Le parole e prima ancora il gesto. Le parole del presidente della Repubblica: «Onore a Pino Pinelli, vittima due volte». Il gesto ripreso dai flash quello di Gemma Capra, la vedova del commissario Luigi Calabresi, che nell'attesa dell'inizio della cerimonia ufficiale in ricordo delle vittime del terrorismo si alza e va a stringere la mano di Licia Rognini, la vedova di Pino Pinelli. Le dice: «Finalmente».
Non c'è spazio per scuse e perdoni impossibili, non si parla di torti e di ragioni, in una giornata come questa che ha voluto Giorgio Napolitano le parole sono altre: «Ricomposizione storica» e «coesione nazionale». Guardiamo avanti, dice il capo dello stato «portando il peso» di una giustizia incompiuta. Vittime sono la signora Rognini e le sue figlie. Ci sono voluti quarant'anni perché un capo dello stato riuscisse a dichiarare Pinelli «la diciottesima vittima di piazza Fontana». La verità su quella notte in questura nessuno gliel'ha mai raccontata. Come non l'hanno mai raccontata a familiari dei morti della banca dell'agricoltura: quattro anni fa la parola fine a un processo senza colpevoli. E vittime sono la moglie e i figli di Luigi Calabresi: anche se a loro la giustizia ha consegnato i nomi dei colpevoli ma la verità no, nemmeno a loro.
Al Quirinale Napolitano raccomanda ai parenti delle vittime «lo sforzo difficile, penoso e duro di riuscire a guardare avanti senza dimenticare quello che è accaduto ma superando ogni istintivo rancore». Lo chiede «per sventare ogni rischio che tornino i fantasmi del passato». Ma il capo dello stato riconosce che lo sforzo è tanto più difficile in assenza di una verità giudiziaria. «Si incrociarono in Italia diverse trame eversive - è la sintesi di Napolitano - da un lato di destra neofascista e di impronta reazionaria con connivenze anche in seno ad apparati dello stato, dall'altro di sinistra estremista e rivoluzionaria». Piazza Fontana segno «l'avvio di un'oscura strategia della tensione e di una lunga e tormentatissima vicenda di indagini e di processi da cui non si è riusciti a far scaturire una esauriente verità giudiziaria».
Di processi per la bomba del 12 dicembre 1969 ce ne sono stati tre, ognuno con differenti gradi di giudizio, e in quattro città diverse: Roma, Catanzaro, Bari e Milano. Nessuno è stato condannato in maniera definitiva, anche se la Cassazione ha stabilito che «la genesi è oscura» ma la firma è quella ordinovista. Gli esecutori materiali, Franco Freda e Giovanni Ventura, sono stati persino individuati ma non condannati perché assolti definitivamente nel 1987 non sono processabili per lo stesso reato.
Napolitano si è rivolto ai familiari delle vittime del terrorismo riconoscendo che «lo stato democratico nel quale abbiamo sempre vissuto» porta la responsabilità del mancato perseguimento e della mancata sanzione «delle responsabilità penali per fatti orribili di distruzione di vite umane». Ai parenti delle vittime dunque il capo dello stato ha offerto solidarietà non solo per «le atroci perdite personali» ma anche «per ogni ambiguità e insufficienza di risposte alle loro aspettative e ai loro appelli».
«Finalmente, dopo quarant'anni, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi. Finalmente due famiglie si ritrovano». Così Gemma Capra si è rivolta a Licia Rognini nel salone del Quirinale. «La ringrazio - ha risposto la vedova del ferroviere anarchico alla vedova del commissario di polizia che lo interrogò - sono contenta anch'io. Facciamo che non siano passati tutti questi anni». E Giorgio Napolitano ha espresso «rispetto e omaggio per la figura di un innocente, Pino Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine». Il capo dello stato ha voluto così «compiere un gesto politico e istituzionale, rompere il silenzio su una ferita non separabile da quella dei diciassette che persero la vita a piazza Fontana e sul nome di un uomo di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendola alla rimozione e all'oblio». Eppure con questo gesto arrivato dopo quarant'anni, Napolitano ha chiarito di «non voler riaprire o rimettere in questione un processo la cui conclusione porta il nome di un magistrato di indiscutibile scrupolo e indipendenza». In realtà non ci fu alcun processo, ma solo un'indagine chiusa con il proscioglimento in istruttoria del commissario Calabresi e di altri cinque agenti presenti nella stanza della questura con Pinelli, tutti indagati per omicidio. La formula con cui il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio chiuse la vicenda nell'ottobre del 1975 è quella notissima del «malore attivo».