Gemma Calabresi, che cosa vi siete dette lei e Licia Pinelli?
"Che avremmo dovuto farlo prima. Non aspettare quarant'anni per incontrarci, per parlarci. Parlare della sofferenza, della morte, dei nostri compagni perduti, dei figli, dei nipoti, della nostra vita fin qui. Le ho raccontato ciò che ho ripetuto tante volte ai miei ragazzi: non dimenticate mai che quell'uomo una sera non è più tornato a casa dalle sue bambine. Come vostro padre".
E che cosa le ha risposto la signora Pinelli?
"Che per quarant'anni ha pensato la stessa cosa, che si è domandata un sacco di volte: perché non vado dalla vedova Calabresi? Che forse l'ha trattenuta il timore di essere sfrontata. Mi ha detto: "Sa, siamo venute a Roma sullo stesso aereo...". Le ho risposto che mi è spiaciuto non averla riconosciuta, avremmo potuto parlare a lungo in privato, lontane da giornalisti, televisioni e fotografi. Sarebbe stato bello".
Che cosa avete perso dentro questo lungo silenzio?
"Non lo so, è difficile trovare una risposta nel mio cuore di oggi così pieno di sensazioni. Credo che entrambe avremmo potuto vivere meglio, allontanare un po' il dolore. La storia purtroppo ci ha divise, affidandoci il ruolo di vedove separate. Personalmente, e parlo soltanto per me, sono stata anche frenata da un errato pudore, forse dalla paura di deludere qualcuno. Grazie al presidente Napolitano credo di poter affermare che adesso abbiamo sgomberato la nostra memoria familiare, restituendole un po' di luce. Condivido le parole pronunciate al Quirinale da monsignor Giorgio Nencini: siamo qui non per odiare assieme, ma insieme per amare".
Serve coraggio per pronunciare la parola pacificazione. La vostra stretta di mano diventerà un simbolo di una dolorosa storia italiana. Coraggiose sono le parole di altre vittime del terrorismo, penso per esempio ai figli di Walter Tobagi che invitano a chiudere una stagione di odio e rancore. Eppure c'è chi, anche all'interno delle associazioni dei familiari, rimane su posizioni più intransigenti e dice no alla riconciliazione. Sbagliano?
"È una scelta che rispetto e che non mi permetto di giudicare. La libertà di pensiero è il dono più grande che ci è stato dato. Non obbligo nessuno a seguire la mia strada. Io sono cattolica, ho avuto la fede sin da quando ero una bambina e l'ho avuta più forte ancora dopo la morte di Gigi. Da allora ho cercato di camminare, di non restare ferma, di non pensare sempre a quel giorno. Ho perdonato, l'ho fatto con Leonardo Marino".
Napolitano ha detto che sulle stragi le verità sono ancora incomplete e la vedova Pinelli ha chiesto che si riaprano le carte su piazza Fontana e sulla morte di suo marito. È d'accordo?
"Io ho dovuto seguire il "mio" processo e so che un processo ti può distruggere. Se ci sono verità parziali è giusto pretendere che sia fatta completa chiarezza. È l'unico modo per rafforzare nei cittadini il senso dello Stato, la credibilità della magistratura e delle sentenze. Le parole pronunciate dal presidente della Repubblica sono state importantissime. Significativa è stata la sua evidente commozione quando ha ricordato la figura di Pinelli, anche lui una vittima, come mio marito. L'immagine di queste due famiglie pacificate davanti alla più solenne carica dello Stato può diventare un simbolo per il Paese".
Qual è stato il momento più emozionante?
"In verità sono stati due. Il primo quando Claudia, la figlia di Licia Pinelli, ha visto me e mio figlio Mario e ha esclamato "incredibile". Il secondo quando la vedova Pinelli e io ci siamo guardate. Quello sguardo mi ha fatto balzare il cuore in gola, le parole poi hanno sciolto il nodo".
L'ultimo libro di Adriano Sofri si intitola "La notte che Pinelli" e ricostruisce proprio la morte dell'anarchico milanese. Sofri scrive: "Di nessun atto terroristico degli anni '70 mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, Calabresi sarai suicidato". Che cosa ha pensato leggendo queste parole?
"Che forse anche Sofri sta facendo un suo cammino. E se è così mi fa piacere".