A San Vittore si sarebbe verificato un episodio che coinvolge agenti penitenziari. I volontari che prestano servizio in prigione chiedono alle autorità competenti di indagare: "Manca la consapevolezza dell'illegalità dei maltrattamenti".
Violenza fisica e insulti razziali ai danni di un detenuto del carcere di San Vittore. È la denuncia del gruppo Calamandrana, riferita a un recente episodio in cui sarebbero coinvolti alcuni agenti di polizia penitenziaria. Il gruppo chiede quindi che sul fatto indaghino le autorità competenti. "Abbiamo constatato che quando in carcere si viene a conoscenza di episodi di violenza su detenuti, si crea un clima di silenzio - scrive il gruppo - poiché molti pensano che è meglio non dire nulla: i detenuti non parlano perché non avendo strumenti per difendersi, hanno paura del peggio, i volontari temono di danneggiare i detenuti o considerano normale prassi carceraria la violenza fisica e morale sui detenuti.
A noi sembra invece che se le illegalità rimangono nell'ombra possono continuare a ripetersi. Non c'è sufficiente consapevolezza dell'illegalità di ogni azione violenta sui detenuti e non si conosce abbastanza l'ammonimento della Costituzione secondo cui "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (articolo 13, quarto comma). Anche se può sembrare superfluo, vogliamo qui ricordare che fra i compiti della polizia penitenziaria c'è anche quello di partecipare al trattamento rieducativo dei detenuti (legge 395/1990 articolo 5 comma 2)".
Il gruppo Calamandrana precisa che "nel gergo carcerario viene chiamata "squadretta" un gruppo preciso di agenti penitenziari, che viene collegato alla triste piaga dei pestaggi". E chiede che chi ne ha l'autorità faccia chiarezza sul fenomeno. Ecco alcune domande urgenti: "La competenza delle "squadrette locali" è il ristabilimento dell'ordine turbato o la somministrazione di punizioni aggiuntive extragiudiziali? Delle sue uscite "la squadretta" redige un verbale? Se sì, a chi ne viene inviata copia? La magistratura di sorveglianza viene informata? Perché i componenti della "squadretta" indossano i guanti? Il personale medico che stila certificati compiacenti, tacendo le cause dei danni fisici, è da considerare connivente? Circa i detenuti che testimoniano su violenze inflitte ad altri: come evitare che subiscano ritorsioni (rapporti o trasferimenti)? Come esporre querela per gli insulti subìti durante i pestaggi? (a tema razziale, religioso, sessuale). La direzione fa sempre indagini quando ci sono sospetti di reati di violenza, i risultati di queste indagini come possono essere resi pubblici? La loro pubblicazione potrebbe influire sull'immagine che si ha del carcere come luogo dove si rispetta la legalità?".
A sostegno di queste affermazioni, il gruppo riporta alcune considerazioni di Valerio Onida - presidente emerito della Corte Costituzionale, ora membro dello Sportello giuridico del carcere di Bollate - tratte dall'articolo "Restrizioni e legalità", apparso sulla rivista "Carcere e Diritti", n. 4-5 luglio-ottobre 2006. "Nulla come la condizione carceraria evoca l'esigenza e la necessità di assicurare la piena legalità - scrive Onida - poiché non solo "l'imperio" della legge non si ferma alle porte del carcere, ma, al contrario, dietro quelle porte la legge si impone più che mai. Naturalmente, perché questo "imperio" si realizzi, non basta che le leggi ci siano: occorre che esse siano, in concreto, applicate e rispettate. E che, quando qualcuno le vìola, operino effettivamente i rimedi, i meccanismi di riparazione o sanzione previsti.
Ecco perché lo sforzo di affermare e salvaguardare la legalità, anche nelle carceri, non si può esaurire nella induzione di norme: questa è solo la premessa, mentre poi occorre preoccuparsi di adeguare la realtà a ciò che le norme prescrivono, cioè di creare le condizioni - materiali (risorse), organizzative (personale con relativi adeguati poteri, compiti e responsabilità), culturali (formazione degli operatori, rottura dell'isolamento rispetto alla società) - perché le leggi non restino sulla carta e si attuino gli obiettivi cui esse tendono".
"L'articolo 35 della legge penitenziaria 354 del 1975 - scrive ancora Onida - sancisce il "diritto di reclamo" del detenuto, che può rivolgersi a diverse autorità. Prima ancora che dalle leggi, la condizione dei detenuti è presa in considerazione dalla Costituzione. Infatti la Costituzione stabilisce i princìpi e le regole essenziali della legalità, i diritti 'inviolabili' delle persone e i loro doveri inderogabili. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (articolo 27, terzo comma).
Tutte le norme ricordate muovono da una premessa fondamentale: il detenuto è una persona, la cui dignità e i cui diritti - naturalmente quei diritti che non sono momentaneamente compressi o limitati per effetto della pena - debbono essere salvaguardati e difesi. Anzi, la situazione di restrizione della libertà in cui il detenuto si trova lo rende più debole, per così dire più esposto: come ha detto la Corte costituzionale, "quanto più (...) la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l'attenzione per evitare che questi si verifichino" (sentenza 526 del 2000). Per questo la Costituzione ammonisce che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (articolo 13, quarto comma).
"Chi conosce la situazione concreta nelle carceri italiane - riflette Onida - ne parla spesso in termini drammatici. Il sovraffollamento, la vetustà di molte strutture, le carenze di personale e di risorse, la difficoltà di organizzare e di assicurare ai detenuti il lavoro, tanti fattori negativi che pesano. Può sembrare allora illusione o pura retorica, in questa situazione, parlare dei diritti dei detenuti e della loro protezione costituzionale.
Ma non lo è: pur con tutte le difficoltà che le situazioni di fatto possono offrire, è essenziale mantenere chiaro - e battersi per attuarlo - il principio per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone, rispettate come tali, che scontano una pena legalmente inflitta, sono messe in grado di cercare e di percorrere la via del loro riscatto e del loro reingresso nella comunità dei liberi. È necessario, prima di tutto, crederci. Per informazioni, segnalazioni e adesioni ci si può rivolgere a Gruppo Calamandrana, e-mail: gruppocalamandrana@email.it; sito internet: http://calamandrana.interfree.it.