In questi giorni si è acceso il dibattito sulla vicenda della morte di Giuseppe Pinelli a partire da un articolo di Adriano Sofri sul Foglio, dove, tra l'altro, si fa riferimento all'intervista rilasciata da Licia Pinelli nel libro "La piuma e la montagna", da noi curato e di prossima uscita con manifestolibri. Quell'intervista, prima ancora della sua pubblicazione, corre il rischio di trasformarsi nella miccia che, nel riaccendere il dibattito su quegli anni, porti di nuovo all'affermazione della logica del "muro contro muro", riproponendo dinamiche appartenenti ad una fase politica ormai ben lontana. Capiamo che la delicatezza del tema (più corretto sarebbe parlare di temi, fra loro connessi, da Piazza Fontana alla condanna di Sofri, passando per le morti di Pinelli e Calabresi) possa portare le persone coinvolte a reagire, ogni volta che l'argomento viene ripreso, in modo passionale e viscerale, ma crediamo che tutto questo vada contro la necessaria riflessione su quei tempi, stando ben attenti a non ricreare gli schieramenti di allora.
Ma andiamo con ordine, partendo proprio dall'intervista a D'Ambrosio di sabato scorso [nota: su "Il Riformista"]. A molte affermazioni ha già risposto lucidamente Adriano Sofri il 22 settembre 2008, sempre su questo giornale, e ci limitiamo a qualche sottolineatura. E' inesatto affermare che la signora Pinelli sarebbe tornata a sostenere certe tesi "dopo che Sofri ha riaperto il caso". L'intervista a Licia è del gennaio 2008, per cui la consecuzione logica e temporale con cui si sono riaccesi i riflettori sulla vicenda è ben diversa.
Sull'indignazione di D'Ambrosio di fronte alla formula del "malore attivo", che lui sostiene di non avere mai utilizzato, diremo che se Sofri, nel titolo del suo libro del 96 che raccoglieva e commentava la sentenza del 75, ha parlato di "malore attivo" non ha detto una falsità. Ha solo semplificato e sintetizzato quella che nel dispositivo fu definita l'ipotesi più verosimile per la caduta di Pinelli, una semplificazione aderente ai concetti che in quella sede venivano espressi (dove si parla di "precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio").
Irrita maggiormente, nell'intervista a D'Ambrosio, l'adombrata esistenza di una "lobby per Pinelli".
Non solo, naturalmente non esiste nessuna lobby, ma Francesco Barilli, che ha curato l'intervista alla Pinelli, ha 42 anni, e non ha vissuto direttamente quei tragici fatti; conosce da tempo Licia e ha seguito il caso del marito per passione civile.
Da quasi quarant'anni la signora Pinelli sostiene che su tutti quelli che collaborarono a quel fermo di polizia terminato tragicamente grava una responsabilità, morale se non penale, nella morte del marito. Tutto questo senza aver mai voluto ricondurre il fatto ad una sorta di guerra "Pinelli contro Calabresi". Proprio quella semplificazione ha già causato abbastanza lutti e dolori.
La morte di Giuseppe Pinelli, riprendendo ancora concetti che Francesco espose al figlio del commissario in una lettera aperta dello scorso luglio, non la si può cristallizzare nell'istante della precipitazione. La vicenda comincia prima di quell'ultimo interrogatorio e finisce dopo. Comincia col suddetto fermo di polizia (svoltosi in termini e modi contrari alla legge e questo lo conferma pure la sentenza, come già ricordato da Sofri). Termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Queste due menzogne, acclarate anche in sede giudiziaria, furono portate avanti nell'immediatezza dei fatti e per diverso tempo in seguito, se non col consenso almeno con l'acquiescenza di tutti quelli che parteciparono a diverso titolo agli interrogatori di Pinelli, nessuno escluso.
Non è nostra volontà tentare una sgradevole graduatoria d'importanza o di gravità fra la campagna denigratoria subita da Pinelli e quella che immediatamente dopo subì Luigi Calabresi (dal tragico esito e giustamente condannata), ma va sottolineato che a quella contro il commissario parteciparono movimenti, intellettuali e artisti, a quella contro il ferroviere anarchico partecipò lo Stato. Forse per questo è stata rimossa dalla memoria collettiva.
Concludiamo rilevando che scopo del nostro libro, come argomentiamo nella presentazione, è quello di fare uscire dall'oblio vicende ormai rimosse, dimenticate, evitando di contrapporre morti a morti, ma valorizzando la scelta di chi allora, come tanti altri, optò per l'impegno pubblico, pagando con la vita. Con la "La piuma e la montagna" abbiamo voluto evidenziare come quel decennio non possa essere riduttivamente definito "anni di piombo" perché l'Italia di allora era anche un Paese attraversato da grandi movimenti di massa che lottavano per diritti sociali oggi sempre più messi in discussione. Il nostro libro, attraverso le testimonianze dei familiari e degli amici di undici uccisi per mano delle forze dell'ordine e dei neofascisti, parla di quell'Italia.
Francesco "baro" Barilli e Sergio Sinigaglia