Fa male sentire che l'umano e profondo dolore che ha segnato le vite di orfani di vittime della lotta armata di fine Settanta prenda, pur negandolo, la via d'un'univoca rivisitazione di quegli anni com'è accaduto ieri sera su Rai Tre. La lettura in diretta di copiosi passi del libro di Mario Calabresi ''Spingendo la notte più in là'' ha offerto un sensibile spaccato di emozioni, immagini, sentimenti e sentimentalismi assolutamente personali e rispettabili, vissuti, nella bellezza e in un malessere a volte compassato altre straziante. Ma ha al tempo ricevuto una banalizzazione nell'operazione politica di utilizzare quel testo ben oltre la stessa giornata della memoria delle vittime del terrorismo già istituita nei mesi scorsi. Non sappiamo se le intenzioni del pacato Calabresi junior e di chi utilizza quei suoi ricordi emotivo-esistenziali vadano oltre la rivendicazione d'uno spazio pubblico nel nome dei propri cari richiesto più volte e a più voci.
Pensiamo che si dovrebbero scindere i due aspetti. L'elaborazione del lutto è questione privata e personale; collettivo e civile può essere il ricordo di periodi della storia politica ma attraverso una lettura né emotiva né di parte. E nella trasmissione di Floris questo distinguo non c'era. Si puntava a dare un'immagine dei Settanta basato sul dolore individuale del proprio vissuto. Partendo dall'omicidio Calabresi che - qualsiasi commentatore politico e lo stesso figlio Mario, oggi affermato giornalista de 'La Repubblica' dovrebbero sapere - non ha nulla a che vedere con la pratica dell'omicidio politico teorizzato nella seconda metà dei Settanta da Br e consimili. Solo la cattiva coscienza di chi fa presunta informazione come Giuliano Ferrara, praticando invece quell'aggressione e demonizzazione dell'avversario rinfacciata ad altri, può lanciare anatemi su quegli anni. Facendo finta di non conoscere un passato che appartiene anche al suo dna.
Dunque i Settanta, anni di passione e violenza, non furono solo questo. Furono lunghi attimi di speranza e di lotta e la deriva e il vicolo cieco dell'eliminazione fisica di avversari veri o presunti praticata dal 'partito armato' - strada sciagurata e improduttiva per quella classe che si voleva orientare a un rovesciamento dello Stato borghese - furono una deriva, non l'unica anima d'un periodo articolato e complesso. La trasmissione della Rai, che ospitava alcuni figli di servitori dello Stato le cui esistenze hanno subìto traumi sicuramente irreparabili e duraturi, sceglieva la scorciatoia d'uno spicciolo revisionismo. Fatto di confusione, pressappochismi, illazioni come affermare che chi sparava al commissario Calabresi era un potenziale terrorista e magari iniziava nel maggio '72 a praticare la lotta armata. Non si mescolano i sentimenti con la storia. E Calabresi, Tobagi, Alessandrini juniores risultavano emozionati e in certi passi impossibilitati al distacco. Parevano non comprendere che gli assassini dei padri erano ormai liberi e intervistati in tivù perché questo avevano deciso leggi d'uno Stato tanto difeso dai loro genitori.
Né il conduttore né un giornalista navigato come Ezio Mauro ricordavano che all'epoca c'era un'Italia fatta di movimenti d'opposizione ad ampia base proletaria - non erano solo gli studenti borghesi a manifestare - contro cui vennero scagliate la strategia della tensione e l'omicidio fascista. Sugli schermi passavano senza commento le immagini delle stragi, senza ricordare quelle vittime, né gli effetti di leggi liberticide come la Reale che diedero vita a un omicidio generalizzato da parte delle Forze dell'Ordine per le strade d'Italia, ben prima che montasse l'azione omicida dei gruppi armati. Insomma per ricordare la notte della Repubblica, spingerla più in là e magari vederla scomparire non serve revisionare l'accaduto. In vari casi i parenti delle vittime dello stragismo e di militanti politici uccisi in quegli anni non conoscono neppure i nomi degli assassini e non li hanno visti condannati. Non hanno scritto libri o se qualcuno l'ha fatto non ha pari diffusione e attenzione, hanno avuto vite spesso meno note e altrettanto dolorose. E non compiono un'elaborazione del lutto televisiva.
Enrico Campofreda, 24 gennaio 2008