«Ce lo dica se suo marito soffre di cuore, ce lo dica che lo salviamo!», le diceva a brutto muso un ispettore capo entrato nella cella alle sette e mezza di quella domenica. «Ce lo dica... ma Aldo era già morto». Roberta Radici ricorda con rabbia mentre sfila con duemila persone per le strade di Perugia. In duemila per chiedere verità e giustizia sulla morte del suo compagno Aldo Bianzino, arrestato con lei, per possesso di marijuana, al mattino di due giorni prima, di fronte al figlio più piccolo, Rudra, minorenne, che restò solo con la nonna di 91 anni in un casale di Pietralunga, a nord di Perugia, tra Gubbio e Città di Castello. Infarto, dirà la prima bozza di versione ufficiale ma poi le perizie scopriranno lesioni alla milza, al fegato, quattro emorragie al cervello molto importanti, ossia con grandi perdite di sangue. E nessun segno esteriore di percosse. La magistratura indaga contro ignoti per omicidio e su una presunta omissione di soccorso di un agente penitenziario di servizio quel 14 ottobre che incassa subito la solidarietà preventiva di An. Un pestaggio da professionisti, una roba da film americano, pensano molti di quelli venuti a manifestare da varie città accanto agli amici e ai familiari di Aldo. I tre figli sul camioncino che guida il corteo ringraziano tutti. Uno è avvolto in una bandiera arcobaleno.
Mite falegname, esile, meditativo, incensurato. Aldo era venuto negli anni '80 dal Piemonte, passando per l'India dei suoi maestri spirituali, a cercare terra per vivere in pace e suonare l'armonium per il suo canto rituale. Molti manifestanti sono gente della montagna come lui. Altri sono attivisti della sinistra umbra, Prc, Cuc, anarchici, antiproibizionisti dell'Mdma, Cobas, Rdb, ultras delle curve di Perugia e Ternana, militanti del Gabrio di Torino, gente venuta da Roma, dalla Toscana ma anche Radicali e gente normale scossa dalla vicenda di Aldo. Con le lacrime agli occhi, «non si può morire per del fumo», sfilano gli amici di Alberto Mercuriali, suicida a Forlì dopo l'arresto per pochi grammi d'hashish. E, dietro uno striscione con cinque nomi scritti, i compagni e gli amici degli anarchici arrestati pochi giorni fa a Perugia con l'accusa di terrorismo. Avrebbero spedito una busta con due proiettili alla presidente dell'Umbria, Maria Rita Lorenzetti. Li ha arrestati Ganzer, il capo del Ros dei carabinieri, quello del teorema di Cosenza. «Ma le intercettazioni parlano d'altro e non c'è lo straccio di una prova, anche dopo un interrogatorio reputato violento dal difensore ha ribadito la sua innocenza - dice Aurelio Fabiani, il padre di Michele, il più giovane dei cinque - Lo accusano di aver scritto un volantino contro l'ecomostro di Spoleto (7 piani per 30 metri di larghezza nel centro storico, ndr) simile, per "affinità terminologiche" a un volantino insurrezionalista. In realtà sono solo accusati di essere anarchici. E il sorriso di Lorenzetti, a fianco di Ganzer, suona come una condanna preventiva».
"Sicuri da morire" dice lo striscione d'apertura legando la vicenda di Aldo all'ossessione sicuritaria che vive il Paese. «La città ha dato una prima risposta dal basso», osserva Francesco Piobbichi, responsabile nazionale Droghe del Prc, «questa piazza parla anche di Genova ma chiede di uscire dalla narrazione retorica sulla sicurezza. Se a Perugia ci sono state 31 overdose in dieci mesi è anche perché la logica repressiva produce clandestinizzazione».
Aldo coltivava marijuana, ne hanno trovate 57 piante, ed è bastato a sbatterlo in carcere nonostante una sentenza della Cassazione abbia sancito che possedere erba per uso personale non è reato. Qualcosa è successo in quella cella di Capanne, il nuovissimo carcere perugino, inaugurato da Castelli quand'era guardasigilli. «Non è un luogo famigerato - spiega Patrizio Gonnella di Antigone - è nella media. Per questo quello che è successo ci preoccupa molto di più. E' una storia anomala. Tra suicidi e morti "naturali", dietro le sbarre muoiono in 180 ogni anno. Ma Bianzino non era un piantagrane e la sua non è una morte naturale».
Giuseppe Bianzino somiglia come una goccia d'acqua ad Aldo. «Pare di rivederlo», dice chi conosceva il falegname di Pietralunga. «Al di là di tutto, mio figlio era pacifico e tranquillo - dice - ma anche il peggiore dei delinquenti non lo puoi trattare così. Che nessuno mi chieda se voglio perdonare». «Mai stato tossico, mai stato in un Sert», ripete Gioia Toniolo, la madre dei primi due figli di Aldo, per smentire le «insinuazioni» della stampa locale. D'altronde, l'esame tossicologico non ha rilevato che tracce d'erba. Per quelle non si va al Sert. Il comitato Verità per Aldo non ha dubbi: lo ha ucciso il sistema carcerario, e non c'è fiducia «per uno Stato che processa sé stesso perché tende ad assolversi». L'incidente probatorio della scorsa settimana, quando due dei 5 detenuti sentiti hanno dichiarato di aver sentito Aldo suonare il campanello e la guardia rispondergli sgarbata «Basta, non rompere il cazzo». La paura fa novanta dietro le sbarre. Chissà perché gli altri non hanno parlato? Perché Aldo stava male? Perché cercava un medico, visto che le autopsie hanno trovato una salute di ferro? Perché le amministrazioni stanno zitte? «Chissà a quanti altri è capitato?», si chiede ancora Roberta. «Bianzino è una delle troppe vittime delle leggi repressive - dice Italo Di Sabato dell'Osservatorio contro la repressione - come la Fini Giovanardi».