sospensione temporanea della pena, si procede con i piedi di piombo. "Un ergastolano affetto da Aids conclamato sta seguendo un trattamento antiretrovirale sperimentale all'ospedale Galliera - ha raccontato il giudice Scarzella - Ho chiesto una perizia, desidero capire se quel trattamento sarebbe praticabile anche dentro le mura di un carcere".

Della scuola all'interno del carcere ha parlato Nicolò Scialfa, dirigente scolastico dell'Istituto Vittorio Emanuele, che a Marassi tiene corsi regolari. "Duecento detenuti sono impegnati in questo carcere in attività scolastiche.

La scuola coniuga una parola-chiave nell'universo carcerario, che è un luogo di sofferenza: la speranza". Spesso però la delusione è in agguato proprio fuori dalle porte del carcere. Privi di affetti e appoggi familiari, tenuti ai margini dalla società, gli ex reclusi si lasciano risucchiare di nuovo nel gorgo del crimine. Il criminologo Giovanni Folco ha messo l'accento sulla necessità di cogliere i segnali che preannunciano il gesto fatale.

"Ricordo una detenuta, una fotografa. Mi consegnò delle sue foto di moda, bellissime. "Le pubblichi sul giornalino del carcere", mi disse. Quindici giorni dopo si lanciò dalla finestra. Si ruppe le mani ma si salvò. Andai a trovarla. "Io le avevo detto tutto ma lei non s'è accorto di nulla", mi disse. Le foto erano il suo testamento e il suo modo di dire addio".

Nessuno più delle guardie penitenziarie ha il polso dell'umore dei detenuti. Non sono specialisti, ma si trasformano, giocoforza, in sentinelle avanzate. In una curiosa rivisitazione della sindrome di Stoccolma i reclusi rivolgono a loro, prima che a chiunque altro, domande e petizioni. Vincenzo Ventura, guardia penitenziaria nelle "Case Rosse" genovesi, ha fatto un outing di splendida efficacia emotiva.

"Quando ho cominciato a fare questo mestiere mi sono ritrovato a pensare: "E se ci fossi io dall'altra parte delle sbarre?" Lavoro nei due reparti occupati da detenuti affetti da Aids conclamata e percepisco la disperazione, soprattutto di chi entra in carcere per la prima volta. Occorre migliorare il modello organizzativo, prevenire situazioni di sofferenza che conducono a crolli psicologici. Serve più professionalità ma anche più umanità".


Luca e Stefania, due storie dietro le sbarre


Luca, un detenuto, ha spiegato perché talvolta si ricorra in carcere ad atti di autolesionismo. "Lo chiamo generoso orgoglio. Vedere scorrere il proprio sangue è come riappropriarsi del libero arbitrio; si cancella l'invisibilità alla quale ti condanna lo stare in cella. Qui tutti danno il massimo: direzione, polizia penitenziaria, strutture sanitarie, volontari, ma le ferite sono enormi". Anche Stefania, detenuta a Pontedecimo, si è confessata. Via da casa, un paesino della Sardegna, perché si sentiva diversa dagli altri. La droga, il carcere, la disintossicazione. E finalmente un lavoro, di giorno, che la fa sentire libera. E guarita.