Caro Francesco,
ti ringrazio per l'invio di questa tua lettera a Mario Calabresi. La pubblicherò volentieri su Miccia corta, perché credo sia un contributo utile alla riflessione, mettendo coraggiosamente - come si suol dire - il dito nella piaga. In questo caso, poi, neppure di metafora si tratta, ma di vere ferite, aperte e infettate. O sarebbe il caso di dire, riaperte e reinfettate. Il dibattito pubblico degli ultimi anni, infatti, credo abbia fatto fare notevoli passi indietro nella direzione di consegnare alla storia quelle terribili e lontane vicende. Di positivo si è prodotta una nuova e vera attenzione alle vittime, dando loro riconoscimento e voce pubblica. Il risvolto negativo è che, contemporaneamente, si è unidimensionata la figura della vittima solo a quanti sono stati colpiti dalle organizzazioni armate delle sinistra. Con ciò chiudendo anche ogni possibile discorso di riconciliazione e preferendo la logica del vae victis. Gli uccisi dalle forze dell'ordine, dagli oltranzisti di destra e dai registi della strategia della tensione sono stati letteralmente rimossi dalla coscienza pubblica e dall'informazione storica. I due ultimi caposaldi di questo processo di revisione storica sono stati, a mio giudizio, il libro di Calabresi (o meglio la gestione politico-mediatica che ne è stata fatta, e giustamente parli di "operazione") e la legge che ha fissato il 9 maggio come Giornata di memoria per le vittime. Ovviamente, non sono in discussione la buona fede e le migliori intenzioni di Sabina Rossa (persona che apprezzo molto) e di Mario Calabresi. Sto dicendo un'altra cosa, ovvero che si è voluto consegnare definitivamente alla Storia una versione falsata e lacunosa dei nostri anni di piombo, finalizzata all'autoassoluzione dello Stato (di quelle sue parti e suoi uomini che hanno gestito, se non promosso la strategia della tensione) e, più in là, di quegli apparati internazionali che nella logica della Guerra fredda e della realpolitik hanno giocato, talvolta favorendole e sempre utilizzandole ai fini della stabilizzazione e della conservazione politica, le degenerazioni armate dei movimenti degli anni Settanta.
Temo che ormai siamo oltre ogni possibilità di contenimento e rettifica di tale processo. Ma, per quanto serve, credo importante continuare a ricordare che se Calabresi è stato la diciottesima vittima di piazza Fontana, Pinelli ne è stato la diciasettesima. Che la storia ha una sua processualità da cui non si può derogare, pena (come in effetti si sta facendo) il ricostruirla a macchie di leopardo e secondo le convenienze dei più forti (ma così perpetuando all'infinito conflitti e lacerazioni, con il rischio concreto che possano riprodurre anche odio e violenza).
In questi ultimi tempi i soli Manlio Milani e Nando Dalla Chiesa hanno parlato della necessità di riconoscere Pinelli come vittima. Sarebbe importante che questa esigenza, di verità e di giustizia, ma anche di spirito riconciliativo, diventasse un coro, una richiesta precisa. Ma non disponendo del "partito di Repubblica" e dell'alta voce del Capo dello Stato, com'è stato per il libro di Calabresi, temo che questa piccola proposta non riuscirà a muovere neppure il primo passo.
un saluto
sergio
ps: circa la morte di Pinelli trovo significativa (dei metodi illegali della polizia) la ricostruzione che ne fa l'ex commissario Achille Serra nel suo libro. Accettandola per buona, penso che quel tipo di condotta, moralmente se non anche giuridicamente, possa qualificarsi come istigazione al suicidio.
Note:
http://www.micciacorta.it/
http://www.lastorianascosta.com/news.php