«Dimmelo Aldo, dimmi chi è stato. E lui me l'ha detto». Roberta se l'è sognato pure stanotte. Aldo, il suo compagno, morto in una prigione di Perugia qualche ora dopo averne varcato la soglia. Lo ha sognato senza le cicatrici dell'autopsia, bello come quando se n'era innamorata. Ormai sono cinque mesi che le uniche sue notizie le arrivano in sogno. E ogni volta quella domanda: «Aldo, chi è stato?». Già, chi è stato a ridurlo così col fegato distaccato, che presentava un taglio netto di tre centimetri, e delle lesioni al cervello, tanto che il medico che lo vede subito dopo crederà di riconoscere la tecnica micidiale di chi sa colpire senza lasciare segni? Roba da specialisti. «L'hanno sbattuto come una bambolina», ricorda di aver sentito Roberta.
Roberta Radici, marcato accento romano. Capelli neri e occhi blu come una sua antenata armena. Cinquantaquattro anni vissuti tra Fiuggi, dove suo padre dirigeva le Terme, Napoli dell'Orientale dove ha studiato lingue e culture dell'Est, persiano soprattutto, fino a stopparsi a una manciata di esami dalla laurea. E poi l'Umbria dove ha incontrato Aldo. Aldo Bianzino che c'era arrivato dal Piemonte, via India, credendo che l'India fosse anche tra i boschi e le colline di Pietralunga, appennino umbro-marchigiano, dove suonava il corno rituale di Babaji, yogi immortale che vive sull'Himalaya, maestro illuminato. Il mantra dice "Om namah shivaya", "mi inchino al signore Shiva". Il messaggio è telegrafico "Verità, Semplicità, Amore".
Già, Shiva. Roberta ha visto Aldo per la prima volta nel 1988, durante una cerimonia del fuoco da qualche parte sul lago Trasimeno. C'era un mucchio di gente ma a lei restò impresso quel ragazzo alto, magro, barba e occhialini. «Sembrava non toccasse terra quando camminava». Fu una notte di canti e balli, armonium e cembali e lodi a Shiva, il dio dei luoghi impervi, che ti coglie tra veglia e sonno, nei lampi degli starnuti, il dio delle persone strane, che ti sorprende nella notte, colui che costruisce l'arco e lo tende. Il dio distruttore, «che distrugge la malattia e la menzogna», dice Roberta che prima di quella notte sul Trasimeno era stata in Persia. Ancora non c'erano gli ayatollah e ha potuto visitare i templi zoroastriani e le torri del silenzio in mezzo al deserto. Qualcuno la invitò alla cerimonia poiché sapeva che Roberta era in grado di recitare i mantra in sanscrito, la litania lunga di Sri Rudram. Rudra è uno dei nomi di Shiva. Rudra è il figlio di Roberta e Aldo. Quattordici anni, scende ogni mattina con l'Apecar dalla sua collina fino a Pietralunga per prendere la corriera che lo porta allo scientifico di Umbertide. Rudra che restò solo con la nonna di 91 anni quel 12 ottobre dell'anno scorso quando arrivarono le guardie in borghese e il finanziere col cane. Il capo teneva appesa al collo la coccarda di riconoscimento. Erano le sette e mezza. Sapevano sarebbe stata una cosa lunga. Si capiva dal fatto che s'erano portati i panini per la colazione. Col piede di porco sollevarono perfino le assi di legno del pavimento. Insospettiti da un mucchietto di sassi, profanarono con vanga e piccone la tomba di un cagnolino ucciso dal morso di una vipera.
Da casa e dalla strada le piante non si vedevano neanche. Però i segugi della questura le trovarono. Una quarantina di piante, dice Roberta, compresi gli zeppi inutili delle piante maschio che si stavano fracicando in un fossato. Il verbale recita: "Piante di hashish", come dire "alberi di marmellata". Era l'erba che ad Aldo doveva durare un anno, fino al prossimo raccolto. Come la conserva di pomodoro che si fa una volta l'anno. Era "canapone", nome in gergo della cannabis sativa, meno pregiata, e con meno principio attivo, dell'indica, la canapa indiana vera e propria. Ma per la Fini-Giovanardi è reato e scattano le manette per Aldo e Roberta. Parecchi legali giurano che il pm che ha firmato il mandato sia un vero duro, negli interrogatori, col pallino per le custodie cautelari. «Una legge allucinante la Fini-Giovanardi», ripete Roberta. Aldo disse subbito che lei non c'entrava. Non voleva avere preoccupazioni con quel figlio da crescere e la madre anziana da custodire. I poliziotti dissero che doveva dirlo al giudice, non vollero verbalizzare nulla. Ma Aldo il magistrato non l'avrebbe visto mai. L'ultimo viaggio con Roberta è stato tranquillo. Almeno come può esserlo un trasferimento a Capanne, il carcere perugino, reso famoso dalle cronache sull'omicidio della studentessa statunitense Meredith. Di Bianzino, al contrario, s'è parlato quasi nulla. Il carcere è un mondo a parte. E Perugia è la città delle 27 logge massoniche e la città del caso Narducci. Costui era un medico e professore universitario perugino, figlio di un noto massone, morto annegato a trentasei anni nel 1985, a poche settimane dall'ultimo degli omicidi del mostro di Firenze. Il corpo fu ritrovato sull'Isola Polvese, gioiello naturalistico del grande lago umbro. Ci sarebbe l'ombra della massoneria dietro la presunta sostituzione del suo cadavere così da depistare le indagini sulla sua morte.
Ma questa è un'altra storia, ci sono già abbastanza misteri nel caso Bianzino.
L'ultimo messaggio da Aldo vivo, Roberta lo riceve dall'avvocato d'ufficio che, in galera, vede prima Aldo e poi la sua compagna. Erano le 14 del sabato. Stava bene, la rassicurava. Fino ad allora Roberta, mai stata dietro le sbarre, come pure Aldo, credeva di vivere in un film con la Magnani, con una «ragazzetta tossica» che le consiglia di non voltarsi indietro quando esce, «sennò ci ritorni». Il dubbio è tutt'altro che peregrino, le accuse che pendevano sul capo di Aldo, sono intatte e le gravano addosso. Si sente ricattabile e forse è davvero ricattabile: la fine delle accuse in cambio dell'accettazione di una versione soft sulla morte di Aldo? Qualcuno glielo potrebbe far balenare. Roberta, però, non accetterebbe un baratto di questo tipo. Come non l'accettano i genitori, il fratello e gli altri figli di Aldo, i fratelli di Rudra, Aruna e Elia, nati dal matrimonio con Gioia. Sul caso è attivo anche un comitato di mediattivisti, "Verità per Bianzino", che ha promosso la manifestazione del 10 novembre a Perugia e sta preparando, tra l'altro, un dossier. Rifondazione s'è schierata a fianco dei familiari e Roberta ha raccontato la propria storia dallo stesso palco su cui avrebbe parlato Franco Giordano.
Alla fine di gennaio è arrivata la richiesta di archiviazione da parte del pm. Dice non ci sarebbe nulla di traumatico nel decesso per aneurisma del falegname mite e incensurato. Tutt'al più un'omissione di soccorso. «Ma ti rendi conto?», esclama Roberta mettendo in fila alcuni dei dubbi sulla morte di Bianzino.
Anzitutto le perizie: la preliminare parlava di evidenti lesioni viscerali, epatiche e cerebrali, di indubbia natura traumatica, smentite dalle successive perizie che si concentrano sull'aneurisma, considerato congenito, e archiviano le lesioni al fegato come derivanti da maldestre manovre rianimatorie e senza relazione coi danni al cervello. Ma qualcosa non quadrerebbe. Perché non ci sono segni esterni, perché non ci sono lesioni allo sterno, se dipende dalla rianimazione? Da quale tipo di stress è stato indotto l'aneurisma? Le domande si affollano nella mente di Roberta. Perché le indagini furono condotte anche dal nucleo investigativo del Dap, la stessa amministrazione che aveva in consegna il suo uomo? Per esempio dallo stesso ispettore che avvertì con modi bruschi Roberta. Anzi, che le chiese se soffriva di cuore: «Lo possiamo ancora salvare - mi disse - ma Aldo era già morto». Erano passate le nove del 14 ottobre. Bianzino, ufficialmente, fu rinvenuto un'ora prima. Si stava costruendo una versione ufficiale? Il dubbio resterebbe intonso se dovesse passare la richiesta di archiviazione. I testimoni, detenuti nello stesso reparto, diranno una cosa alla polizia - che Aldo chiedeva aiuto, che gli risposero «Fatti i cazzi tuoi, aspetta domani» - e la smentiranno agli altri verbalizzanti dell'amministrazione carceraria. Il giorno prima di crepare era andato due volte in infermeria ma verrà annotata - pare - una sola delle visite. E, per più di un'ora, quella mattina, è stato nell'Ufficio comando, dalle 9.40 alle 10.50. «Da chi è stato - si chiede Roberta - e, soprattutto, che si dovevano di'?!». Ci sarebbe una grafia sulle schede di ubicazione di Aldo diversa da quella che ha compilato tutte le altre in quei tre giorni. E una dottoressa è entrata, all'una dell'ultima notte di Aldo, in una cella di quel lato della sezione. Era l'ora in cui Bianzino avrebbe chiesto aiuto. Il pm esclude accessi nella cella di Aldo, la numero 20, ma non è stato individuato un soggetto in mimetica che, per due volte - alle 20.50 e alle 22.32 - è stato ripreso dalle telecamere interne. Le porte della sezione e quella della 20 sono spalancate. Alle 22.46 l'agente gesticola ai colleghi, otto minuti dopo la dottoressa entra nel lato B. «E quello vuole archiviare». Roberta scuote le mani piene di fogli. «Non riesco a non immaginare quello che ha sofferto Aldo».
Dopo quella cerimonia sul Trasimeno sarebbero passati altri tre anni prima che i due si rivedessero. Dopo gli anni di Napoli - dove costruiva bambole di ceramica e bazzicava l'"ala creativa" del Pci, il dipartimento stampa e propaganda - Roberta era voluta tornare in Umbria. Lei costruiva presepi e statuine di pastori, lui faceva l'ebanista nella falegnameria attaccata alla casa che avevano costruito insieme e dove sarebbe piombato il sorriso di Rudra. Un rapporto che cresce nel tempo. Aldo che le diceva: «Pare proprio che invecchieremo insieme». Padroni di sé stessi, mai avuto un conto in banca, mai grane con la giustizia. Cercavano l'India, forse, hanno trovato l'assurdità della Fini-Giovanardi e la normale crudeltà della galera. «Ho scoperto che c'è un oceano di merda con isole con oasi e acqua pulita. Ho trovato compagni che hanno dato energia, spazio e voce a questa storia», conclude Roberta, la compagna di Aldo, una delle troppe donne che cercano verità e giustizia in questo Paese.