Di fronte a un fatto così tragico quale quello di Genova, in cui il Pm, in mancanza di gravi indizi di colpevolezza, non ha chiesto l'arresto di un indagato che ha poi colpito mortalmente una donna di 33 anni - sua ex-fidanzata - è inaccettabile la strumentalizzazione che da più parti si è fatta del dolore dei familiari della vittima, per finalità che nulla hanno a che vedere con la Giustizia.
Ed è altrettanto inaccettabile la demagogia di chi - di fronte ad altri fatti, meno gravi ma altrettanto complessi e delicati - si limita ad invocare sempre, e solo, più carcere, pur in presenza di una incontestabile realtà che dimostra come, spesso, questo non solo è inutile, ma controproducente e dannoso.
Un esempio? Gli Stati Uniti, dove negli ultimi dieci anni sono stati costruiti più carceri che scuole e ospedali e dove vi è stato un aumento esponenziale della criminalità da far impallidire tutti i Paesi europei.
Un altro? In Italia chi sconta l'intera pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68%, mentre chi sconta pene diverse dalla detenzione ha un tasso di recidiva dell'11-12%. Il carcere, lo dimostra la realtà, è in molti casi inefficace non solo per i detenuti (non aiuta il reinserimento ma aumenta la recidiva), ma anche per la sicurezza della collettività (ogni condannato recuperato è un danno e un pericolo in meno per i cittadini) e per le vittime dei reati (sarebbero ben più utili attività riparatorie e/o risarcitorie).
È del tutto illogico, quindi, trasformare ogni drammatico fatto di cronaca in un pretesto per proporre nuove restrizioni, immaginare nuovi reati. Il che, d'altra parte, non significa non interrogarsi su fatti che comprensibilmente creano sconcerto e reazioni di dolore e di rabbia.
Porsi dei dubbi è doveroso, ma - prima di fare "riforme che si trasformano in controriforme" (cosa ben diversa da una efficace opera di prevenzione che non necessita di alcun intervento legislativo) - occorre riflettere con serietà e razionalità sulle diverse opzioni possibili: perché l'emotività ha sempre portato a scelte sbagliate in materia giuridica (e il senso comune spesso fa a pugni col buon senso).
Ci vuole mente fredda in un cuore caldo. Gli isterismi collettivi creano maggiore insicurezza, alimentano la sfiducia nella giustizia senza contribuire alla soluzione dei problemi, che non sono certo semplici. Chi ricopre posizioni di responsabilità ha il dovere di non ignorare la realtà e, nel contempo, di non cavalcare proposte di facile applauso immediato ma inefficaci e dannose.
Allora, cerchiamo di fare un po' di chiarezza e di separare questioni diverse che sono state accomunate, creando solo confusione. Cominciamo dagli attacchi alla legge sulla custodia cautelare (mi riferisco alla polemica tra il Pm e il Capo della mobile di Genova).
Il magistrato, che ha dimostrato alta sensibilità morale e giuridica, ha dichiarato di aver applicato la legge e non vi è motivo, sulla base di quanto emerso, per dubitarne. Suo compito era quello di decidere se richiedere, o meno, un'ordinanza di custodia cautelare valutando gli elementi esistenti (non quanto avvenuto successivamente).
L'attuale legge sulla custodia cautelare, del resto - e va detto con forza - è la migliore possibile, in quanto concilia la doverosa tutela della collettività e dei singoli, con il dovere giuridico di evitare, per quanto possibile, l'arresto di innocenti. È, in breve, ciò che distingue uno Stato di diritto da uno Stato di polizia. Ecco perché, per un provvedimento restrittivo della libertà personale, sono necessari quei "gravi indizi di colpevolezza" (l'indizio è molto meno della prova necessaria per una sentenza di condanna) che, nel caso specifico, il Pm e gli investigatori che con lui collaboravano, hanno ritenuto insussistenti.
Una norma, quella prevista dal codice, per nulla "indulgente" o "lassista": lo conferma il fatto che sono di gran lunga più numerosi i casi di arrestati risultati innocenti di quelli di colpevoli nei cui confronti non sia stata accolta una richiesta di custodia cautelare (e ciò malgrado il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza).
La limitazione delle garanzie va a scapito, infatti, non dei colpevoli ma degli innocenti e ogni innocente condannato significa un colpevole rimasto in libertà e che continua a commettere reati. Troppo spesso si dimentica che, fino a qualche anno fa, la carcerazione preventiva - definita anche la "lebbra del processo penale" - poteva durare 12-14 anni anche in presenza di indizi labili ed era immenso il numero di imputati incarcerati ingiustamente.
I genitori di Maria Antonia, la donna uccisa a Genova, provati da un dolore senza fine, hanno il diritto di esprimere in ogni modo le loro critiche e le loro "accuse". Chi ha ruoli di responsabilità, invece, deve essere più lucido ed evitare di proporre modifiche che accentuerebbero i rischi sia di errori che di delitti tanto orrendi. Non è con l'emergenza o rimpiangendo un passato che si sperava definitivamente superato, che si migliora la giustizia e si garantisce la sicurezza dei cittadini.
E veniamo al secondo punto: abbiamo, in Italia, un codice penale di stampo autoritario che risale al 1930 e che quindi, in più punti, contrasta con i principi costituzionali. Basti pensare ai casi di responsabilità oggettiva, ai numerosi reati anacronistici e al fatto che le uniche pene previste siano il carcere e la multa, spesso non adeguate alla condotta illecita che si intende punire (un esempio: fino a sei mesi di carcere per "rappresentazione abusiva di spettacolo teatrale o cinematografico").
Sono invece completamente ignorati comportamenti delittuosi nuovi e diffusi, quale quello di cui era già vittima Maria Antonia: le molestie e le minacce persistenti (il cosiddetto stalking, dall'inglese "perseguitare", di cui sono quotidianamente vittime tante donne). Se quel comportamento fosse già stato reato, il magistrato avrebbe potuto prendere tutti i provvedimenti necessari per impedire quell'omicidio. Non con un carcere preventivo basato su sospetti labili che, se generalizzato, rischierebbe di colpire tanti innocenti, ma con una norma "preventiva", specifica e mirata.
Ecco perché è necessario e urgente un nuovo codice penale, accompagnato da una ampia depenalizzazione (che non equivale affatto a impunità ma significa immediata ed efficace sanzione amministrativa). Un nuovo codice per cancellare le tante fattispecie ormai polverose e, soprattutto, per introdurre un diverso sistema sanzionatorio che preveda, oltre alla pena detentiva e a quella pecuniaria, anche pene interdittive e prescittive (come i lavori socialmente utili e le attività riparatorie) in molti casi più efficaci, con una minore recidiva e un maggiore reinserimento sociale. La giustizia non può, e non deve, essere né vendetta né ricerca di capri espiatori, ma accertamento delle responsabilità e commissione di sanzioni eque, proporzionate quindi all'effettiva colpevolezza.
Questa mattina, al bar, un gruppo di persone, commentando i fatti di questi giorni, invocavano a gran voce la pena di morte. Avrei voluto rispondere che chi è pronto a sacrificare le libertà fondamentali per briciole di temporanea (e apparente) sicurezza, finisce col perdere la libertà senza ottenere la sicurezza.
Ho invece pensato che, proprio perché non si può e non si deve sottovalutare il comprensibile allarme suscitato da fatti così gravi, non ci si può limitare a contrastare chi cavalca strumentalmente il dolore e la paura, ma è indispensabile ricreare, anche a sinistra, una cultura realmente garantista e operare, quotidianamente, per una giustizia degna di questo nome.