26 novembre. Depositate le motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo
per Gaetano Badalamenti, accusato di essere stato il mandante dell’omicidio
di Peppino Impastato.
Riportiamo il testo integrale della sentenza.
Proc. n. 41/99 R.G.C. Assise Sent. n. 10/02
TRIBUNALE DI PALERMO
CORTE DI ASSISE
SEZIONE TERZA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L'anno duemiladue, il giorno undici del mese di Aprile, la Corte di Assise
così composta:
1. Dott. Claudio Dall'Acqua, Presidente
2. Dott. Roberto Binenti , Giudice a latere
3. Sig. Rosanna Giorni, Giudice Popolare
4. Sig. Giovanni Traina , Giudice Popolare
5. Sig. Giovanna Cinà, Giudice Popolare
6. Sig. Domenico Biundo, Giudice Popolare
7. Sig. Giovanna Pollina, Giudice Popolare
8. Sig. Antonio Davì, Giudice Popolare
con l'intervento del Pubblico Ministero rappresentato del Sostituto Procuratore
della Repubblica Dott.ssa Franca Imbergamo e l'assistenza del Cancelliere Dott.ssa
Annamaria Giunta, ha pronunziato la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale
CONTRO
Badalamenti Gaetano , nato a Cinisi il 14.09.1923, difeso di fiducia dagli
Avv.ti Paolo Gullo e Girolamo D'Azzò del Foro di Palermo; detenuto per
altro c/o il Carcere Federale di Fairton - New Jersey USA
presente nell'aula in collegamento audiovisivo con quella di udienza (non comparso
all'atto della lettura del dispositivo a seguito di rinunzia)
IMPUTATO
a) del delitto di cui agli artt. 110, 575, 577 n. 3 c.p. per avere, quali
ideatori e mandanti, in concorso tra loro e con ignoti esecutori materiali,
cagionato, con premeditazione, la morte di Giuseppe Impastato con l'uso di materiale
esplosivo del tipo dinitrotoluene la cui deflagrazione dilaniava la vittima,
provocandone l'immediato decesso;
In Cinisi il 09.05.1978
b) del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 2 e 4 legge 2 ottobre 1967
n. 895 e succ. modif., 61 n. 2 c.p., per avere in concorso tra loro e con ignoti,
con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di
commettere il delitto di cui al capo che precede, illegalmente detenuto e portato
il luogo pubblico materiale esplosivo del tipo dinitrotoluene.
In Cinisi il 09.05.1978
PARTI CIVILI COSTITUITE
Bartolotta Felicia , nata a Cinisi il 24.5.1916, e Impastato Giovanni
, nato a Cinisi il 26.6.1953, rispettivamente madre e fratello di Impastato
Giuseppe, rappresentati e difesi dall'Avv. Vincenzo Gervasi del Foro di Palermo;
Comune di Cinisi , in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato
e difeso dall'Avv. Leonardo Palazzolo;
Regione Siciliana , in persona del Presidente pro-tempore, rappresentata
e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo.
CONCLUSIONI DELLE PARTI
all'udienza del 15.1.2002:
il Pubblico Ministero ha chiesto affermarsi la penale responsabilità
dell'imputato e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, la
condanna dello stesso alla pena dell'ergastolo e alle pene accessorie, nonché
al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore delle
costituite parti civili;
l'Avv. Giangiacomo Palazzolo, in sostituzione dell'Avv. Leonardo Palazzolo,
ha chiesto affermarsi la penale responsabilità dell'imputato e la condanna
dello stesso anche al risarcimento del danno cagionato al Comune di Cinisi,
come da conclusioni scritte depositate;
l'Avv. Vincenzo Gervasi ha chiesto affermarsi la penale responsabilità
dell'imputato e la condanna dello stesso anche al risarcimento del danno cagionato
al Bertorotta Felicia ed Impastato Giovanni, come da conclusioni scritte depositate;
all'udienza del 9.4.2002
l'Avv. Fabio Caserta, per l'Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha chiesto
affermarsi la penale responsabilità dell'imputato e la condanna dello
stesso anche al risarcimento del danno cagionato alla Regione Siciliana, come
da conclusioni scritte depositate;
l'Avv. Girolamo D'Azzò ha chiesto l'assoluzione dell'imputato per non
avere commesso il fatto;
all'udienza del 10.4.2002
l'Avv. Paolo Gullo ha chiesto l'assoluzione dell'imputato ai sensi del comma
I dell'art. 530 c.p.p.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 25.5.1997 il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale
chiedeva il rinvio a giudizio di Badalamenti Gaetano e Palazzolo Vito, affinché
rispondessero dei reati indicati in epigrafe loro contestati in concorso.
Con riguardo alla posizione del primo, detenuto negli Stati Uniti in espiazione
di pena inflitta in quel paese, non si dava corso all'udienza preliminare, poiché,
dopo la sua fissazione, perveniva richiesta di giudizio immediato avanzata dal
difensore dell'imputato, munito di procura speciale ed il G.U.P. presso questo
Tribunale provvedeva in conformità, con decreto emesso il 23.11.1999.
All'udienza del 26.1.2000, fissata per la celebrazione del dibattimento davanti
alla III Sezione della Corte di Assise di questo Tribunale, in composizione
diversa da quella sopra indicata, si prendeva atto che il Badalamenti aveva
fatto presente di voler "partecipare personalmente" al dibattimento
e però non era comparso per il legittimo impedimento dovuto alla detenzione
negli U.S.A. Il processo veniva, pertanto, rinviato all'udienza del 27.4.2000,
riservandosi la Corte di valutare la possibilità prospettata dall'accusa
di assicurare la comparizione dell'imputato all'udienza con le modalità
della "partecipazione al dibattimento a distanza" previste dall'art.
146 bis disp. att. c.p.p.
A seguito dell'astensione dei giudici che originariamente componevano la Corte
e che, al contempo, trattavano il giudizio abbreviato instaurato per gli stessi
fatti a carico di Palazzolo Vito, conformemente a quanto disposto dal Presidente
del Tribunale, era chiamata a celebrare il presente giudizio, all'udienza del
27.4.2000 e fino alla pronunzia della sentenza, la Corte costituita dai giudici
sopra indicati.
Alla predetta udienza del 27.4.2000, presosi preliminarmente atto della persistenza
del legittimo impedimento a comparire dell'imputato a causa del suo stato di
detenzione all'estero, era nuovamente ordinato il rinvio della trattazione.
Contestualmente, la Corte disponeva, però, la "partecipazione al
dibattimento" del Badalamenti "a distanza" ai sensi dell'art.
146 bis c.p.p. disp. att. c.p.p., in forza delle articolate argomentazioni riportate
nell'ordinanza allegata al verbale di udienza, che inducevano a ravvisare la
sussistenza delle seguenti condizioni: si procedeva nei confronti di imputato
detenuto; per un reato contemplato dall'art. 51 comma III bis c.p.p.; erano
state evidenziate ragioni di sicurezza che sconsigliavano la consegna anche
solo temporanea del Badalamenti per consentirne la presenza in aula.
Inoltrando la conseguente "richiesta di assistenza giudiziaria internazionale
in materia penale" ai sensi dell'art. 727 c.p.p., il Presidente della Corte,
con nota del 9.5.2000, chiedeva alle competenti autorità italiane ed
americane che fosse assicurata l'attivazione del collegamento audiovisivo tra
l'aula di udienza ed il luogo di custodia del Badalamenti e che fossero, altresì,
garantite le seguenti condizioni: a)
la continua e reciproca visibilità dell'imputato in USA, da parte della
Corte procedente in Palermo e di questa da parte dell'imputato, per tutta la
durata delle udienze, con facoltà assicurata a quest'ultimo di intervenire
in qualsiasi momento, per rendere dichiarazioni spontanee; b)
collegamento telefonico continuativo, mediante linea riservata, per tutta la
durata di ogni udienza, tra l'imputato presente nella postazione in USA e il
suo difensore che fosse presente nell'aula della Corte di Assise; c)
possibilità per detto difensore di accedere nella postazione videocollegata
ove si fosse trovato il Badalamenti e di colloquiare con lui, durante la celebrazione
dell'udienza; d)
disponibilità di un ufficiale di polizia giudiziaria italiano (da individuarsi
tramite accordi con il Ministero di Giustizia e altri uffici competenti anche
aventi sede in USA), che potesse accedere in occasione dell'udienza presso la
postazione viedocollegata ove si fosse trovato l'imputato, onde procedere alle
operazioni di verbalizzazione previste dalla legge (art. 146 bis comma VI disp.
att. c.p.p.).
L'assenso a tali condizioni veniva prestato anche dalle Autorità USA,
potendosi ravvisare una di quelle forme di assistenza "compatibili con
la legislazione dello Stato richiesto" menzionate dall'ultima parte del
comma II dell'art. 1 del "Trattato di mutua assistenza in materia penale
tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo degli Stati Uniti d'America",
sottoscritto a Roma il 9.11.1982.
Come la Corte aveva modo di precisare, in diverse ordinanze rese nel corso delle
successive udienze in cui veniva assicurata la "partecipazione a distanza"
dell'imputato con l'osservanza delle modalità di cui sopra, trattandosi
di attività processuale svolta direttamente davanti al giudice italiano
e secondo le norme proprie del processo celebrato in Italia, senza alcuna interferenza
da parte delle autorità degli Stati Uniti chiamate solamente a garantire
la chiesta assistenza ai fini dell'espletamento dell'attività giurisdizionale
in Italia davanti al giudice italiano, il Badalamenti avrebbe potuto essere
difeso, nei modi indicati dall'art. 146 bis c.p.p., esclusivamente dai suoi
legali abilitati ad assisterlo, secondo la legge italiana, davanti all'autorità
italiana.
Così come non si mancava di osservare, a seguito di specifiche doglianze,
che l'imputato avrebbe potuto esercitare pienamente il suo diritto di difesa
nel corso del dibattimento, rendendo direttamente davanti al giudice italiano
dichiarazioni spontanee (come è avvenuto) e l'esame (ove avesse voluto
sottoporsi a tale atto), previa assicurazione delle particolari condizioni prescritte
dal menzionato articolo 146 bis (presenza di un ausiliario abilitato ad assistere
il giudice in udienza).
Sicché, si faceva notare che, trattandosi di attività giurisdizionale
espletata nell'aula di udienza italiana, con la collaborazione degli Stati Uniti
ai soli fini dell'attivazione del video-collegamento nei modi richiesti, alcun
pregiudizio sarebbe potuto derivare - in applicazione della legge di quel paese
- dal libero esercizio del diritto di difesa.
Ciò nonostante, tali questioni venivano riproposte dalla difesa all'udienza
del 28.6.2001, eccependosi, sotto altro aspetto, la nullità degli atti
fino a quel momento espletati, in quanto il presente processo a carico del Badalamenti
sarebbe stato instaurato in Italia in violazione del principio di specialità
dettato in materia di estradizione dagli artt. 699, 721 c.p.p., 14 e 15 della
"Convenzione europea di estradizione", resa esecutiva in Italia con
la legge 30 gennaio 1960, n. 300.
Ma, la Corte, con ordinanza resa nel corso della medesima udienza, al cui contenuto
in questa sede va fatto riferimento, disattendeva anche tale ulteriore eccezione,
evidenziando come fosse, comunque, improprio il richiamo agli obblighi previsti
dalle norme di cui sopra, essendo essi operanti, quale particolare limite all'esercizio
della giurisdizione, solo in caso di concessione di estradizione e cioè
della consegna dell'imputato allo Stato italiano (nella specie non avvenuta).
In seguito, la difesa reiterava le sue doglianze, lamentando anche l'illegittimità
costituzionale dell'art. 146 bis disp. att. c.p.p., senza però considerare
che la Corte Costituzionale era stata già chiamata ad esprimersi su detta
norma, dichiarando infondate analoghe questioni.
Peraltro, questa Corte, nella motivazione dell'ordinanza resa all'udienza del
4.12.2001 con la quale era dichiarata manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale, evidenziava che nel frattempo la materia
era stata espressamente regolata dall'art. 16 della Legge 5 ottobre 2001, n.
367, che, introducendo nelle disp. att. del c.p.p. l'art. 205 ter, prevedeva
espressamente la "partecipazione al processo a distanza per l'imputato
detenuto all'estero", proprio nelle ipotesi di cui all'art. 146 bis disp.
att. c.p.p. e con le modalità richieste, assentite e concretamente assicurate
nel presente giudizio, coerentemente agli accordi internazionali di cui al Trattato
con gli Stati Uniti del 1960 ed alla normativa interna italiana e degli Stati
Uniti.
E si noti che, anzi, l'art. 205 ter disp. att. c.p.p. prescriveva tassativamente
che "La detenzione dell'imputato all'estero non può comportare la
sospensione o il differimento dell'udienza quando è possibile la partecipazione
all'udienza in collegamento audiovisivo…".
Né va omesso di considerare, a riprova che si tratta di attività
giurisdizionale che si svolge esclusivamente davanti all'autorità giudiziaria
italiana, che, alla stregua di quanto ora previsto dall'art. 384 bis c.p. introdotto
dall'art. 17 della Legge 5.10.2001, n. 367, i delitti di cui agli artt. 366,
367, 368, 369, 371 bis, 372 e 373 c.p., consumati in occasione di collegamenti
audiovisivi come quello di cui al citato art. 205 bis disp. att. c.p.p., vanno
considerati, a tutti gli effetti, commessi nel territorio dello Stato e puniti
secondo la legge italiana.
Altre questioni attinenti alla corretta instaurazione del rapporto processuale,
sotto il profilo della regolarità delle notifiche all'imputato, erano
poste dalla difesa all'udienza del 21.9.2000 e disattese dalla Corte con ordinanza
resa nel corso di tale udienza cui può farsi rinvio.
Indi, nella medesima udienza, erano ammesse le costituzioni di parte civile
suindicate e dichiarate invece inammissibili (e dunque escluse) quelle proposte
dall'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, dal Centro Siciliano di Documentazione
e dal Partito di Rifondazione Comunista.
Con la stessa ordinanza, la Corte provvedeva anche in ordine alle questioni
attinenti alla formazione del fascicolo del dibattimento.
Dopo l'ammissione dei mezzi di prova richiesti dalle parti, aveva inizio l'istruzione
dibattimentale, con l'audizione all'udienza del 21.10.2000 di alcuni dei testi
indicati dall'accusa; istruzione che si svolgeva nel corso di numerose udienze
ove erano escussi altri testi ed imputati in procedimento connesso già
ammessi e che dava luogo anche all'acquisizione di numerosi documenti, di atti
irripetibili e di altri atti di indagini (in quest'ultimo caso previo consenso
delle parti), nonché all'ammissione ed all'espletamento dell'esame di
testimoni ed imputati in procedimenti connesso non inizialmente indicati dalle
parti.
Con ordinanza resa all'udienza del 24.7.2001, la Corte, avvalendosi tuttavia
dei poteri di cui all'ultima parte del comma IV dell'art. 495 c.p.p., revocava
l'ammissione di alcune prove addotte dalla difesa, divenute superflue in considerazione
dell'istruzione già espletata.
All'udienza del 15.1.2002, erano indicati gli atti utilizzabili per la decisione
e si dava atto dell'ultimazione dell'assunzione delle prove.
Esaurita la discussione, che si svolgeva nel corso delle udienze sopra indicate,
il Presidente, all'udienza del 10.4.2002, dichiarava chiuso il dibattimento;
sicché la Corte, previo allontanamento dei giudici popolari supplenti,
si ritirava in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza, pubblicata
il 11.4.2002, mediante la lettura del dispositivo da parte del Presidente, in
pubblica udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza emessa il 19.5.1984 ed acquisita all'udienza del 20.2.2001,
il Giudice Istruttore di questo Tribunale dichiarava non doversi procedere in
ordine all'omicidio premeditato di Giuseppe Impastato ed ai connessi delitti
di porto e detenzione illegale di esplosivo, per essere rimasti ignoti gli autori
di detti reati.
In quel provvedimento, preliminarmente, si procedeva alla puntuale esposizione
dell'esito delle indagini inizialmente espletate, richiamandosi atti quasi tutti
acquisiti al fascicolo del dibattimento di questo processo (e dunque qui utilizzabili)
e sul cui contenuto si sono, comunque, soffermati diversi testi escussi davanti
a questa Corte.
In particolare, il Giudice Istruttore evidenziava quanto segue:
"Alle ore 1,40 del 9 maggio 1978 il macchinista delle FF.SS. Sdegno
Gaetano, transitando colla propria locomotiva in località "Feudo"
di Cinisi, avvertiva un forte scossone e, fermatosi, constatava che un tratto
di rotaia era tranciato, del che avvertiva il Dirigente della stazione ferroviaria
di Cinisi, Puleo Giuseppe.
Questi ne informava per telefono, alle ore 3,45, i Carabinieri del luogo, che
procedevano ad un immediato sopralluogo …, nel corso del quale si accertava:
1) che la rotaia del binario (unico) lato monte era tranciata e divelta per
un tratto di circa 40 cm. e sotto di essa si era formata una grossa buca con
spostamento della traversa di legno;
2) che nel raggio di 300 metri erano sparsi brandelli di resti umani e di indumenti,
nonché frammenti del tratto di rotaia divelto;
3) che a circa 20 metri dal punto dell'esplosione si trovava l'autovettura Fiat
850 targata PA/142453, dal cui cofano socchiuso fuoriusciva un cavo telefonico
per un tratto di circa un metro, collegato - ad un'estremità - ai morsetti
della batteria, mentre l'altra estremità, priva della guaina di protezione,
era poggiata sul cofano in direzione dello sportello destro del veicolo. All'interno
della vettura si rinveniva una matassa di cavo telefonico, dello stesso tipo
del tratto sopradescritto, lunga circa 20 metri e colle estremità prive
di guaina ….
Risultava che l'autovettura apparteneva a Bartolotta Fara, che l'aveva concessa
in uso al nipote Impastato Giuseppe. Questo particolare ed il riconoscimento
degli indumenti da parte dei congiunti consentivano di stabilire con certezza
che la persona deceduta in conseguenza dell'esplosione si identificava proprio
nel giovane Impastato Giuseppe.
La Bartolotta Fara, zia materna del giovane, riferiva che suo nipote aveva vissuto
con lei sin dalla tenera età e che il giorno 8 maggio egli era uscito
di casa alle ore 10 circa, alla guida dell'autovettura "Fiat 850"
di cui aveva la piena disponibilità e che da quel momento ella non aveva
più visto.
Precisava - inoltre - la donna che il nipote era di carattere chiuso e totalmente
dedito all'attività politica, quale militante (e segretario politico
locale) nel partito di "Democrazia Proletaria", pur se negli ultimi
tempi se ne era mostrato "deluso".
Nel corso di una perquisizione domiciliare venivano rinvenute, nel cassetto
del comodino della camera da letto dell'Impastato, cinque lettere, risalenti
al novembre del 1973 (di cui tre indirizzate al predetto e due al suo compagno
di partito La Fata Giampiero) e contenenti minacce contro i destinatari ed i
loro "amici comunisti" per l'attività da essi svolta tra i
muratori di Cinisi, nonché un manoscritto di tre fogli a firma "Giuseppe",
riconosciuto da Impastato Giovanni come autentica ed appartenente al defunto
suo fratello. Tale manoscritto, recante espressioni rivelatrici di una profonda
crisi umana e politica (vi si parla - tra l'altro - di "fallimento come
uomo e rivoluzionario") ed altre duramente critiche verso le posizioni
assunte da alcuni compagni di fede politica, peraltro non nominati, sembrava
rivelare anche chiari propositi suicidi, come appariva dalle frasi: "…
medito sull'opportunità, o forse sulla necessità, di "abbandonare"
la politica e la vita … Ho cominciato esattamente il 13 febbraio …
Non voglio funerali di alcun genere. Dal punto di morte all'obitorio. Gradirei
tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica
latrina della città…".
Nel corso delle indagini venivano interrogati dalla Polizia giudiziaria diversi
compagni di partito dell'Impastato Giuseppe, i quali si manifestavano quasi
tutti concordi nel negare che fossero mai sorti seri contrasti, all'interno
del gruppo, circa la linea politica da seguire e nell'esprimere il convincimento
che il loro compagno fosse stato ucciso a motivo delle sue ripetute denunce
a carico della mafia locale e delle speculazioni - soprattutto edilizie - da
essa effettuate e che gli autori dell'omicidio avessero poi cercato di far apparire
l'Impastato come protagonista o vittima di un attentato terroristico.
Le dichiarazioni più articolate ed interessanti venivano rese dal La
Fata Pietro e dal Di Maggio Faro, entrambi aderenti alla lista di "Democrazia
Proletaria" presentata per le elezioni amministrative indette per il 14
maggio 1978.
Il La Fata, pur escludendo l'esistenza di contrapposizioni od atteggiamenti
polemici in seno al gruppo politico di comune appartenenza, precisava che da
circa un anno Impastato Giuseppe "si era una po' allontanato", ossia
aveva diradato i contatti con i propri compagni, e che la data del "13
febbraio" indicata nello scritto lasciato dal predetto andava riferita
ad una manifestazione pubblica organizzata, colla denominazione di animazioneteatrale",
dal gruppo di "Democrazia Proletaria" nella piazza di Terrasini, e
dalla quale l'Impastato si era dissociato, senza peraltro spiegarne i motivi.
Affermava infine il La Fata di ritenere che l'Impastato fosse stato ucciso ad
opera della mafia locale, cui lo stesso faceva carico - anche pubblicamente
- di "speculazioni varie come lottizzazioni, edilizia, cave, scempio delle
coste del litorale"; aggiungeva che nel 1977 l'Impastato aveva apertamente
accusato - in un volantino - tale Finazzo Giuseppe, legato al noto mafioso Gaetano
Badalamenti, di avere presentato un progetto per la illegale costruzione di
un edificio di cinque piani, progetto poi non approvato a seguito di detta pubblica
denuncia.
Il Di Maggio, dal canto suo, pur confermando la mancata partecipazione dell'Impastato
alla manifestazione "Animazione Teatrale" tenuta in Terrasini dal
gruppo "la domenica successiva a quella di carnevale" del 1978, dichiarava
di ritenere che la data del "13 febbraio" indicata nello scritto di
cui si è detto fosse da ricollegare ad una manifestazione degli "indiani
metropolitani" svoltasi a Palermo nel febbraio 1977 e ritenuta dal defunto
compagno "una ridicola mistificazione".
Precisava, inoltre, il Di Maggio che i rapporti in seno al gruppo erano cordiali
e che se qualche polemica divideva l'Impastato dai compagni essa era dovuta
al suo "senso esasperato della politica, dove era molto preparato",
mentre "gli altri intendevano valorizzare anche la vita personale".
Identico motivo, a giudizio del Di Maggio, stava alla base delle dimissioni
dell'Impastato, nel gennaio-febbraio 1978, dalla carica di direttore responsabile
della radio "Aut" con sede in Terrasini, carica nella quale gli era
succeduto Cavataio Benedetto, pur continuando l'Impastato a dare il proprio
contributo ai programmi, "tendenti a denunciare in chiave satirica speculazioni
mafiose".
Dichiarava infine il Di Maggio di avere appreso dallo stesso Impastato delle
minacce da quest'ultimo ricevute, e che lo inducevano ad escludere, in ordine
alla morte del compagno, le ipotesi del suicidio e dell'evento accidentale;
e chiariva di avere egli stesso fornito e sistemato i cavetti telefonici rinvenuti
nell'autovettura usata dall'Impastato, e destinati ad alimentare, mediante collegamento
alla batteria dell'auto, l'amplificatore posto sul sedile del veicolo ed usato
per il comizio elettorale tenuto dal gruppo il 7 maggio in Cinisi.
Riferendo - con rapporto del 10/5/1978 - alla Procura della Repubblica in sede
circa le indagini come sopra svolte, il Comandante del Reparto Operativo del
Gruppo Carabinieri di Palermo Magg. Subranni accreditava - conclusivamente -
l'ipotesi che l'Impastato, dopo essere uscito dalla sede della radio "Aut"
verso le 20,12 del dì 8 maggio (come era risultato per concordi testimonianze),
avesse rinunziato a partecipare alla riunione che nella stessa sede avrebbe
dovuto tenersi verso le ore 21, e, "dopo avere riflettuto ancora una volta
su quello che egli stesso aveva definito un fallimento, avesse progettato ed
attuato l'attentato dinamitardo alla linea ferroviaria in modo da legare il
ricordo della sua morte ad un fatto eclatante".
Dunque, nel corso delle iniziali indagini si contrapponevano due tesi: quella
dei Carabinieri consacrata negli atti ufficiali diretti all'A.G. e quella degli
amici e compagni di partito di Giuseppe Impastato.
Questi ultimi, resisi conto dell'orientamento assunto dai Carabinieri, non mancavano
di cercare altri interlocutori che potessero dare il giusto peso alla loro ipotesi
alternativa, onde scongiurare il pericolo che il caso fosse frettolosamente
archiviato come uno dei tanti tragici episodi dell'epoca ricollegabili, in un
modo o nell'altro, all'attività eversiva dei gruppi terroristici dell'area
dell'estrema sinistra.
Veniva così presentato in data 11.5.1978 un esposto al Procuratore della
Repubblica firmato dagli studenti universitari Carlotta Francesco, Barbera Giovanni
e Bonsangue Paola, ove era confutata la tesi dell'attentato e sostenuta invece
quella dell'omicidio premeditato.
Ma, i compagni di Impastato non si limitavano alle rimostranze.
Ed infatti, come si legge nella citata sentenza resa dal G.I.:
"Nel pomeriggio del 12 maggio (secondo quanto si evince dalla deposizione
resa ai Carabinieri il 16 maggio 1978 dal prof. Del Carpio…) lo studente
Carlotta, sopramenzionato, assieme ad altro giovane, si recava presso l'Istituto
di Medicina Legale ed ivi consegnava al predetto Prof. Del Carpio Ideale, libero
docente, un sacchetto di plastica contenente alcuni resti umani ed una pietra
avvolta in carta, spiegando che i resti umani erano stati da loro recuperati
sul luogo della esplosione, mentre il sasso era stato divelto da un "locale
a nord della casa rurale. Il prof. Del Carpio provvedeva a conservare nella
cella frigorifera i resti umani ed a custodire la pietra, in attesa di disposizioni
da parte del Magistrato.
La mattina successiva il Sostituto Procuratore della Repubblica Dott. Scozzari
(evidentemente avvertito - la sera precedente - dal prof. Del Carpio), accompagnato
da alcuni Ufficiali di Polizia Giudiziaria, da elementi della Squadra Scientifica
dei Carabinieri di Palermo, dai due periti medico - legali già officiati
con verbali del 9 e 10 maggio …(ndr. si tratta del Dott. Procaccianti e
del Dott. Caruso), nonché dallo stesso Prof. Del Carpio, indicato nel
verbale di ispezione dei luoghi come "consulente tecnico di parte già
nominato" …, si recava nel luogo dell'esplosione "e precisamente
nella costruzione abbandonata in prossimità della quale fu rinvenuta
l'autovettura Fiat 850 che era nel possesso di Impastato Giuseppe; questo al
fine di accertare la esistenza di ulteriori tracce ed, in particolare, delle
asserite tracce di sangue che sarebbero state rinvenute da taluni giovani che,
eseguita una loro ispezione, effettivamente rinvennero una mano umana ed altri
frammenti organici e ritennero di avere rinvenuto, nell'interno del caseggiato
predetto, tracce di sangue umano".
Presenziavano all'ispezione dei luoghi anche il La Fata Pietro, più volte
menzionato, e tale Lo Duca Vito, facenti parte del predetto gruppo di giovani,
e convocati per indicare i luoghi in cui avevano compiuto le loro ricerche ed
il punto del caseggiato ove sarebbe stata da essi rinvenuta su di un sasso,
e quindi asportata e consegnata al Prof. Del Carpio, la ricordata traccia di
sangue. In un caseggiato abbandonato, in prossimità del luogo in cui
era stata rinvenuta la "Fiat 850" usata dall'Impastato, i due giovani
indicavano il punto in cui, nel vano con ingresso da lato sud, era stata da
essi asportata la pietra recante le asserite tracce di sangue e facenti parte
della pavimentazione del vano, a 15 cm. circa dello spigolo di un sedile di
pietra esistente in un angolo del vano stesso; veniva - altresì - asportata
e repertata altra pietra, saldamente infissa nel terreno, e recante una traccia
rossastra che i periti ritenevano riconducibile a materia organica.
Nella stessa giornata del 13 maggio, verso le ore 13, lo studente Chirco Francesco
Paolo consegnava al Comandante la Stazione Carabinieri di Cinisi … un sacchetto
di plastica, contenente frammenti di resti umani raccolti dallo stesso Chirco,
e dai suoi amici Bartolotta Ferdinando e Riccobono Giovanni, nel pomeriggio
del giorno precedente, nella zona dell'esplosione. Anche detti frammenti venivano
consegnati dal magistrato ai periti. Altri reperti (pezzi di stoffa e macchie
di sangue), venivano, infine, acquisti - il 13.5.78 - dai Carabinieri di Cinisi…".
In data 16.5.1978 anche Impastato Giovanni e Bartolotta Felicia, rispettivamente
fratello e madre di Impastato Giuseppe, presentavano un esposto sostenendo con
forza e motivatamente la tesi dell'omicidio.
I CC., tuttavia, rimanevano fermi nelle loro conclusioni, ribadite in un rapporto
a firma del Magg. Subranni depositato il 30.5.1978, in cui si richiamavano anche
le dichiarazioni raccolte da Maniaci Anna gestrice del bar "Munacò"
di Cinisi, la quale, sentita il 17.5.1978, aveva riferito che quel giorno 8
maggio, verso le 20,30 - 20,45, Impastato Giuseppe (che appariva "normale")
era entrato da solo in detto locale, con in mano "una carpetta o un libro"
e vi si era trattenuto il tempo necessario per ordinare e bere un bicchiere
di whisky.
Ciò nonostante, all'esito dell'istruzione sommaria, il Procuratore della
Repubblica trasmetteva gli atti al Giudice Istruttore, perché si procedesse
a carico di ignoti per i reati di omicidio premeditato di Impastato Giuseppe
e di detenzione e porto illegale di esplosivo.
La laboriosa attività di istruzione formale si sviluppava anche nell'audizione
da parte del G.I. di numerosi altri testimoni, ritenuti via via a conoscenza
di circostanze utili ai fini dell'accertamento dei fatti.
Al riguardo, nella citata sentenza si evidenziava:
"Venivano altresì sentiti numerosi testimoni …, dalle cui
deposizioni emergevano talune significative, nuove circostanze, e - in particolare
- un colloquio avvenuto nel pomeriggio dell'8 maggio 1978 tra tale Riccobono
Giovanni (amico dell'Impastato Giuseppe) e il suo cugino e datore di lavoro
Amenta Giuseppe, e nel corso del quale il Riccobono, chiamato in disparte, era
stato avvertito "di non andare in paese perché in questi giorni
succederà qualcosa di grosso"; precisava il Riccobono … di
avere appreso dal cugino, nell'accennato colloquio, "che era stato suo
fratello Amenta Carmelo Giovanni a incaricarlo di dargli tale consiglio",
e di averne - subito dopo - parlato con parecchi amici di Cinisi, tra cui il
fratello dell'Impastato Giuseppe, ma di non averne potuto informare Giuseppe,
benché questo fosse stato il suo primo, istintivo pensiero, perché,
recatosi appositamente alla radio, lo aveva trovato impegnato in vista di un'assemblea
fissata per le ore 21.
Le circostanze riferite dal Riccobono venivano confermate da numerosi testi
(Impastato Giovanni, Di Maggio Faro, Maniaci Giosué, Iacopello Fara,
Vitale Maria Fara, Bartolotta Andrea, La Fata Pietro Giovanni, Cavataio Benedetto
e Di Maggio Domenico).
Emergeva altresì, da taluna delle testimonianze sopraricordate, che le
circostanze riferite dal Riccobono avevano creato, nella stessa sera dell'8
maggio 1978, uno stato di apprensione tra gli amici di Impastato Giuseppe, alcuni
dei quali ("circa otto persone" …), non avendolo visto arrivare
alla riunione fissata per le ore 21, si erano mossi - su tre autovetture - alla
sua ricerca, protrattasi invano per quasi tutta la notte …
Precisavano concordemente i testi suindicati di non avere riferito prima, nemmeno
al magistrato, quanto avevano appreso dal Riccobono, a motivo della sfiducia
in essi ingenerata dal deciso orientamento che sin dal primo memento gli investigatori
avevano palesato verso la tesi dell'incidente o del suicidio.
I testi stessi, inoltre, fornivano particolari circa la battaglia politica condotta
dall'Impastato Giuseppe contro il potere mafioso della zona, e in particolare
contro Gaetano Badalamenti, Finazzo Giuseppe ed un certo Palazzolo; personaggi
che egli non esitava a ridicolizzare nelle trasmissioni di "Onda Pazza"
dalla Radio Aut.
A tal riguardo l'Impastato Giovanni consegnava al magistrato istruttore, il
7/12/1978 …, sette cassette di registrazione di dette trasmissioni, oltre
a vari documenti, e precisava … che suo fratello era riuscito, coll'intensa
attività politica svolta, a far sospendere i lavori di costruzione di
un palazzo a cinque piani ("che pare sia del Finazzo) e si era battuto
a fondo, con pubbliche denunce, contro l'approvazione "quasi clandestina"
del cosiddetto piano "Z10", consistente nella realizzazione di un
campo turistico nella zona di Cinisi, ed alla quale "erano interessati
un certo Lipari … figlioccio di un noto mafioso defunto Rosario Badalamenti;
un certo Caldara di Palermo; e un certo Cusimano di Cinisi, costruttore edile
… forse in buoni rapporti con esponenti mafiosi".
Del resto già in data 19/5/78 il Lo Duca Vito … aveva riferito al
Sostituto Procuratore della lotta condotta dall'Impastato Giuseppe contro la
realizzazione del villaggio turistico Z 10 (nonché di una strada costruita,
con soldi del comune, in contrada "Purcaria", e che, precisava il
teste, "serviva per uso di due sole persone di cui non so i nomi ma ho
sentito di essere mafiosi").
Riferiva - ancora - l'Impastato Giovanni, nella citata deposizione del 7/12/78,
che suo fratello aveva denunciato "anche pubblicamente, attraverso la radio,
le imposizioni nei confronti delle società che costruivano l'autostrada
le quali erano costrette ad acquistare il materiale necessario dal Finazzo e
dai D'Anna, elementi mafiosi di Terrasini"; e rivelava - infine - che (secondo
quanto egli aveva appreso circa un mese dopo la morte del fratello e successivamente
alla deposizione dinanzi al Sostituto Procuratore) il Vito Lo Duca, "il
giovane più vicino a suo fratello", era stato seguito, la sera dell'8maggio
1978, mentre conduceva la propria autovettura, da un'altra persona, pure in
macchina.
Questa circostanza veniva confermata, nella stessa giornata, dal Lo Duca …,
il quale precisava di essere stato seguito "per circa 6 o 7 minuti"
da un'autovettura condotta da tale Pizzo Salvatore, e che egli successivamente
aveva più volte notato, con all'interno lo stesso Pizzo, "davanti
all'abitazione di Gaetano Badalamenti noto mafioso di Cinisi".
Un'ultima circostanza di rilievo veniva riferita, in dep. 7/12/1978, dal Di
Maggio Faro …, e riguardava un colloquio avvenuto in Cinisi tra Amenta
Carmelo ed il Finazzo Giuseppe (inteso "u parrineddu"), e riferitogli
dal Riccobono Giovanni; la circostanza verrà poi confermata in dep. 17/3/1979
… dal teste Di Maggio Domenico, il quale aveva notato, la domenica precedente
la morte dell'Impastato, un colloquio "appartato" tra il Finazzo e
l'Amenta, davanti al Municipio di Cinisi, e, la sera dell'8 maggio, appena erano
cominciate le ricerche dell'Impastato Giuseppe, aveva riferito l'episodio al
Riccobono Giovanni, collegandolo subito alla mancanza di "Peppino".
I fratelli Amenta venivano interrogati (il Giuseppe il 21/12/1978 …, il
Carmelo il 3/1/79 …) sulle circostanze emerse, nei loro confronti, dalle
deposizioni più volte ricordate, e che entrambi negavano; né miglior
esito aveva il confronto … tra l'Amenta Giuseppe ed il Riccobono.
Sulla base delle risultanze acquisite veniva emesso in data 31/1/1979 - mandato
di cattura per il delitto di cui all'art. 372 C. Pen. nei confronti dell'Amenta
Giuseppe …, mentre il giorno successivo veniva spedita comunicazione giudiziaria
- per la stessa imputazione - all'Amenta Carmelo Giovanni ...
Sempre in data 1/2/1979 veniva inviata comunicazione giudiziaria al già
nominato Finazzo Giuseppe, quale "indiziato" del delitto di omicidio
volontario in pregiudizio dell'Impastato Giuseppe ……
Interrogati dal magistrato, rispettivamente il 14 e il 23/2/1979, sia l'Amenta
Giuseppe (costituitosi il 14/2/79) che il fratello Carmelo Giovanni insistevano
nel negare le circostanze più sopra precisate, così come riferite
dai testi menzionati e - in particolare - dal Riccobono Giovanni e dal Di Maggio
Faro; meno recisa - peraltro - risultava la smentita dell'Amenta Carmelo in
ordine al suo colloquio col Finazzo qualche giorno prima della morte dell'Impastato
(.. "non ricordo, avrò potuto anche fermarmi a parlare un po' nel
senso che il Finazzo mi avrà rivolto l'invito ad andare con lui al circolo")
..".
Le indagini erano dirette anche al fine di fare luce sulle vicende di speculazione
edilizia denunziate dall'Impastato e, segnatamente, su quelle relative al cosiddetto
"Progetto Z 10" e alla realizzazione da parte del Finazzo del "palazzo
a cinque piani" nel centro abitato di Cinisi.
Nella menzionata sentenza, il G.I. proseguiva la sua disamina della vicenda
processuale, esponendo dettagliatamente tutte le circostanze di fatto e le considerazioni
di carattere logico che lo inducevano a ritenere provato che Giuseppe Impastato
fosse "… rimasto vittima di un efferato omicidio, attuato con modalità
tali da far attribuire la morte ad un deliberato atto suicida o ad un'accidentale
esplosione …".
E quanto alle diverse conclusioni rassegnate all'inizio delle indagini dai
Carabinieri, quel Giudice non mancava di fare notare:
"… lo stesso C.llo Subranni (che, allorquando comandava - con grado
inferiore - il Reparto Operativo del Gruppo Carabinieri di Palermo, aveva, sulla
base di indagini iniziali, espresso, ne due sovracitati rapporti 10/51978 e
30/5/1978, il motivato e fermo convincimento che l'Impastato Giuseppe si fosse
"suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico") precisava
in deposizione 25/12/1980 … di avere appreso, "attraverso i contatti
tenuti con l'autorità giudiziaria", che - nel corso delle ulteriori
indagini - erano "venuti fuori elementi tali da far ritenere possibile
una causale diversa da quella formulata con il rapporto". Nella successiva
deposizione del 16/7/1982 lo stesso Col Subranni, in termini ancora più
espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava …: "…
nella prima frase delle indagini, si ebbe il sospetto che lo Impastato morì
nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada
ferrata. Questi sospetti, però, vennero meno quando, in sede di indagini
preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano
per l'omicidio dell'Impastato più che per una morte accidentale cagionata
dall'ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera
certa che lo Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta
contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalamenti che lo Impastato
accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia. In ordine a quest'ultima
circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo da lui ritenuto mafioso
e legato al Badalamenti".
Occorre precisare - a questo punto - che, nel frattempo, il già nominato
Finazzo Giuseppe era rimasto vittima di un omicidio consumato il 20 dicembre
1981 e del quale sono rimasti ignoti gli autori.
Oltremodo significativo ed illuminante appare, per le considerazioni svolte
in ordine alla morte dell'Impastato Giuseppe, il rapporto giudiziario compilato
in data 10/2/1982, relativamente al predetto omicidio, dal Comandante la Compagnia
Carabinieri di Partinico …
Giova qui trascrivere i passi principali di tale rapporto, anche per poter misurare
di quanto risultino mutati nel frattempo (ma sono trascorsi solo quattro anni!)
gli orientamenti e gli indirizzi nella individuazione delle modalità
e delle cause del tragico avvenimento verificatosi nella notte sul 9 maggio
1978:
"Finazzo Giuseppe, componente del clan mafioso capeggiato dal noto Badalamenti
Gaetano da Cinisi, era l'uomo di fiducia più vicino al capo … Ufficialmente
imprenditore edile ed iscritto al n. 146 dell'elenco dei mafiosi aveva precedenti
per reati contro il patrimonio. Inteso "Parrineddu" ed anche "Percialino",
soprannome questo ultimo che gli affibbiò il defunto Impastato Giuseppe,
noto esponente di democrazia proletaria … Era definito, per la voce pubblica,
un soggetto di spiccata capacità a delinquere, a servizio della mafia
e privo di scrupoli morali. Da epoca remota, grazie alla sua attività,
ha avuto la possibilità di adoperare grossi quantitativi di esplosivo,
non certo impiegato solo nelle note cave della S.I.F.A.C., ma anche, presumibilmente,
per favorire i vari mafiosi a lui associati nella consumazione di attentati
dinamitardi. Il più grave di questi delitti, che la voce pubblica gli
addebita, e che risale al 9/5/1978 è la soppressione di Impastato Giuseppe,
noto esponente di democrazia proletaria di Cinisi, che pubblicamente non cessò
mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarli,
il Finazzo Giuseppe, il Badalamenti Gaetano e gli altri esponenti della mafia".
E concludendo la sua analisi, il Giudice Istruttore osservava:
"… poiché … l'Impastato Giuseppe aveva concentrato
il suo impegno di lotta contro le prevaricazioni, gli abusi e gli illeciti di
taluni amministratori e - soprattutto - di ben individuati gruppi e personaggi
mafiosi, se ne deve trarre il logico convincimento che proprio in questi ambienti
sia stata decisa ed attuata la soppressione di un così irriducibile accusatore.
Se però può dirsi raggiunta la certezza processuale in ordine
alla consumazione dell'omicidio, ai moventi del medesimo ed al gruppo od ambiente
nel quale è maturata la criminale decisione, non altrettanto può
dirsi circa la individuazione dei responsabili.
E' appena il caso di ricordare che nel nostro ordinamento giuridico la responsabilità
penale è strettamente personale, e che non può configurarsi una
astratta responsabilità "di gruppo" ove manchino prove certe
che consentano di formulare specifici addebiti a carico dei componenti del gruppo
stesso e di coloro che ne dirigono l'attività.
Nel nostro caso gli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria
del P.M. viene definito l'iniziale "depistaggio" delle indagini e
la sopravvenuta uccisione del Finazzo Giuseppe, indiziato del reato di omicidi
di cui è processo, non hanno consentito di tradurre in ben definite responsabilità
individuali le verità che emergono dalle carte processuali, nel senso
che non è stato possibile accertare se l'assassinio dell'Impastato sia
il frutto di una decisione di taluno degli esponenti mafiosi più volte
nominati o (come è parimenti ipotizzabile) di taluno degli elementi di
fiducia che gravitavano nella loro orbita e che potevano con ciò mirare
a guadagnarsi meriti, prestigio ed autorità o - comunque - a dimostrare
la propria fedeltà verso i capi".
Per questi motivi il G.I., dichiarava quindi non doversi procedere in ordine
ai rubricati delitti di omicidio volontario e di detenzione e porto illegale
di esplosivo, per essere rimasti ignoti gli autori dei fatti.
A completamento del riepilogo delle vicende processuali che hanno preceduto
questo giudizio, quali si desumono dagli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento
e da quanto rappresentato dai testi e dalle parti, va evidenziato che, qualche
anno dopo la pronunzia di detta sentenza, il procedimento veniva riaperto, a
seguito di un esposto presentato da Giovanni Impastato e dai responsabili del
"Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato", ove si rappresentavano
diverse circostanze, a conoscenza dei congiunti, riguardanti i rapporti intrattenuti
da Luigi Impastato, padre di Giuseppe, con Badalamenti Gaetano e con altri esponenti
della mafia di Cinisi, nonché alcuni particolari concernenti un improvviso
viaggio negli Stati Uniti effettuato dallo stesso Luigi Impastato nella Primavera
del 1977.
Fra l'altro, si assumeva che quest'ultimo (deceduto nel Settembre del 1977 a
Cinisi a seguito delle lesioni riportate in un investimento d'auto), poiché
legato agli esponenti mafiosi di cui sopra, non solo aveva osteggiato l'attività
di denunzia del figlio, ma anche aveva ben compreso il pericolo di ritorsioni
al quale costui andava incontro, come era confermato da alcune confidenze ai
parenti americani.
Inoltre, lo scenario mafioso che avrebbe fatto da cornice alla decisione e all'esecuzione
dell'omicidio di Giuseppe Impastato si riteneva ormai ben delineato dalle conoscenze
- concernenti in generale Cosa Nostra ed in particolare la famiglia mafiosa
di Cinisi e lo stesso Badalamenti Gaetano - acquisite grazie al progredire delle
indagini che in quegli anni avevano dato vita al "maxi processo" (si
faceva in particolare riferimento alle dichiarazioni di collaboratori come il
Buscetta).
Le indagini scaturite dalla riapertura del procedimento si sviluppavano anche
allo scopo di verificare la pista del coinvolgimento di esponenti dell'eversione
di estrema destra, indicata da Izzo Angelo in forza di confidenze asseritamene
ricevute dal terrorista Concutelli Pierluigi, nonché nell'audizione in
USA, tramite rogatoria internazionale, di Badalamenti Gaetano e di alcuni parenti
degli Impastato.
L'esito di questi e altri accertamenti non veniva, tuttavia, giudicato idoneo
al fine di individuare i responsabili dell'omicidio, sicché nel Marzo
del '92 era disposta l'archiviazione del procedimento.
Come più volte evidenziato dalla difesa, nella circostanza il richiedente
P.M. non mancava di prospettare l'ipotesi che la paternità del delitto
fosse, invece, da attribuire ad esponenti delle cosche mafiose emergenti facenti
capo ai "corleonesi", in quegli anni intenti a preparare la loro scalata
al vertice di Cosa Nostra, a scapito di boss del calibro di Badalamenti Gaetano
divenuti ben presto acerrimi nemici.
L'ultima riapertura delle indagini avente quale esito l'emissione del decreto
da cui trae origine il presente giudizio, consegue alle rivelazioni del collaboratore
Palazzolo Salvatore (dissociatosi dal sodalizio mafioso nel '93), avendo costui
accusato, quali mandanti del delitto, Badalamenti Gaetano e Palazzolo Vito e
in tal modo confermato non solo la tesi dell'omicidio, ma anche la sua matrice
mafiosa.
Si sono succedute, inoltre, le dichiarazioni accusatorie degli altri collaboratori
escussi nel corso del dibattimento, tutte ritenute idonee a comprovare il coinvolgimento
nel fatto di sangue del Badalamenti.
E le nuove indagini non hanno mancato di approfondire ancora una volta, mediante
l'audizione dei congiunti di Giuseppe Impastato ed anche di quelli residenti
negli Stati Uniti, le tematiche dei rapporti intrattenuti da Luigi Impastato
con il Badalamenti (ed altri mafiosi di Cinisi) e del viaggio del primo risalente
alla Primavera del '77.
La superiore esposizione del lungo e complesso iter processuale consente di
mettere a fuoco i principali temi di accertamento con cui si è dovuta
misurare la ricostruzione accusatoria e, in ordine di tempo, presi in considerazione
dai Magistrati occupatisi del caso.
Il primo problema che ci si è posti e che qui va nuovamente affrontato
riguarda la diversa lettura dei fatti prospettata almeno inizialmente dai CC.,
convinti di trovarsi di fronte ad un attentato dinamitardo posto in essere dall'Impastato,
motivato da intenti terroristici e, secondo una versione riveduta e corretta,
risoluto a togliersi la vita.
Il G.I. nella sentenza del 19.5.84 ha confutato però tale ipotesi, evidenziando
correttamente che la preconcetta accettazione di essa pregiudicò non
poco la completezza e la linearità dell'attività di indagine,
con l'inevitabile dispersione di prezioso materiale probatorio.
Invero, i familiari e gli amici tentarono subito di spiegare - e lo hanno fatto
anche nel corso del dibattimento - che Giuseppe Impastato non aveva mai compiuto
gesti che rivelassero l'intenzione di condurre l'attività politica con
metodi terroristici, avendo invece sempre manifestato una cultura volta a rappresentare
apertamente le proprie idee, con ogni mezzo a disposizione e con azioni sì
talvolta eclatanti e di rottura, ma sempre non violente e improntate al libero
confronto.
Proprio il rifiuto di qualsiasi forma di sopraffazione, lo aveva indotto per
anni a denunziare, pubblicamente e in modo circostanziato, le malefatte di esponenti
mafiosi e le relative collusioni in vari settori.
L'entusiasmo ed il fervore con cui l'Impastato aveva continuato a condurre soprattutto
negli ultimi giorni di vita la sua attività politica ed a portare avanti
la sua opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica relativamente all'argomento
mafia, ma anche ad altri più o meno connessi, come la speculazione edilizia
e la deturpazione del territorio, tutto potevano far pensare meno che il maturare
ed il mettere in atto la volontà di togliersi la vita con un gesto terroristico.
Questa realtà era palese all'indomani dei fatti, sia perché coralmente
rappresentata da quasi tutte le persone legate affettivamente e/o politicamente
all'Impastato, sia in quanto avvalorata da tanti altri dati di inequivocabile
significato e da logiche considerazioni.
Ed infatti, come si desume anche dalla documentazione acquisita in dibattimento,
mai come in quei giorni l'Impastato, candidandosi alle elezioni comunali indette
per il 14.5.1978, tenendo comizi nella piazza di Cinisi, allestendo mostre fotografiche,
parlando ai microfoni di Radio Aut, effettuando attività di volantinaggio,
promuovendo riunioni con i compagni per organizzare la campagna elettorale,
aveva dato prova di volere perseguire le sue aspirazioni politiche e di volere
profondere il suo impegno sociale con metodi democratici e comportamenti assolutamente
incompatibili con quelli di colui che sta maturando l'idea di togliersi la vita
tramite un attentato dinamitardo.
In tal senso militano anche le concordanti notizie acquisite sui movimenti dell'Impastato
quel giorno 8 maggio: egli, insieme ai tanti amici con cui condivideva l'esperienza
politica, preparava l'ultimo comizio della campagna elettorale che avrebbe dovuto
tenersi il giorno successivo e per il quale era stata già presentata
la richiesta di autorizzazione presso la Caserma dei CC.; il pomeriggio si era
intrattenuto nei locali di Radio Aut ove, seguendo la messa in onda di un'intervista
che aveva rilasciato a tale Cucinella Giuseppe, giornalista di altra emittente
locale, si era molto arrabbiato in quanto era stata soppressa la parola mafia
da lui proferita a proposito delle collusioni nel territorio intrattenute dalla
D.C. (tale censura è stata sostanzialmente confermata davanti alla Corte
dal Cucinella); l'Impastato era rimasto insieme agli altri nei locali di Radio
Aut fino alle 20,00 circa, quando si era congedato per recarsi a casa a cenare,
con l'accordo che si sarebbero rivisti intorno alle 21,00 per l'ennesimo incontro
avente all'ordine del giorno le ultime battute della campagna elettorale.
E tale ricostruzione non può dirsi smentita dal fatto che l'Impastato
si fosse brevemente fermato nel bar Munacò nei pressi della sua abitazione
fra le 20,30 e le 20,45, allo scopo di consumare - come era solito fare - un
whisky (la circostanza è stata riferita ai CC. e ribadita davanti alla
Corte dalla titolare del locale, Maniaci Anna).
Ed ancora, non può sottacersi che le perquisizioni espletate nell'immediatezza,
nella dimora dell'Impastato, nella sede di Radio Aut ed in altri luoghi nella
disponibilità di parenti, compagni di partito ed amici del giovane attivista
politico, non consentirono di acquisire il benché minimo dato a supporto
della tesi propugnata dai Carabinieri; né gli stessi - come emerge dalla
deposizione del M.llo Travali (all'epoca Comandante della Stazione dei Carabinieri
di Cinisi) - furono nelle condizioni di rappresentare eventi precedenti che
facessero seriamente ipotizzare il coinvolgimento di quei soggetti in strategie
ed azioni violente o nel possesso di armi ed esplosivi di qualsiasi tipo.
Ma vi è di più: i funzionari delle Ferrovie dello Stato all'esito
delle loro indagini amministrative ebbero a rappresentare (cfr. relazione in
data 11.12.1978, acquisita al fascicolo del dibattimento):
"Il giorno 9.5.1978 il treno 59411, formato dal solo locomotore, effettuava
la corsa Palermo Alcamo D.; con partenza da Palermo Br. Alle ore 0,26 giunto
alle 1,30 circa in prossimità del Km. 30 fra le stazioni di Carini e
Cinisi il Macchinista avvertiva un forte sobbalzo, pertanto si fermava al P.
L. Km. 30+745 e informava il Guardiano in servizio …
…Il tratto di linea al Km. 30 + 180, dove si riscontrava la mancanza di
ml. 0,54 di rotaia, si svolge in curva di raggio di ml. 200.
Il tratto di rotaia mancante è stato riscontrato nella fila interna della
curva, senza alcun danno alle traverse né alla massicciata, che in corrispondenza
del tratto di rotaia mancante, presentava soltanto un lieve avvallamento. Il
pezzo di rotaia di ml. 0,54 asportato dall'esplosione risultava ridotto in numerosi
frammenti di piccola pezzatura.
Nel tratto in cui è avvenuto l'inconveniente alla sede ferroviaria si
trova pressoché alla stessa quota delle circostanti campagne.
Poiché il personale di macchina del treno 735 (precedente al treno 59411)
non ebbe a segnalare alcuna anormalità fra le stazioni di Carini e Cinisi
si deve fondatamente ritenere che lo scoppio della carica esplosiva si sia verificato
nell'arco di tempo intercorrente fra le ore 0,11 (ora di transito del treno
735 in corrispondenza del Km. 30 + 180).
Non vi è dubbio, infatti, che se il danneggiamento della rotaia si fosse
verificato prima del transito del treno 735 il macchinista di detto treno avrebbe
sicuramente rilevato l'anormalità, in quanto la mancanza di mezzo metro
di rotaia determina un notevole sbandamento di un veicolo (poteva addirittura
provocare un furviamento) …".
Ebbene, la scelta di quel giorno, di quel luogo, così come di quell'orario,
per compiere "scientemente un attentato terroristico", non può
che ritenersi del tutto illogica e dunque per nulla verosimile.
Ed infatti, un simile atto alla vigilia delle elezioni sarebbe stato subito
ricollegato ai movimenti eversivi di estrema sinistra, sicché avrebbe
avuto l'effetto di danneggiare il partito politico e la stessa candidatura dell'Impastato,
vanificando tutto l'impegno da lui profuso, con ben altri metodi, per divulgare
idee che, specialmente se rapportate alla realtà locale, nulla avevano
a che fare con la lotta armata.
Mentre l'obiettivo da colpire, seguendo il modo di ragionare di chi si determina
a progettare un gesto eversivo procurandosi all'uopo un ragguardevole quantitativo
di esplosivo, sarebbe stato poco significativo, trattandosi di un'esplosione
in un luogo isolato che avrebbe potuto al più provocare il mero deragliamento
di un treno che era privo di passeggeri e che procedeva in quel tratto a velocità
moderata.
Quanto al rinvenimento dello scritto vergato dall'Impastato in cui si accennava
a possibili propositi suicidi, va rilevato che il suo effetto di depistare le
indagini è stato sostanzialmente riconosciuto nel corso della prima istruzione
e ribadito in occasione del dibattimento di questo giudizio dal Generale (allora
Maggiore) Subranni, il quale fra l'altro non ha mancato di sottolineare che,
dalle notizie via via acquisite dall'Autorità Giudiziaria, aveva poi
appurato che il contenuto dello scritto consentiva di datarlo in un periodo
precedente di diversi mesi.
Tale periodo, come riferito da parenti e amici, era coinciso con quello in cui
Giuseppe Impastato aveva evidenziato uno stato d'animo profondamente critico
e di momentaneo scoramento, che lo aveva portato a dissentire ed estraniarsi
da comportamenti e prese di posizione dei compagni, tanto da dimettersi dalla
carica di direttore di Radio Aut.
In merito risultano particolarmente illuminanti le delucidazioni offerte da
Di Maggio Faro già all'indomani dei fatti (e poi ribadite), anche con
riguardo all'indicazione della data "13 febbraio", riferibile, in
effetti, all'anno 1977 e da cui, stando al tenore delle altre frasi riportate
nel manoscritto, avrebbero dovuto farsi decorrere pressappoco nove mesi al fine
di determinare l'epoca esatta di redazione del documento.
Del resto, va sottolineato che la stessa zia, Bartolotta Fara, in occasione
di una seconda audizione in data 17.5.78 davanti al Procuratore della Repubblica
(il verbale è stato acquisito al fascicolo del dibattimento), riferì:
"… sono a conoscenza di una lettera da lui (cioè da Giuseppe
Impastato, ndr.) scritta parecchio tempo prima, in un momento in cui non era
d'accordo con alcuni del suo partito. So che in detta lettera, che io conoscevo,
egli manifesta molta sfiducia ed il proposito di suicidarsi. Escludo nel modo
più assoluto che mio nipote avesse avuto seri propositi suicidi …
Non so precisare quando io vidi la lettera scritta da mio nipote. Comunque circa
otto o dieci mesi prima della morte …".
E deve chiarirsi che tali nuove dichiarazioni della Bartolotta, così
come quelle nello stesso senso rese al G.I. il 7.12.78, appaiono più
affidabili delle laconiche asserzioni sulla persona del nipote che sono riportate
nei verbali redatti dai Carabinieri il 9.5.78 e risultano citate nella sentenza
del Giudice Istruttore, essendosi nell'immediatezza rappresentata un'immagine
dell'Impastato, quale individuo dal "carattere chiuso" e "negli
ultimi tempi … deluso", che invero non ha nulla a che vedere con quella
- di persona invece estroversa, piena di vita e di iniziative e ancora entusiasta
e convinta dell'azione politica e di denunzia proseguita fino all'ultimo giorno
- che emerge anche da risultanze diverse dalle testimonianze degli altri parenti
e amici (si consideri come Impastato conduceva la sua campagna elettorale e
le trasmissioni di "Onda Pazza" di cui meglio si dirà in seguito).
Ma, la fallacia della tesi originariamente sostenuta dai Carabinieri emerge
in modo ancor più macroscopico da diversi dati obiettivi evidenziati
dall'esito delle indagini svolte nell'immediatezza dei fatti.
In proposito, va premesso che gli inquirenti, recatisi a suo tempo sui luoghi,
non poterono che prendere atto che la deflagrazione della carica aveva avuto
effetti devastanti sul corpo di Giuseppe Impastato.
Si legge nel verbale di sopralluogo del Pretore di quella mattina:
"… il cadavere è dilaniato e si possono descrivere i frammenti
sparsi nel raggio di circa 300 mt. che vengono così descritti: un pezzo
costituito da lobi celebrali con ossa della volta cranica ed un tratto di cuoio
capelluto, un pezzettino d'osso della volta cranica che si rinviene a poca distanza.
Un pezzo di pelle lacera commista a frammenti di tessuti molli probabilmente
del collo. Un pezzo d'osso che si identifica con un tratto della colonna vertebrale
del lato cervicale, pezzi sparsi ovunque di tessuti molli di cui non si riesce
neanche a stabilire la parte del corpo a cui appartengono. Un pezzo di pelle
con tessuti molli. Esiste un pezzo d'arto presumibilmente di femore destro stroncato
con visione delle parti muscolari, probabilmente destro. L'arto è coperto
in parte dal resto di un calzone di colore blu e al piede … una calza dello
stesso colore. Levata la calza si accerta che trattasi dell'arto inferiore destro.
L'arto è integro dal terzo superiore in giù … Alla distanza
di quasi 100 metri dal primo arto si rinviene ulteriormente il resto dell'arto
di sinistra, pure integro dal terzo superiore della coscia fino al piede e alla
radice dilaniato con visioni di parti molli e della testa del femore scoperchiata.
Al piede la calzetta blu… Si dà atto che sparsi tutto intorno alla
zona in questione e particolarmente nel tratto vicino alla linea ferrata si
trovano frammenti di stoffa che di seguito si descrivono. Si rinvengono due
tipi di stoffa: frammenti di stoffa a piccoli quadrettini di color verde, caffè
e grigio; stoffa di colore blu apparentemente appartenente al pantalone; stoffa
di lana di colore blu apparentemente facente parte di un maglione … Si
rinvengono altresì sulla massicciata adiacente alla strada ferrata due
zoccoli di tipo scholls in legno con cinghie in cuoio di color bianco marca
Dr. Scholl's ...
Quello stesso giorno il perito medico legale dottor A. Caruso, alla presenza
del Pretore, descrisse in tal modo detti "pezzi anatomici":
"I due arti inferiori ricoperti di abbondante peluria di un soggetto
di sesso maschile, con unghia che oltrepassano le estremità delle dita.
Tali arti risultano irregolarmente disarticolati in corrispondenza delle anche.
Il rivestimento cutaneo manca al terzo superiore delle cosce; il limite superiore
del rivestimento cutaneo è irregolarmente frastagliato ed affumicato
sulla faccia anteromediale delle cosce stesse. L'affumicatura si estende alla
cute integra per una decina di centimetri ed ai muscoli della radice della coscia
per una estensione pressoché analoga. Sulla faccia … della coscia
sinistra la pelle presenta delle lacerazioni a forma di … con apice in
basso. In corrispondenza della lacerazione più interna (delle due anzidette)
si rinviene una parte dello scroto, un testicolo ed il pene ampiamente lacerati
ed affumicati. Integre le parti restanti delle cosce, delle gambe e dei piedi.
Sulla faccia destra dei piedi … delle dita rispettive, piccole ferite lacero
contuse a lembo, il cui bordo … è rivolto verso l'alto (verso la
tibiotarsica). Integre le ossa delle cosce, delle gambe e dei piedi. Frammenti
della mano destra costituiti dagli ultimi tre metacarpi e dalle ultime tre dita,
a confine assai irregolare, la superficie palmare è interamente affumicata
e decisamente nerastra sui polpastrelli.. Si notano altresì frammenti
di cuoio capelluto, di ossa craniche (ogni frammento, di forma triangolare,
o pentagonale, ha il diametro massimo di 6,8 centimetri), di muscoli, di rachide
cervicale, di ossa tra cui è riconoscibile solo un lungo frammento dell'osso
iliaco destro, di cute, di encefalo e di intestino …".
Come si è visto, altri resti nello stesso stato furono, poi, ritrovati
dagli amici dell'Impastato anche ad una certa distanza dai binari.
Ciò posto, è chiaro che l'esame di quanto rimasto del corpo neppure
all'esito delle indagini medico-legali poté consentire di rassegnare
sicure conclusioni sulle cause della morte, avuto riguardo in particolare alla
possibilità di affermare o di escludere con certezza che l'Impastato
fosse vivo all'atto della forte deflagrazione che ne dilaniò il corpo
(come si vedrà, furono solo sviluppate alcune considerazioni in merito
alla posizione del corpo del giovane in quel preciso momento).
Come riferito dal dott. Procaccianti, emerse però, tramite l'esame delle
polveri rinvenute sugli indumenti e sui reperti anatomici dell'Impastato, che
la carica esplosa era costituita da un composto di nitroluene, un derivato del
tritolo comunemente adoperato nelle cave.
Gli artificieri Longhitano e Sardo, intervenuti quello stesso giorno, rilevarono,
basandosi sul dato empirico degli effetti della deflagrazione, che la quantità
di esplosivo "poteva essere di Kg. 4-6 circa".
Tutti coloro che si recarono sui luoghi, nell'immediatezza o successivamente,
hanno sempre riferito di non aver trovato tracce di miccia, di fili o di congegni
elettrici, nei pressi del punto dell'esplosione.
Come si è visto, secondo i Carabinieri, il rinvenimento del cavo telefonico
collegato alla batteria dell'auto poteva far ritenere l'iniziale intento della
sua utilizzazione per fare esplodere a distanza la carica.
Tuttavia, è evidente che tale lettura è inconciliabile con l'ipotesi
di un progetto suicida preordinato dall'Impastato, stante che costui, portando
con sé sui binari la carica che lo avrebbe fatto saltare in aria, non
avrebbe avuto bisogno di congegni a distanza per raggiungere il suo scopo e
anzi sarebbe dovuto rimanere nel luogo dello scoppio.
Per altro verso, è lecito ritenere che, nel caso della pianificazione
di un semplice attentato dinamitardo, l'Impastato non si sarebbe limitato a
procurarsi il quantitativo di esplosivo da cava, ma, tramite gli stessi canali,
si sarebbe parimenti dotato di una miccia a lenta combustione e comunque di
un appropriato detonatore, onde fare esplodere agevolmente la carica, senza
correre il rischio di stazionare con la sua autovettura a così breve
distanza dal luogo della deflagrazione.
Quello che la difesa ha definito "un incidente sul lavoro", appare
peraltro di per sé assai improbabile anche alla luce di quanto riferito
nel corso del dibattimento dal perito balistico dr. Pietro Pellegrino:
Avv. Gullo: … questo esplosivo a seguito di un urto, di un contatto
creato sullo stesso posto dove si trova, può deflagrare?
Pellegrino Pietro: L'esplosivo per deflagrare deve subire un insulto
o termico o meccanico, spontaneamente no.
Avv. Gullo: … Parliamo dell'insulto meccanico.
Pellegrino Pietro: Si.
Pubblico Ministero: In che cosa può consistere questo insulto
meccanico?
Pellegrino Pietro: Un colpo.
Avv. Gullo: Cioè per esempio …
Pellegrino Pietro: - voci fuori microfono -
Avv. Gullo: Una caduta per terra, un … non so, un colpo di gomito …
Pellegrino Pietro: No, no, questo no, un colpo diciamo di una certa energia.
Avv. Gullo: Quindi se cade per terra per esempio, questo significa che
è un colpo di una certa energia.
Pellegrino Pietro: No.
Avv. Gullo: E allora mi dica quali possono essere questi impulsi meccanici.
Pellegrino Pietro: Che so una martellata.
Avv. Gullo: Mi scusi, cadendo per terra un colpo … un corpo, un
corpo solido o sbattendo su un corpo solido quale una pietra, un legno del …
del pietrisco, non può esplodere, non equivale a una martellata?
Pellegrino Pietro: E' molto difficile, questo tipo di esplosivi no, molto
difficile.
Avv. Gullo: E quale tipo di esplosivo?
Pellegrino Pietro: Dico questi qui sono esplosivi da mina …
Avv. Gullo: Benissimo.
Pellegrino Pietro: Non sono degli inneschi, gli inneschi sono quelli
usati nelle capsule delle cartucce che sono estremamente sensibili agli urti
ma questo … questo tipo di esplosivi non …
Dunque, non è plausibile che ci si fosse determinati ad usare i cavi
telefonici trovati nell'auto ed il loro collegamento con la batteria.
Epperò, se da un lato è rimasto accertato dalle deposizioni testimoniali
che quel cavo era stato in precedenza collegato alla batteria della Fiat 850
per alimentare il megafono adoperato nella campagna elettorale, dall'altro appare
strano che l'Impastato circolasse con un parte del filo penzolante fuori dal
cofano, sì da non consentirne neppure la chiusura (si legge nel verbale
di sopralluogo del Maresciallo Travali: "L'autovettura non chiusa a
chiave, presentava il cofano socchiuso … da cui fuoriusciva un filo della
lunghezza di circa un metro") .
Il che sembrerebbe suggerire l'idea che altri quella notte abbiano avuto tra
le mani il cavo telefonico e lo abbiano fatto ritrovare in quello stato che
condusse i Carabinieri a rappresentare il suo preordinato utilizzo, da parte
dell'Impastato, per far esplodere a distanza la carica.
Ma, che lo stato dei luoghi sia stato modificato subito dopo lo scoppio emerge
da ulteriori elementi aventi autonoma efficacia probatoria.
Ci si riferisce in particolare alle risultanze relative al ritrovamento delle
calzature dell'Impastato, nonché dei suoi occhiali, ai quali si fa cenno
nel solo verbale di sopralluogo separatamente redatto dal Maresciallo Travali,
dandosi ad un certo punto laconicamente atto: "è stata rinvenuta
… nella zona la montatura degli occhiali di colore nero".
Nel medesimo verbale a proposito del rinvenimento degli arti inferiori,
in aderenza a quanto risulta dal verbale redatto dal Pretore, si evidenzia:
"Nel raggio di circa 300 metri dal punto in cui è avvenuto lo
scoppio si rinvengono pezzi sparsi ovunque di tessuti molli di cui non si riesce
neanche a stabilire la parte del corpo a cui appartengono. Esiste un pezzo d'arto
presumibilmente inferiore destro stroncato con visone delle parti muscolari
probabilmente destro. L'arto è coperto da parte di un calzino di colore
blu e al piede vi è una calza dello stesso colore. Levata la calza si
accerta che trattasi dell'arto inferiore destro. L'arto è integro dal
terzo inferiore in giù. Alla distanza di quasi cento metri dal primo
arto si rinviene ulteriormente il resto dell'arto di sinistra pure integro dal
terzo superiore della coscia. Pure dilaniato con visione di parti molli e della
testa del femore scoperchiata. Al piede vi è un calzino blu".
Al riguardo, è stato interpellato anche l'Appuntato Pichilli (uno
dei CC. che accompagnò il M.llo Travali in occasione del primo sopralluogo),
il quale ha confermato davanti alla Corte quanto riferito al G.I. nel corso
di un'audizione in data 28.12.78, il cui verbale, sull'accordo delle parti,
è stato integralmente acquisito agli atti del dibattimento.
Ivi si legge: "Per terra, quasi nel tratto in cui mancava il binario,
notai un sandalo di "tipo farmacia" di colore bianco, un altro era
nel lato opposto, e quasi a contatto con il binario. A tre metri di distanza
circa del sandalo che si trovava nel punto in cui mancava il binario, c'erano
gli occhiali, intatti, o - non ricordo - se mancava il vetro … Una delle
due gambe fu da me rinvenuta a circa 150 mt. di distanza dalla linea ferrata,
lato destro direzione Trapani; l'altra invece fu rinvenuta da altri militari
sempre dallo stesso lato ma ad una distanza inferiore …".
Anche Briguglio Giuseppe, il necroforo che prese parte alle operazioni di
ricerca dei resti del corpo, ha ricordato davanti alla Corte di avere visto
gli occhiali a tre metri circa dal punto dello scoppio.
E le dichiarazioni rese da Nigrelli Antonino ed Evola Antonino, entrambi dipendenti
delle Ferrovie dello Stato che accompagnarono i militari in occasione di detto
sopralluogo, confermano che furono rinvenuti due "zoccoli", uno "quasi
sul punto in cui mancava il binario" (cfr. deposizione Nigrilli davanti
al G.I., in data 28.12.78), l'altro nel lato opposto, a 60-70 centimetri dal
binario di destra rispetto alla direzione per Trapani (cfr. deposizione Evola,
all'udienza del 16.1.2001).
Sia alle calzature che agli occhiali fa riferimento il verbale di "ricognizione
di cose operata da Bartolotta Fara" quella mattina, essendosi dato preliminarmente
atto che si procedeva a mostrare alla predetta anche "..un paio di sandali
di legno con striscia di pelle di colore bianco chiuse con gancio; una montatura
di occhiali verosimilmente di plastica di colore nero con una stanghetta staccata
e la montatura avvolta nella parte terminale con nastro isolante di colore nero
…".
E come emerge dal medesimo verbale di ricognizione, Bartolotta Fara successivamente
affermava: "Riconosco perfettamente gli oggetti che mi mostrate appartenenti
a mio nipote ... In particolare … i sandali di legno sono anche quelli
che calzava ieri e per finire gli occhiali o meglio la montatura sono proprio
gli occhiali che usava mio nipote Giuseppe. Per altro gli occhiali li riconosco
anche perché una stanghetta è legata al resto della montatura
con un nastro adesivo di colore nero".
Orbene, riflettendo su tutte queste risultanze, non può che formularsi
la conclusione che gli occhiali ed i sandali di cui sopra, pur appartenendo
all'Impastato e pur essendo stati rinvenuti nelle immediate vicinanze del luogo
in cui saltò in aria il corpo del giovane, non avrebbero potuto essere
da lui portati indosso all'atto dell'esplosione.
Ed infatti, se la montatura degli occhiali fosse stata posta sul viso dell'Impastato,
certamente non sarebbe stata rinvenuta praticamente integra (con le stanghette
al loro posto, nonostante la precaria riparazione di una di esse) a soli pochi
metri dalla violenta esplosione che quasi disintegrò il capo del giovane,
tanto è vero che quei pochi frammenti di ossa craniche riconoscibili
e sparsi nel raggio di circa trecento metri non superavano la lunghezza di circa
otto centimetri.
Analogamente, va rilevato che gli arti inferiori ancora uniti ai piedi che in
quel momento avrebbero dovuto calzare gli "zoccoli", furono proiettati
dall'onda d'urto (con i relativi indumenti di cui furono trovati solo dei brandelli),
uno a circa centocinquanta metri di distanza e l'altro pure a notevole distanza
ed a circa cento metri dal primo.
Detti arti furono entrambi trovati nel medesimo lato della ferrovia, diversamente
dagli "zoccoli" che giacevano vicino al punto della esplosione, uno
sul lato destro e l'altro su quello sinistro dei binari.
Mentre, se davvero l'Impastato avesse calzato in quel momento gli "zoccoli",
essi avrebbero dovuto essere sbalzati via pressappoco alla stessa distanza delle
gambe e, comunque, nella medesima direzione.
E va ancora evidenziato che tutti coloro che hanno riferito in ordine al rinvenimento
degli "zoccoli", così come degli occhiali, procedendo a descriverne
lo stato, non hanno mai parlato di quelle evidenti tracce di bruciatura, di
affumicatura e di polvere nera che la vicinanza allo scoppio avrebbe dovuto
necessariamente determinare.
Ed allora, essendo certo che l'Impastato all'atto dell'esplosione non portava
né i suoi "zoccoli" né i suoi occhiali, come invece
avrebbe dovuto fare nel caso in cui si fosse recato volontariamente sui binari
per trasportarvi il carico di esplosivo, è lecito argomentare che il
corpo del giovane privo di sensi od ormai privo di vita fu trascinato da qualcuno
in quel posto e che, durante tali operazioni (ad esempio, al momento della discesa
dalla macchina), sia gli "zoccoli" che gli occhiali dovettero sfilarsi
e rimanere temporaneamente ad una certa distanza dal luogo dell'esplosione,
per essere in seguito trasportati dagli attentatori nel posto in cui furono
rinvenuti nel corso del sopralluogo.
Una simile ricostruzione dell'azione degli assassini, del resto, risulta già
ipotizzata nella citata sentenza del 19.4.1984, valorizzandosi anche la circostanza
- che era stata tuttavia riferita dal solo Briguglio nella deposizione in data
20.12.78 ed è stata dallo stesso solo in parte confermata nel corso del
presente giudizio a seguito di contestazione - "relativa al rinvenimento
di "tre chiavi vicino alla macchina di Impastato e precisamente accanto
alla portiera destra, cioè accanto al posto di guida di chi si trova
vicino al guidatore … l'una vicina all'altra".
Ed invero, è chiara l'allusione al fatto che tale ulteriore rinvenimento
avrebbe potuto rafforzare l'ipotesi della perdita degli oggetti appartenenti
all'Impastato in occasione del trasporto sui luoghi del suo corpo a bordo della
Fiat 850, da cui il corpo stesso del giovane (già morto o privo di sensi
e comunque con la forza) avrebbe potuto essere portato fuori, utilizzando -
come è logico ritenere - la portiera del lato destro.
Così come il Giudice Istruttore agli stessi fini osservava:
"l'esito degli esami di laboratorio eseguiti sulla grossa pietra asportata,
durante l'ispezione giudiziaria dei luoghi … dalla pavimentazione di un
vano - con ingresso dal lato sud - facente parte di un caseggiato rurale abbandonato
sito in prossimità del luogo ove era stata rinvenuta la "Fiat 850"
in uso all'Impastato Giuseppe".
Detta pietra, saldamente infissa nel terreno, era stata prelevata in quanto
i periti presenti al sopralluogo avevano notato su di essa "una traccia
rossastra" riconducibile a loro giudizio, a "materia organica".
I successivi accertamenti ematologici hanno consentito di stabilire che la predetta
traccia era di sangue umano .. - e più precisamente - di sangue riconducibile
al gruppo "O-CD", ossia allo stesso gruppo specifico cui sono risultate
appartenere le macchie di sangue presenti sul frammento di camicia indossato
dal giovane al momento dell'esplosione (e riconosciuti dai suoi familiari…)
e prelevato al termine dell'autopsia…
Pur se non si tratta di un elemento di (ndr.) assoluto valore probatorio
dal momento che - come hanno tenuto a precisare i periti - le proprietà
del gruppo sanguigno O-CD "sono riconoscibili all'incirca nel 30% della
nostra popolazione", non può tuttavia seriamente contestarsi che,
se inserite in una globale e meditata valutazione di tutte le risultanze istruttorie,
le conclusioni degli accertamenti ematologici conferiscono ulteriore credibilità
all'ipotesi che Impastato Giuseppe sia stato prelevato assieme alla sua autovettura,
la sera dell'8 maggio, condotto nel caseggiato più sopra menzionato (e
nei cui pressi l'autovettura venne rinvenuta) e di qui, dopo essere stato ridotto
colla violenza (come fanno ritenere le tracce di sangue rinvenute sul pavimento)
in stato di incoscienza, sia stato trasportato sulla vicina linea ferroviaria
ed ivi adagiata a diretto contatto con una carica di esplosivo, fatta deflagare
poi a distanza od a tempo.
Va precisato - peraltro - che l'ipotesi dell'omicidio … non deve ritenersi
necessariamente collegata coll'attribuzione all'Impastato Giuseppe delle macchie
di sangue riscontrate sulla pietra di cui si è detto. Nulla esclude -
infatti - di ritenere che il corpo della vittima sia stato trasportato già
inanimato, a bordo dell'autovettura da lui usata, sul luogo ove il veicolo venne
lasciato e di qui sia stato trasportato sulla rotaia, ed ivi adagiato proprio
sull'ordigno esplosivo (come confermano le perizie in atti)".
Ad ogni modo, già quanto rilevato sulle circostanze del rinvenimento
degli "zoccoli" e degli occhiali comprova la tesi dell'omicidio.
Si è obiettato, però, che tale tesi sarebbe stata smentita dai
periti a suo tempo nominati, Procaccianti e Caruso, nelle loro relazioni in
data 28.10.78, tenuto conto in particolare delle seguenti osservazioni:
"Il tipo di lesioni osservate sui pezzi anatomici esaminati, l'affumicamento
di parte di essi e la presenza di tracce di esplosivo sul frammento della mano
dx e sulla camicia di lana indossata al momento del fatto, inducono a ritenere
fondatamente che Impastato Giuseppe sia morte per effetto della deflagrazione
di un potente ordigno esplosivo.
Stando alla frantumazione dell'estremità cefalica, degli arti superiori
e del tronco, contrapposta alla buona conservazione degli arti inferiori, e
consideri gli effetti lasciati dall'esplosivo sulla linea ferrata, è
ammissibile che al momento dell'esplosione gli arti inferiori si trovassero
su un piano più basso rispetto al resto del corpo. In altri termini,
l'onda d'urto prodotta dall'esplosione avrebbe investito in pieno la strada
ferrata e la parte superiore e media del corpo dell'Impastato, mentre gli arti
inferiori - interessati dalla parte marginale dell'onda - sarebbero rimasti
pressoché integri.
Inoltre, dato che l'affumicamento è stato riscontrato sul frammento della
mano dx e sulle estremità superiori delle cosce e tenuto conto delle
due lacerazioni (ad apice in basso) sulla faccia interna della coscia sx (nella
lacerazione mediale erano incuneati i genitali lacerati ed affumicati), sembra
verosimile che al momento dell'esplosione l'ordigno si trovasse all'altezza
del bacino, probabilmente tra le mani della vittima. Questi dati, però,
permettono di stabilire soltanto la posizione dell'ordigno rispetto alle parti
anatomiche del soggetto, ma non permettono di far luce su quale fosse in quel
momento l'esatta posizione del corpo dell'Impastato rispetto al suolo (o alla
strada ferrata), né - in vero - disponiamo di altri dati idonei a risolvere
tale quesito".
Sennonché, già quest'ultima precisazione priva di ogni certezza
le precedenti affermazioni che parrebbero sostenere che l'Impastato fosse stato
ucciso dall'esplosione mentre maneggiava l'esplosivo.
Ed infatti, rimane altrettanto plausibile che il corpo, inerte, fosse stato
adagiato al suolo o meglio sul binario che fu divelto dall'esplosione, con la
carica posizionata all'altezza del bacino ed i soli arti inferiori su un piano
più basso a seguire il dislivello della massicciata e, comunque, relativamente
protetti dal medesimo binario.
Senza che, peraltro, tale ricostruzione possa ritenersi smentita dal rinvenimento
sui frammenti della mano destra di residui di esplosivo, posto che la particolare
vicinanza alla carica di tale arto non può significare che fosse animato
e tenuto conto, per altro verso, che il notevole quantitativo di residui di
esplosivo sprigionato tutto intorno dalla violenta esplosione giustifica di
per sé il suddetto rinvenimento.
Né, d'altronde, lo stato in cui furono ridotte le rimanenti parti del
corpo permise di operare una completa ed utile analisi comparativa.
Anzi, potrebbe affermarsi che la mano non rimase disintegrata sì che
fu possibile il rilevamento delle polveri, proprio perché, contrariamente
alle altre parti del corpo (diverse dagli arti inferiori), si venne a trovare
su un piano più basso, in posizione riparata e non a diretto contatto
con l'esplosivo e comunque non nelle immediate vicinanze.
Ma, l'equivocità delle conclusioni di cui alla menzionata relazione di
perizia può agevolmente desumersi anche da talune affermazioni dello
stesso dott. Procaccianti nel corso dell'esame dibattimentale (non è
stato invece escusso il dott. Caruso, essendo costui deceduto):
Pubblico Ministero: Analizzando questi resti del cadavere dell'Impastato
lei ha potuto chiarire al Giudice Istruttore titolare dell'indagine quale fosse
la posizione dell'Impastato al momento dell'esplosione, in termini naturalmente
di probabilità?
Procaccianti: Ecco, l'unica cosa che non possiamo dire la presenza di questo
… tracce di nerofumo sulle … sugli arti superiori e infatti cioè
su … sulla … sulla … sulla resa … sulla parte restante dei
metacarpi e delle ultime tre dita della mano destra, che era appunto interamente
affumicata, in più la presenza di questo nerofumo sui … sul terzo
superiore, questo diciamo consentì di potere dire che probabilmente …
ecco poi sulla faccia interna delle cosce vi era ancora … Mi scusi Presidente
se mi riporto alla relazione anche per avere … così per essere più
chiaro. Ecco, dalla presenza di questo affumicamento sembra probabile che l'ordigno
si trovasse all'altezza diciamo … personalmente io ritengo a livello della
parte superiore del torace o quanto meno qui all'altezza del … se vogliamo
tra il … dello stomaco ecco, Questo però, ecco, consente di stabilire
giustamente la posizione dell'ordigno rispetto alle parti anatomiche, non …
non permettono invece di fare luce su quello che poteva essere l'esatta posizione
del corpo dell'Impastato rispetto al suolo.
Omissis
Pubblico Ministero: Con riferimento a queste … a questi dati possiamo
affermare che il corpo dell'Impastato era adagiato, poggiato sui binari della
ferrovia, le gambe all'indietro? Voi parlate di …
Procaccianti: Si.
Pubblico Ministero: Gambe …
Procaccianti: Si.
Pubblico Ministero: Arti inferiori …
Procaccianti: Si una cosa che certamente … questo è una cosa
importante che diciamo è che … questo
omissis
Lo vorrei proprio dire con le stesse parole che abbiamo utilizzato. Cioè
l'ordigno diciamo esattamente si trovasse a una distanza diversa rispetto …
cioè per lo meno gli arti inferiori rispetto all'ordigno non erano …
erano diciamo su un piano diverso se vogliamo. Perché l'onda d'urto se
… io faccio un'ipotesi, se l'individuo fosse stato in piedi l'onda d'urto
e l'ordigno diciamo ad altezza del bacino o di stomaco, di addome quanto meno
avrebbe avuto la stessa possibilità di deflagare e quindi di distruggere
sia gli arti superiori come gli arti inferiori. Ripeto sono delle ipotesi …
Omissis
Avv. Gullo: … Lei nella perizia dice espressamente: "l'ordigno
si trovasse all'altezza del bacino dell'Impastato probabilmente tra le mani
dello stesso". Cosa significa tra le mani, che lo teneva … se vuole
chiarire alla Corte questa espressione?
Procaccianti: Ma … cioè il fatto che la mano fosse affumicata,
chiaramente significa che era in vicinanza a questo ordigno. Che lo tenesse
o non lo tenesse questo non è che lo posso dire, nel senso che lo teneva
… cioè posso dire che c'era questo ordigno che era in prossimità
delle … delle cosce, dove c'era questa zona affumicata, della mano …
dell'altra mano, la sinistra era completamente … non c'era più,
della mano destra c'erano solamente questi frammenti e in questi frammenti di
mano vi era … c'era questo affumicamento.
Avv. Gullo: Quindi come lei dice e sta confermando probabilmente quindi
poteva essere e non poteva essere che si trovasse nelle mani dell'Impastato.
Fogli 21 e 25.
Procaccianti: Si lo so. Non è che dico che lo teneva … cioè
teneva questo esplosivo con le mani … Cioè c'era questa mano che
in vicinanza di questo esplosivo.
Nel senso che la parte superiore del corpo poggiava sull'esplosivo collocato
nel ciottolato tra le due traverse dei binari si è, poi, espresso l'esperto
balistico dott. Pietro Pellegrino (anch'egli a suo tempo nominato perito per
ricostruire, in base agli atti acquisiti, la dinamica dei fatti), senza attribuire
alcun significato particolare allo stato dei frammenti della mano destra (v.
deposizione all'udienza del 20.2.01).
Rimane, pertanto, confermato da tutte le risultanze di cui sopra che l'Impastato
fu ucciso e che il suo corpo fu fatto saltare in aria dagli assassini, i quali
poi si adoperarono per eliminare le tracce del trasporto del giovane fino al
luogo dell'esplosione e per creare la messa in scena dell'attentato dinamitardo
premeditato dalla stessa vittima.
Tali particolarità della condotta degli assassini - da ritenersi inequivocabilmente
accertate - vedremo che assumono non trascurabile peso probatorio ai fini del
presente giudizio, se posti in relazione - come è corretto fare - con
gli altri elementi evidenziati dall'accusa.
Occorre a questo punto occuparsi del movente dell'omicidio, osservando che esso,
come già rilevato dal G.I., va senza ombra di dubbio ricollegato all'incessante
denunzia degli "affari" mafiosi da tempo portata avanti dall'Impastato,
con iniziative come quelle che da ultimo caratterizzarono la sua campagna elettorale,
nonché attraverso le trasmissioni satiriche di "Onda Pazza"
messe in onda da Radio Aut.
Si è già evidenziato che il modo di fare politica e di opporsi
alla straripante situazione di illegalità, in un territorio infestato
da interessi mafiosi e da collusioni con tali interessi, emerge non solo dalle
dichiarazioni di parenti ed amici, ma anche dalle prove documentali.
Per rendersi conto di ciò, basta esaminare le numerose fotografie acquisite
all'udienza del 16.1.2001, che ritraggono i cartelloni allestiti dall'Impastato
e dai compagni di partito che lo collaboravano, in occasione di una mostra tenuta
a Cinisi il 7.5.78 nella pubblica via.
Ivi si denunziano attraverso l'esibizione di materiale fotografico:
- lo sfruttamento indiscriminato delle "cave della mafia", responsabile
di avere "irrimediabilmente divorato e devastato le … montagne",
cave attivate "in concomitanza con l'inizio dei lavori dell'autostrada
…" Palermo Mazara del Vallo ( "La Mafia non sbaglia i
suoi conti" ), con "curve incredibili per non marcare di rispetto
agli amici" (osservandosi "Magistratura, Polizia, Forze Politiche
Istituzionali hanno sempre fatto finta di niente nonostante le denunce politiche
della sinistra rivoluzionaria mai un'inchiesta è stata aperta!"
);
-"gli interessi della mafia legati alle cave di Percialino ",
ossia di Finazzo Giuseppe (aggiungendosi "le maggioranze comunali di
questi ultimi sei anni - D.C., P.C.I., P.S.I. -non se ne sono mai accorte!"
);
- il "saccheggio del territorio" e in particolare lo scempio
del litorale, come la "spiaggia di Magaggiare" , dovuto alle
"costruzioni incontrollate", alle "selvagge lottizzazioni"
ed al rilascio di "licenze edilizie a Cinisi" , anche per
"villini addossati ad antichissime costruzioni tardo romane" ("la
sovrintendenza ai monumenti non ha mai sovrinteso!") ;
- il "progetto Z10 (ex PA 2), una miserabile speculazione di alcuni
miliardi" , per la quale "uomini legati alla mafia e alla D.C.
non hanno esitato a ricorrere al ricatto e alle minacce" ("totale
è stata la disponibilità delle forze politiche di maggioranza;
completamente assente l'opposizione in consiglio comunale. Solo le denunce della
sinistra rivoluzionaria hanno ritardato l'approvazione del progetto") ;
- i costi spropositati e la poca rispondenza agli interessi della collettività
di tante altri opere pubbliche, come "gli ultimi 100 metri della famigerata
Siino-Orsa, che sono costati 11 milioni" (mentre tutta l'opera era
"costata complessivamente 40 milioni"), "la strada delle Purcaria"
("20 milioni per un pugno di amici") , la Piano Margi Montelepre
( "150 milioni di finanziamento più 50 milioni di rifinanziamento
dopo la recente frana! 200 milioni in tutto!!" ), il restauro della
facciata del palazzo comunale che "sta costando all'ultima giunta D.C.
P.C.I. P.S.I. quasi 60 milioni, incredibile, di sola base d'asta!"; il
"molo di levante del Porto di Terrasini una spesa enorme, che oltre a non
risolvere il problema dell'insabbiamento, ha cancellato la spiaggia preesistente
e una zona archeologica di sicuro interesse .." ("Intanto, più
della metà dei pescatori locali vive e lavora a Viareggio.") ;
- una gestione dello smaltimento dei rifiuti poco sensibile ai problemi ambientali
( "l'immondezzaio deturpa ed inquina uno degli angoli più beli
della nostra montagna … il preannunciato inceneritore aggraverà
ancora il problema dello inquinamento … se sarà costruito, come
si ha ragione di temere, nel nostro territorio" ).
Pertanto, le concordi testimonianze di amici, parenti e compagni di partito
non hanno fatto altro che specificare taluni dei contenuti di detta azione di
denunzia e chiarire in particolar modo che, fra gli esponenti mafiosi additati
dall'Impastato, vi era anzitutto Badalamenti Gaetano, da lui evocato anche negli
ultimi comizi ed indicato pubblicamente senza mezzi termini come un boss e trafficante
di droga, localmente legato da solidi rapporti ad imprenditori, parimenti inseriti
in ambiente mafioso (come il Finazzo), nonché a molti uomini politici.
E che questo fosse l'obiettivo preso di mira dall'Impastato anche mediante lo
strumento della satira, nel corso delle trasmissioni del programma di Radio
Aut denominato Onda Pazza, è autonomamente provato dalle trascrizioni
in atti di alcune delle suddette trasmissioni.
Ed invero, le stesse non si riducevano ad un mezzo per dare sfogo al turpiloquio
ed a colorite espressioni addirittura blasfeme (come invece è stato sostenuto
dalla difesa), palesando piuttosto, in numerosi passaggi, il proposito di mettere
a nudo, attraverso un irriverente dileggio, la personalità mafiosa, gli
interessi e le connivenze amministrative dei boss locali ed anzitutto di Gaetano
Badalamenti.
E' sufficiente evidenziare al riguardo che nelle ultime puntate si alludeva
senza mezzi termini ad argomenti come quello della speculazioni edilizia portata
avanti dalla criminalità organizzata con la compiacenza dei pubblici
amministratori di Cinisi, ribattezzata "mafiopoli" (si parlava, fra
l'altro, del Finazzo, soprannominato don Percialino e del Sindaco Gero Di Stefano
soprannominato Geronimo Stefanini); ma soprattutto ci si proponeva di ridicolizzare
Gaetano Badalamenti (spesso chiamato "Tano seduto") ed il suo potere
e prestigio di boss.
Né si mancava di far riferimento al progetto di costruzione del "palazzo
a cinque piani", ponendosi in evidenza, con i modi propri di una trasmissione
satirica, i tanti sospetti sulla trasparenza dell'iter amministrativo e l'interessamento
mafioso a tale speculazione edilizia.
E negli stessi termini si trattava l'argomento del "Progetto AZ10",
con chiari riferimenti alla gestione di tutta l'operazione da parte di "Tano
seduto", il "grande capo di Mafiopoli" che aveva imposto "la
sua legge" e con avvertimenti che fanno ben capire che ci si riferiva a
Badalamenti ( "Ma che fa ti lamenti … Bada, bada, bada a come ti
lamenti" ), seguiti dall'esplosione di spari e da chiare allusioni
a quanto fosse appetitoso l'affare per la mafia ( "Ci saranno …
sei miliardi nelle nostre tasche, sei miliardi concessi dalla Cassa per la Mezzanotte"
) e persino al traffico di stupefacenti ( "… ci sarà
anche un porticciolo bellissimo … già in costruzione … da dove
le vostre merci potranno partire indisturbate da dove i nostri commerci si potranno
sviluppare … Potremo sistemare le nostre veloci canoe che porteranno al
di là del mare la sabbia bianca, le nostre canoe cariche di eroiche eroiche
merci … Potremo fumare in pace il calumet con tabacco … bianco come
la neve. Veramente lo faremo fumare agli altri il calumet della pace, il tabacco
bianco" ).
E va detto che l'Impastato, nel portare avanti la sua attenta quanto coraggiosa
opera di denunzia, senza curarsi dei diffusi atteggiamenti omertosi destinati
talvolta a tracimare nella connivenza vera e propria, si dimostrava quasi sempre
bene informato su tanti risvolti delle vicende riguardanti quella realtà
che egli chiamava "mafiopoli".
Ciò emerge a prescindere dalle rivelazioni degli ultimi collaboratori,
essendo al riguardo sufficiente richiamare le risultanze evidenziate nel citato
rapporto del Colonnello Arena (sul quale lo stesso è stato chiamato a
riferire anche nel corso del presente giudizio) e nella sentenza del "maxi
uno", ove non solo ci si occupa di Gaetano Badalamenti, della sua storica
presenza di boss mafioso nel territorio di Cinisi, dei suoi traffici di stupefacenti
ed in particolare di quello con gli USA denominato "pizza connection"
(per tale traffico l'imputato sarà arrestato in Spagna nell'Aprile '84,
estradato negli USA e ivi condannato alla pena che sta espiando), ma anche si
fa riferimento ad altri personaggi, a suo tempo parimenti additati dall'Impastato,
come Lipari Giuseppe (ossia uno dei soggetti interessati al "Progetto AZ10"),
i D'Anna, i Di Trapani e Badalamenti Antonino (cugino di Gaetano).
Quanto ai rapporti fra Finazzo Giuseppe e Badalamenti Gaetano, avuto riguardo
in particolare all'attività imprenditoriale ed alle connesse forniture
per la realizzazione di opere pubbliche, è significativo rilevare che,
dalle deposizioni del M.re Strada e del C.llo Arena, nonché da quanto
si dà atto nei rapporti acquisiti e nelle sentenze rese nell'ambito del
"maxi uno" e del "maxi quater", risulta che la S.I.F.A.C.
s.p.a. "Cava Calcarea" con stabilimento in località San Giovanni
di Cinisi, di cui erano azionisti i fratelli Finazzo Giuseppe ed Emanuele, prima
del 24.11.77 aveva sede sociale a Palermo in via Serradifalco n. 149 presso
lo studio del commercialista Giuseppe Mandalari (ritenuto uomo di fiducia dei
"corleonesi") e cioè nello stesso luogo ove aveva fissato la
sua sede sociale fin dal momento della costituzione in data 13.5.74, la SOZOI
s.p.a. (società agricola zootecnica industriale) di cui erano soci Badalamenti
Gaetano e suo fratello Emanuele e, prima del 20.9.78, presidente il suddetto
Mandalari.
Ciò nonostante, lo stesso Badalamenti, in sede di dichiarazioni spontanee
all'udienza del 27.9.01 ed in precedenza interrogato negli USA dal pubblico
ministero, ha tentato di ricondurre unicamente alla di lui sorella Fara i rapporti
imprenditoriali con Finazzo Giuseppe, circoscrivendoli ad una "società"
che si occupava del calcestruzzo.
Proprio perché le martellanti denunzie dell'Impastato coglievano quasi
sempre nel segno e trovavano diffusione anche con modi e mezzi inediti, ma assai
efficaci, il pericolo costituito da tanta irriverente ed irritante rottura del
muro dell'omertà era vieppiù palpabile, sì da far ritenere
che la soluzione del problema fosse necessaria ed anche impellente, stante peraltro
che il giovane di lì a poco, secondo attendibili previsioni, sarebbe
stato eletto consigliere comunale e dunque avrebbe avuto istituzionalmente diritto
ad interloquire e ad attingere notizie sugli "affari" che erano stati
toccati dalle sue precedenti denunzie.
Ed era altrettanto evidente che per far tacere un così risoluto e poco
malleabile oppositore non sarebbero bastate semplici intimidazioni e che anzi
esse, verosimilmente, avrebbero sortito l'effetto opposto, trattandosi di un
soggetto che non avrebbe esitato a denunziarle pubblicamente e non avrebbe mancato
di richiedere ed ottenere la solidarietà quanto meno dei non pochi compagni
di partito ed amici.
Solo l'omicidio avrebbe potuto mettere fine ad una situazione divenuta intollerabile
e pertanto meritevole di una pronta soluzione.
Del resto, non è agevole ipotizzare plausibili moventi di diversa natura
riferibili ad altri soggetti, da potersi ritenere parimenti in grado di organizzare
ed eseguire un delitto del genere, che presupponeva la disponibilità
di un commando di uomini adusi alla violenza, un'adeguata conoscenza del territorio,
la possibilità di procurarsi un notevole quantitativo di esplosivo e
la dimestichezza nel suo utilizzo.
E' vero, tuttavia, che le circostanze della scomparsa dell'Impastato quella
sera fanno fondatamente ritenere che egli, all'uscita dal bar Munacò
o forse all'interno dello stesso locale (ma in tal caso dovrebbe presumersi
che la Maniaci non abbia mai detto tutta la verità e non certo per paura
degli amici dell'Impastato che non avevano l'abitudine né la possibilità
di esercitare intimidazioni), fosse entrato in contatto con qualcuno che trovò
il modo di convincerlo a cambiare i programmi serali almeno temporaneamente
e di condurlo, così, dagli assassini nel luogo più idoneo ad eseguire
l'omicidio.
Né pare inverosimile, tenuto conto delle ramificazione dell'organizzazione
mafiosa nel territorio ed anche fra i componenti del ceppo familiare degli Impastato,
che vi fossero persone, conosciute dalla stessa vittima, in grado di svolgere
quel delicato compito, confidando sull'omertà di eventuali spettatori
di un normale incontro.
In alternativa potrebbe, in ogni caso, farsi strada la meno probabile ma possibile
ipotesi che l'Impastato fosse stato sorpreso dagli assassini all'uscita del
bar magari in prossimità della sua auto, caricato a forza sulla stessa
e condotto nel luogo dell'omicidio e ucciso o, comunque, ridotto privo di sensi
nel tragitto per raggiungere la ferrovia.
Ad ogni modo, in forza di quanto rilevato a proposito delle risultanze delle
pur lacunose indagini nell'immediatezza e nei giorni successivi, è certo
che gli assassini portarono a compimento il loro progetto, con la complessa
messa in scena dell'attentato dinamitardo, non prima delle 0,11 del 9 Maggio
(si ricordi quanto rappresentato dalle FF.SS. sull'orario cui far risalire il
danneggiamento del binario).
Le considerazioni che precedono vanno, a questo punto, completate e messe correttamente
in relazione con il quadro di conoscenze sull'assetto mafioso all'epoca nella
zona rappresentato dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia anche
in questo processo.
Nell'esaminare tali dichiarazioni si terranno presenti le approfondite valutazioni
interpretative dell'art. 192 comma III c.p.p. e le considerazioni generali in
ordine al profilo delle diverse collaborazioni che risultano rassegnate nelle
sentenze irrevocabili in atti e in particolare in quelle emesse nell'ambito
del "maxi uno" e del "maxi quater".
Al riguardo, va premesso che, già all'esito del giudizio di primo grado
del "maxi uno", grazie alle dichiarazioni dei primi collaboratori,
confortate da un'enorme mole di riscontri, si poteva accertare che la storia
di Cosa Nostra, nella prima metà degli anni '70, era stata contrassegnata
dall'ascesa di alcuni boss come appunto Badalamenti Gaetano, capomafia mafia
di Cinisi, ma anche, per un certo periodo (a seguito della ristrutturazione
dei mandamenti), "coordinatore" dei lavori della "Commissione"
che governava l'intera Provincia di Palermo.
Le aspirazioni egemoniche e le prese di posizione dei "corleonesi",
guidati da Totò Riina e Bernardo Provenzano, avevano dato luogo a quella
frattura, prima sotterranea e poi resa palese da iniziative per così
dire "ufficiali", a loro volta causa, nei primi anni '80, dello scoppio
della seconda guerra di mafia e dell'uccisione in breve tempo di boss del calibro
di Salvatore Inzerillo e Stefano Bontade e di tanti altri uomini d'onore, ritenuti
schierati nella stessa fazione del Badalamenti.
I "corleonesi", però, non riuscivano a sorprendere e ad eliminare
il Baldalmenti, il quale ad un certo punto non si era fatto più vedere
nel territorio di Cinisi (il suo peregrinare lo aveva portato dopo il 1982 anche
in Brasile, ove aveva avuto modo di incontrare il Buscetta).
Ancor prima dell'apertura delle ostilità, il Riina aveva tuttavia colto
l'occasione per sferrare un duro colpo al ruolo ed al prestigio del Badalamenti,
consistito nel farne deliberare la formale "espulsione" dal sodalizio
e pertanto dalla stessa Commisione (ormai presieduta da Michele Greco), prendendo
a pretesto gli eventi che avevano portato all'uccisione in data 30.5.1978 del
boss di Riesi Giuseppe Di Cristina.
Tale vicenda già trattata nell'ambito del "maxi uno", essendo
stato ivi contestato anche l'omicidio del Di Cristina, è stata ulteriormente
approfondita nel corso di questo giudizio, in particolare grazie alle dichiarazioni
rese sulla base di conoscenze dirette da Di Carlo Francesco, all'epoca importante
boss di Altofonte ed assai vicino ai Brusca.
Invero, per quel che qui interessa, è rimasto accertato che al Badalamenti
si era inteso contestare di avere spalleggiato il Di Cristina e comunque di
essersi incontrato con costui senza avvertire la Commissione della Provincia
di Palermo, quando il boss di Riesi aveva iniziato a tramare contro i "corleonesi"
e prendere di mira esponenti mafiosi della sua zona vicini a questi ultimi,
rendendosi in particolare responsabile dell'uccisione nel '78 del boss di Vallelunga
Ciccino Madonia.
E l'accusa di connivenza con il Di Cristina avrebbe dovuto ritenersi vieppiù
grave e meritevole di formali quanto drastici provvedimenti, in considerazione
del fatto che quel boss, nell'ultimo periodo della sua vita, aveva assunto il
ruolo di confidente dei Carabinieri, al precipuo scopo di colpire con mirate
"soffiate" i nemici in Cosa Nostra.
Ma, si è anche acquisita la notizia che il ruolo decisionale del Badalamenti
all'interno della Commissione era stato messo in discussione dai "corleonesi"
già in epoca più remota ed in particolare in occasione del diniego
opposto dal boss di Cinisi al progetto di uccidere il Collonello Russo, portato
ugualmente a compimento il 20.8.1977.
Tali ultimi eventi avevano già offerto al Riina l'occasione per gettare
ombre sul comportamento del Badalamenti, elevando contro di lui il sospetto
di fare il doppio gioco, stante che, per fini personali, avrebbe operato quale
confidente dei CC. e dello stesso C.llo Russo.
Tralasciando per adesso di considerare le dichiarazioni di Grado Gaetano, va
comunque rilevato che è ricorrente l'affermazione dei collaboratori che,
tuttavia, Gaetano Badalamenti solo con l'evolversi degli eventi degli anni successivi
sarebbe stato formalmente destituito dal ruolo di capo mafia di Cinisi, essendogli
subentrato al vertice della cosca, per decisione della Commissione, il cugino
Nino Badalamenti.
Al riguardo, l'unico punto di riferimento temporale su cui fare affidamento
va tratto dalla risoluzione del caso Di Cristina da ricollegare all'omicidio
di costui, consumato, come si è già detto, il 30.5.78.
Né si hanno precise notizie sulle modalità di comunicazione all'interessato
di un simile pronunciamento e della sua stessa attuazione, nonostante le prevedibili
manovre per renderlo non operativo.
Invero, a distanza di tanti anni, dalle fonti a disposizione è possibile
desumere in modo affidabile solamente che ad un certo punto, per la famiglia
di Cinisi, l'interlocutore istituzionale esterno della fazione "corleonese",
ormai egemone, diveniva Badalamenti Antonino.
E proprio a Badalamenti Antonino i "corleonesi" si rivolgevano qualche
anno dopo per ottenere la consegna di Gaetano Badalamenti.
Ma, siamo ormai nel periodo in cui il conflitto era aperto e a tutto campo,
si era giunti alla resa dei conti e non si faceva più mistero della volontà
di sopprimere Tano Badalamenti e altri boss "perdenti".
Come hanno concordemente riferito i collaboratori, le richieste di favorire
l'uccisione di Tano Badalamenti non trovavano però adeguata sponda nei
comportamenti di suo cugino Antonino e costui pagava con la vita tale mancata
collaborazione, rimanendo vittima il 9.8.1981 a Carini dei killer "corleonesi"
(a tale vicenda ha potuto accennare anche Ganci Calogero, essendo stato uno
dei protagonisti dell'agguato).
L'omicidio di Badalamenti Antonino inaugurava la controffensiva a Cinisi dei
"corleonesi", volta a fare terra bruciata intorno a Badalamenti Gaetano,
mediante l'uccisione di tutta una serie di parenti del boss di Cinisi e di altri
soggetti che erano stati vicini a costui, come ad esempio Gallina Stefano (egli
veniva ucciso in data 1.10.1981).
Di tale nuova situazione, che dava luogo ad un bagno di sangue senza precedenti
nella zona, può aversi contezza già prestando attenzione all'elenco
delle vittime e alla cadenza degli omicidi di cui hanno parlato i Carabinieri
escussi e si fa menzione nelle sentenze in atti.
L'omicidio di Finazzo Giuseppe in data 20.12.81, su cui ha riferito il C.llo
Arena anche nel corso della deposizione davanti a questa Corte, costituisce
appunto uno degli episodi della faida di cui sopra.
Ma, facendo un passo indietro, va rilevato che se da un lato non si può
disporre di notizie univoche sui tempi in cui fu dato corso alla risoluzione
relativa all'espulsione di Badalamenti Gaetano; dall'altro, le risultanze già
esaminate nella sentenza resa all'esito del "maxi quater" evidenziano
come, in effetti, quel provvedimento, nella realtà del mandamento di
Cinisi, almeno inizialmente, di fatto, fosse rimasto non operativo, non essendo
sufficiente ad interrompere quei solidi rapporti mafiosi instaurati da Badalamenti
Gaetano con tanti uomini d'onore, che da sempre lo avevano considerato il loro
prestigioso capo ed il loro unico punto di riferimento in Cosa Nostra; né
d'altronde egli avrebbe potuto essere estromesso da tutte le iniziative imprenditoriali
e tipicamente mafiose coltivate nella zona, ma anche fuori e persino Oltreoceano
(si pensi ai traffici droga come quello "pizza connection").
Pressappoco nello stesso modo continuavano a comportarsi, sino alla fase cruenta
della guerra di mafia, tanti importanti esponenti mafiosi di altri mandamenti
in forza di rapporti altrettanto intensi e risalenti, come riferito da diversi
collaboratori fra cui detto Di Carlo, il quale, al pari di Marino Mannoia, Buscetta,
Calderone e Mutolo (tutti all'epoca uomini d'onore in rapporti con Badalamenti
Gaetano), ha fornito comunque indicazioni che portano a collocare a non prima
dell'Estate del '78 il provvedimento di "espulsione" del boss di Cinisi
(Brusca Giovanni al riguardo si è invece espresso in termini incerti).
Nella sentenza da ultimo citata, trattandosi la posizione di alcuni imputati
accusati di avere fatto parte della cosca di Cinisi anche negli anni '80, veniva,
altresì, approfondito il tema della permanenza di tale cosca, quale associazione
di tipo mafioso capeggiata da Badalamenti Gaetano, anche dopo la sua formale
espulsione da Cosa Nostra e persino nel periodo in cui quest'ultimo era "ricercato"
dai "corleonesi".
Preziose informazioni in proposito venivano fornite dal collaboratore Palazzolo
Salvatore, il quale, ricostruendo con dovizia di particolari esperienze personalmente
vissute, riferiva in ordine alla sua affiliazione proprio nella famiglia di
Cinisi quando già era scoppiata la guerra con il "corleonesi"
e Badalamenti Gaetano stava preparando con diversi altri uomini d'onore di Cinisi
a lui vicini quella controffensiva che, però, sarebbe stata interrotta
dalla sua cattura in Spagna.
Rimandando a quanto diffusamente si osserva in detta sentenza, è comunque
significativo evidenziare che le dichiarazioni accusatorie di Palazzolo Salvatore
rese su tali temi in quella sede - e ribadite in questo processo - sono risultate
assistite da inequivocabili riscontri; di talché hanno irrobustito il
compendio probatorio posto a sostegno dell'affermazione della colpevolezza anche
del sottocapo di detta cosca Palazzolo Vito e di uno dei figli di Badalamenti
Gaetano, in relazione al reato di associazione di tipo mafioso commesso anche
dopo il 1982.
Ciò posto, procedendo alla complessiva valutazione delle risultanze fin
qui richiamate, è lecito affermare che l'espulsione di Badalamenti Gaetano
da Cosa Nostra costituisce una delibera unilaterale della Commissione, collegata
alla fine all'omicidio del Di Cristina e pertanto collocabile in epoca prossima
alla data dell'uccisione dell'Impastato, ma a tale data in ogni caso ancora
priva di effetti ai fini della designazione del titolare della rappresentanza
esterna della famiglia ed a maggior ragione della strutturazione della gerarchia
al suo interno, sì che Tano Badalamenti continuava ad esserne il capo.
E tale conclusione è del tutto coerente alla ricostruzione che attribuisce
la responsabilità deliberativa dell'omicidio Impastato a Gaetano Badalamenti
e quella esecutiva agli affiliati alla sua "famiglia".
Ma, la superiore esposizione suggerisce ulteriori considerazioni.
In quel periodo il prestigio e l'autorevolezza di Badalamenti Gaetano venivano
messi in discussione dai "corleonesi" e pertanto egli, a maggior ragione,
non avrebbe più potuto permettersi di essere dileggiato pubblicamente
a Cinisi dall'Impastato che, peraltro, con le sue martellanti denunzie, si dimostrava
in grado di ben comprendere quali fossero i ramificati interessi mafiosi in
quella zona e di lì a poco avrebbe potuto fare sentire la sua voce quale
componente del consiglio comunale, istituzionalmente chiamato a pronunziarsi
in merito alle vicende relative alle speculazioni edilizie ed agli appetitosi
appalti.
Ma, proprio le difficoltà del momento, sconsigliavano la consumazione
dell'omicidio dell'Impastato con modalità che ne rivelassero la matrice
mafiosa e facessero sì che gli investigatori fossero indotti a considerare
quello che era l'unico plausibile movente del delitto: la denunzia degli affari
mafiosi da sempre gestiti da Tano Badalamenti.
E ciò di per sé si presta a giustificare le inusuali modalità
di perpetrazione dell'omicidio, con l'impiego di una struttura organizzativa
ed operativa logicamente riferibile alle risorse della cosca mafiosa di Cinisi,
al fine di sequestrare la vittima e soprattutto di inscenare un attentato dinamitardo,
onde indirizzare le indagini su una pista che avrebbe al contempo screditato
la stessa personalità dell'ucciso.
Partendo da queste riflessioni, va altresì rilevato che un simile comportamento
non potrebbe comunque plausibilmente riferirsi ad un'invasione di campo dei
"corleonesi", sia perché costoro solo dopo qualche anno troveranno
la forza ed i mezzi per violare quel territorio, sia tenuto conto della circostanza
che la messa in scena dell'attentato appare funzionale solamente ad esigenze
riferibili al Badalamenti.
Anzi, i "corleonesi", una volta deciso di lanciare la sfida al Badalamenti
(al quale comunque non sarebbe sfuggito che in realtà si trattava di
un omicidio), non avrebbero mancato di farlo apertamente, sia per dimostrare
a tutti la loro potenza militare, sia perché avrebbero messo ancor più
in difficoltà il boss di Cinisi che si sarebbe inevitabilmente trovato
coinvolto nelle indagini, essendo proprio lui il soggetto pubblicamente bersagliato
dall'azione di denunzia dell'Impastato.
Né vale affermare che la condotta di personaggi come Giuseppe Lipari
o Ciccio Di Trapani, pure tirati in ballo dall'Impastato, sarebbe stata in seguito
ricollegata all'attività mafiosa dei boss "corleonesi".
Ed infatti, all'epoca dell'omicidio la mafia di Cinisi si muoveva compatta attorno
alla figura di Badalamenti Gaetano ed era costui a gestire i rapporti di affari
intrattenuti anche con esponenti "corleonesi", come si desume fra
l'altro dalla vicinanza al commercialista Mandalari che emerge già dalle
risalenti indagini dei Carabinieri ed è stata recentemente confermata
anche dal collaboratore Brusca Giovanni.
Siino Angelo, per anni importante pedina a disposizione dei "corleonesi"
in tante iniziative economiche mafiose, ha fatto chiarezza in particolare sulla
posizione del Lipari, nel seguente passo dell'esame:
Pubblico Ministero: … tornando a Gaetano Badalamenti, lei è a
conoscenza di suoi interessi nel territorio di Cinisi? Interessi del Badalament
intendo dire … interessi economici.
Siino Angelo: Interessi … appunto economici?
Pubblico Ministero: Economici …
Siino Angelo: Si, certamente … economici, lui praticamente …
quando si … stava per costruire l'autostrada Punta Raisi - Ma zara del
Vallo, insieme con un altro gruppo di personaggi che facevano capo ad un geometra
dell'ANAS, ormai penso abbastanza conosciuto, si chiamava Pino Lipari e aveva
degli interessi in una cava che era prima dell'ingresso di Cinisi sulla sinistra.
E questa cava si occupava appunto di fornire gli inerti e conglomerati bitumitosi
all'autostrada stessa. Poi successivamente so che lui aveva interessi su un
camping con annessa stazione di rimessaggio e alaggio di imbarcazioni che si
chiamava l'A-ZETA 10. Esattamente questa … questo camping A-ZETA 10 poi,
quando il Badalamenti cadde in disgrazia, alla fine degli anni '70 e prima degli
anni '80, fu requisito come si usa sempre in questi casi, quando si tratta di
persone cadute in disgrazie, e praticamente acquisito al patrimonio di Bernardo
Provenzano e gestito esattamente dal geometra Pino Lipari.
Pubblico Ministero: … lei ricorda se questo camping A-ZETA 10 era
intestato formalmente a Gaetano Badalamenti o se invece a suoi prestanomi e,
se sì, se ricorda i nominativi?
Siino Angelo: No, non so a chi era intestato di prestanomi del Badalamenti,
so a chi è intestato di prestanomi del … Provenzano.
Pubblico Ministero: Può dircelo?
Siino Angelo: Che erano … Lipari che era materialmente quello che
gestiva, ma era intestato a tedeschi e una certa Caldara … un certo Caldara.
Pubblico Ministero: Si … senta, torniamo al Lipari … che rapporti
c'erano prima che cadesse in disgrazia il Badalamenti, tra il Badalamenti stesso
e il geometra Pino Lipari?
Siino Angelo: Ottimi, perché il Badalamenti è di Cinisi
e la moglie del Pino Lipari è anche lei originaria di Cinisi e praticamente
… effettivamente erano molto … molto amici, in quanto il … Lipari
era il personaggio che l'aiutava a gestire i lavori che … della zona, sia
riguardanti l'ANAS che anche tutti i lavori generali che riguardavano le forniture
che potevano fare con la loro cava.
Pubblico Ministero: Dopo l'estromissione di Gaetano Badalamenti dalla
"commissione" di "cosa nostra", sa a quali personaggi si
è avvicinato Pino Lipari?
Siino Angelo: Si, esattamente si è avvicinato ai "corleonesi",
anche perché lui era corleonese di origine, in quanto originario di Campofiorito
che è un paese ricade nel mandamento di Corleone e poi effettivamente
il Pino Lipari si avvicinò ai "corleonesi" diventandone addirittura
il "consigliori". .
E parimenti alla fine anni '70 - inizio anni '80, deve collocarsi il passaggio
di detto Ciccio Di Trapani nelle file "corleonesi", come è
stato già rilevato nella sentenza del "maxi quater" e si desume
anche dalle dichiarazioni rese dai collaboratori nel corso del presente giudizio.
Ma, che la pista "corleonese" sia destituita di fondamento può
oggi affermarsi con ancor maggiore sicurezza, tenuto conto che sono state acquisite
le dichiarazioni di tanti esponenti mafiosi e killer già all'epoca sotto
le direttive del Riina e nessuno di loro ha mai riferito dell'organizzazione
da parte di quest'ultimo dell'omicidio Impastato.
E va evidenziato che se i "corleonesi" avessero deciso di portare
a compimento una così delicata operazione, non avrebbero mancato di servirsi,
come in tante altre occasioni in quegli anni, di killer di fiducia quali Anzelmo
Francesco Paolo, Ganci Calogero, Marchese Giuseppe, Brusca Giovani e Onorato
Francesco, tutti oggi collaboratori.
Per completezza va, altresì, ribadito in questa sede che alcun credito
merita la tesi dell'utilizzo con il ruolo di killer di esponenti del terrorismo
di estrema destra, stante che essa si basa solo su generiche notizie che sarebbero
state riferite all'Izzo dal terrorista Pierluigi Concutelli, il quale, all'epoca
dell'uccisione dell'Impastato, si trovava però in carcere e, comunque,
ha sempre negato di avere fatto simili confidenze ad un soggetto come l'Izzo,
da lui definito un mitomane.
Del resto, non si comprenderebbe perché gli esponenti mafiosi avrebbero
dovuto servirsi per commettere l'omicidio di soggetti estranei, quando potevano
contare su assai più affidabili uomini d'onore, ben a conoscenza del
territorio ed in grado di compiere simili delitti.
Ma, tornando a sviluppare le riflessioni sui plausibili motivi della messa in
scena dell'attentato, va aggiunto che l'artifizio pare, al contempo, rispondere
ad altri interessi riconducibili al Badalamenti.
Al riguardo, occorre premettere che le dichiarazioni della madre, del fratello
e della cognata della vittima, rese anche in questo giudizio e avvalorate da
quanto emerso dalle indagini sulla personalità mafiosa di diversi parenti
degli Impastato (alcuni dei quali rimasti uccisi e ritenuti inseriti proprio
nella famiglia di Cinisi), evidenziano che non si trattò di un delitto
qualsiasi che colpì una persona qualsiasi.
Peraltro, secondo quanto precisato da detti congiunti, pure Luigi Impastato,
padre di Giuseppe, intratteneva rapporti con Badalamenti Gaetano ed erano suoi
"amici" anche altri esponenti della famiglia mafiosa di Cinisi, come
il più volte sopramenzionato Palazzolo Vito.
Ecco perché le denunzie contro la mafia portate avanti da Giuseppe Impastato
non erano in alcun modo accettate dal di lui padre, che evidentemente era costretto
a sentire le lamentale provenienti dall'ambiente mafioso e patire al contempo
l'affronto di avere un figlio che continuava ad infangare apertamente l'onore
della sua famiglia.
Di questa difficile posizione in cui si era venuto a trovare Luigi Impastato,
paiono offrire testimonianza le vicende di poco precedenti alla sua morte ed
in particolare quelle connesse al viaggio negli USA.
Sempre dai predetti congiunti, si è appreso che poco prima di tale viaggio
e dopo la diffusione da parte di Giuseppe Impastato di un altro volantino in
cui senza mezzi termini si accusava Badalamenti Gaetano, Luigi Impastato era
stato cercato a casa da Palazzolo Vito.
Senza spiegare le ragioni dell'improvviso suo allontanamento da Cinisi, Luigi
Impastato si era poi recato negli Stati Uniti, ove era andato a trovare alcuni
suoi parenti che si erano ivi stabiliti da anni.
Neppure dai verbali di audizione in sede di rogatoria internazionale dei cugini
Giuseppe e Nicola Impastato che inizialmente ospitavano negli USA Luigi Impastato,
è possibile desumere notizie coerenti e plausibili in ordine alle reali
motivazioni del soggiorno in questione.
E sicuri chiarimenti in merito non sono stati acquisiti neanche da Bartolotta
Felicia, detta Vincenzina, altra parente presso cui in un secondo tempo si recava
Luigi Impastato in occasione di detto viaggio.
Quest'ultima, però, escussa sempre in sede di rogatoria internazionale,
ha fornito altre interessanti notizie, riferendo in particolare:
"Nel corso di detta permanenza io ebbi modo di discutere con Luigi Impastato
nonché di suo figlio Giuseppe. Egli mi disse che suo figlio, detto Peppino,
"parlava assai" e faceva politica, in particolare muovendo aspre critiche
ai mafiosi di Cinisi.
A queste parole io esternai la mia preoccupazione chiedendogli esplicitamente
se Peppino non stesse correndo il rischio di essere ucciso. A quel punto Luigi
rispose che "finché egli era in vita suo figlio Peppino non correva
alcun pericolo" in particolare disse: "prima di uccidere Peppino devono
uccidere me".
Per rendersi conto che quanto poi accaduto non è altro che quello
che si era temuto nell'ambiente familiare, è significativo evidenziare
che la stessa Vincenzina Bartolotta, parlando del suo rientro a Cinisi il giorno
della scomparsa di Giuseppe (quella sera avrebbero dovuto incontrarsi a casa
della madre di costui), ha aggiunto: "Nel corso dei funerali di Giuseppe
Impastato io ebbi modo di sentire che tutti i suoi parenti nonché altra
gente presente ai detti funerali facevano il nome di Tano Badalamenti, dando
una spiegazione del fatto assolutamente univoca e cioè che Giuseppe Impastato
era stato ucciso dalla mafia".
Va, altresì, evidenziato che Badalamenti Gaetano, già nel
corso delle sue audizioni in sede di rogatoria internazionale, ha confermato
che Impastato Luigi poco prima di partire per detto viaggio era andato a trovarlo,
dicendo di doversi recare negli Stati Uniti perché suo cugino Peppino
Impastato intendeva fare testamento e lo voleva presente.
Come aggiunto dall'imputato, Impastato Luigi, appena ritornato dagli USA, si
era nuovamente recato a casa sua consegnandogli un cravatta donata da detto
cugino a conferma di una stima reciproca.
Le stesse dichiarazioni sono state rese da Badalamenti Gaetano in sede di dichiarazioni
spontanee davanti alla Corte, rimanendo così ribadita dall'imputato una
versione sui motivi del viaggio di Luigi Impastato sconfessata dagli stessi
parenti americani di quest'ultimo.
Anche tralasciando di considerare le altre affermazioni dei testi su tali vicende,
fondate su supposizioni e comunque non altrettanto riscontrate, non vi è
dubbio che l'accertata sequenza degli eventi evidenzia non solo i legami esistenti
fra il padre della vittima ed il boss di Cinisi, ma anche una serie di contatti
con costui ed i suoi emissari, che possono plausibilmente mettersi in relazione
con lamentele ed avvertimenti fatti pervenire a Luigi Impastato a causa del
comportamento del figlio e con l'adoperarsi da parte dello stesso Luigi Impastato
al fine di scongiurare il pericolo di un tragico epilogo della vicenda.
Ciò posto, può pure rilevarsi che la decisione di uccidere Peppino
Impastato, pur se non più procrastinabile, avrebbe potuto creare non
pochi problemi, anche sotto il profilo dei rapporti con altri soggetti legati
a Gaetano Badalamenti, per tradizione familiare e/o mafiosa.
E una cosa sarebbe stato firmare il delitto facendo scomparire il giovane o
procedendo ad una plateale esecuzione, altra cosa invece sarebbe stato, come
in effetti è stato, allestire la messa in scena dell'attentato, rappresentando
così una verità "ufficiale" che prevedibilmente avrebbe
esposto il Badalamenti soltanto a voci ed illazioni non provate e, comunque,
tali da non mettere in difficoltà gli Impastato, mostrandoli pubblicamente
quali vittime di un omicidio di mafia.
Né può escludersi, considerate le ragioni fatte valere da Badalamenti
e l'impossibilità di arrestare in altro modo il pericoloso corso dei
fatti, che detta opzione fosse stata previamente accettata pure da chi all'interno
della cosca era legato al giovane da rapporti familiari.
E' ravvisabile, dunque, una concorrente motivazione per riferire la messa in
scena dell'attentato agli interessi di Badalamenti Gaetano.
Anche per questo non va dato credito alle obiezioni espresse nella nota in atti
del 20.6.84 a firma dell'allora Maggiore Tito Baldo Honorati, Comandante del
Nucleo Operativo Gruppo di Palermo, con la quale a proposito del caso Impastato
si comunicava ai superiori:
"Le indagini molto articolate e complesse svolte all'epoca da questo
Nucleo Operativo hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia
trovato la morte nell'atto di predisporre un attentato di natura intimidatoria.
L'ipotesi di omicidio attribuito all'organizzazione mafiosa facente capo al
boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata
e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato
alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore
del Tribunale di Palermo, Dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione
di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione
pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro
è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica.
Lo stesso Magistrato peraltro, nell'ambito dell'istruttoria formale condotta
con molto interessamento, non è riuscito a conseguire alcun elemento
a carico di esponenti della mafia di Cinisi tanto da concludere con un decreto
di archiviazione per delitto ad opera di ignoti.
A parte il complesso di elementi a suo tempo forniti da questo Nucleo a sostegno
della tesi prospettata dall'Arma, si vuole fare osservare, e ciò è
di immediata intuizione per chi conosca superficialmente questioni di mafia,
come una cosca potente, ed all'epoca dominante, come quella facente capo al
Badalamenti non sarebbe mai ricorsa per l'eliminazione di un elemento fastidioso
ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche
di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad
esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell'Impastato, o la più
sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben
difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni.
Si aggiunge, con riserva di fornirne dimostrazione che l'indagine è stata
svolta con il massimo scrupolo e la possibile completezza ed, allo stato non
sussistono ulteriori possibilità investigative".
Esaminando il contenuto di tale nota e le spiegazioni che ha tentato di
darne il C.llo Honorati nel corso della sua audizione dibattimentale, non può
tuttavia sottacersi che appare stupefacente che un alto ufficiale dei Carabinieri
abbia potuto tranciare giudizi così netti e poco lusinghieri sull'operato,
con "molto interessamento", del Consigliere Istruttore dottor Chinnici,
che invero con le sue penetranti e coraggiose iniziative aveva dato tanto fastidio
alla mafia da essere anche lui ucciso insieme ai Carabinieri della scorta, appena
un anno prima a seguito dell'esplosione di un'auto bomba, sì da non avere
avuto neppure la possibilità di completare l'istruzione relativa all'omicidio
Impastato.
Del resto, alla luce di quanto già osservato, non può certo dirsi
che le iniziali indagini dei Carabinieri fossero state attente, complete e libere
dall'accettazione preconcetta di tesi fuorvianti, se non altro perché
contrastanti persino con semplici considerazioni di natura logica.
Sul punto la parte civile ha molto insistito, rappresentando tutta una serie
di altri lati oscuri e di anomalie delle prime indagini, ma tale tema di accertamento
non appare utile ai fini della decisione che ci occupa, non sussistendo comunque
elementi per sostenere che si tratti di vere e proprie collusioni con i responsabili
dell'omicidio, anziché di mera imperizia o dell'accettazione di tesi
che avrebbero consentito una comoda soluzione del caso senza smuovere troppo
le acque.
Ad ogni modo, va dato atto che il contenuto della predetta nota del Colonnello
Honorati non era in sintonia neanche con le conclusioni che nel corso dell'istruzione
formale erano state rassegnate (e sono state poi ribadite) dal Colonnello Subranni
e dal Capitano Arena.
Come si è visto, nella sentenza del G.I. si evidenziava, anche ai fini
della ricostruzione del contesto mafioso in cui poteva ritenersi maturato l'omicidio,
come fosse circolata la notizia dell'avvertimento degli Amenta di non recarsi
a Cinisi, perché in quei giorni sarebbe successo "qualcosa di grosso",
di modo che si era subito creato uno stato di apprensione tra gli amici degli
Impastato, alcuni dei quali, non vedendolo arrivare nella sede di Radio Aut
ove era stata indetta per le 21,00 la riunione, lo avevano cercato senza esito
per diverse ore in paese e nei dintorni, utilizzando tre auto, una delle quali,
con a bordo il Lo Duca, ad un certo punto era stata seguita da altra auto.
Né era stato trascurato da quel Giudice "l'inquietante collegamento
che - dalle carte processuali traspare tra l'episodio ora ricordato ed il colloquio
"appartato" svoltosi dinanzi al Municipio, la domenica precedente
la mortale esplosione, tra Amenta Carmelo e Finazzo Giuseppe" aggiungendosi
che "Detto colloquio, notato dal Di Maggio Domenico … e da questi
riferito al Riccobono Giovanni e ad altri amici, trova riscontro anche nella
testimonianza di Di Maggio Faro …; risulta - di contro - tutt'altro che
recisa e convincente la smentita dell'Amenta Carmela ( … "non ricordo,
avrò potuto anche fermarmi a parlare un po' nel senso che il Finazzo
mi avrà rivolto l'invito di andare con lui al circolo").
Nulla di nuovo è emerso nel presente giudizio con riguardo a tali
ultime circostanze, la cui veridicità non può ritenersi comunque
smentita dal fatto che non siano state riferite nell'immediatezza ai Carabinieri,
stante il clima di sfiducia ingenerato dalla piega che avevano preso le indagini,
indirizzate piuttosto a disvelare manovre eversive, tramite una serie di perquisizione
nella sede di Radio Aut e nell'abitazione di amici e parenti dell'Impastato
e di pressanti audizioni degli stessi, in più occasioni accompagnate
dalla contestazione di risultanze fuorvianti, quali appunto quelle relative
al rinvenimento della lettera autografa in cui sembravano manifestarsi intenti
suicidi.
E non va trascurato che era tanto radicato il pregiudizio nei confronti degli
amici e parenti dell'Impastato che, subito dopo l'uccisione del Finazzo, non
si mancava di procedere nuovamente a perquisizioni a loro carico, come se quei
giovani potessero essere questa volta implicati nell'omicidio di un indiziato
mafioso vicino a Gaetano Badalamenti, commesso in un contesto e con modalità
tali da rendere palese il divampare della faida fra clan, in lotta per l'egemonia
nel territorio.
E' stato acquisito al fascicolo del dibattimento il verbale di audizione davanti
al G.I. in cui Lo Duca Vito aveva riferito la circostanza dell'inseguimento
della sua auto, "per circa 6 o 7 minuti" da parte di quella condotta
da Pizzo Salvatore, già notato più volte a bordo dello stesso
mezzo, mentre stazionava sotto casa di Gaetano Badalamenti.
Ritiene la Corte che neppure questa circostanza possa essere trascurata ai fini
della valutazione complessiva degli elementi offerti dal processo e della loro
concatenazione logica in chiave accusatoria.
Ed infatti, va considerato che il commando che si fece carico di eseguire il
sequestro dell'Impastato, di ucciderlo e portarlo con l'auto nel luogo in cui
fu rinvenuto il corpo dilaniato, rimase operativo almeno fino a subito dopo
l'esplosione, collocabile - come si è visto - non prima delle ore 0,11
e, pertanto, nello stesso arco di tempo in cui Lo Duca Vito e gli altri si mossero
in auto alla ricerca dell'amico.
Ed è lecito ritenere che gli assassini, mettendo in atto un simile piano,
non trascurarono di battere la zona a titolo precauzionale, sì da potersi
accorgere dell'auto con il Lo Duca e seguirne i movimenti.
Ecco perché rileva che il Pizzo coinvolto in tale pedinamento possa considerarsi
soggetto non estraneo a rapporti con Badalamenti alla luce delle altre indicazioni
fornite dal Lo Duca per esperienza diretta.
E' chiaro, però, che si tratta di un tassello di un quadro indiziario
ben più articolato ed arricchito da altri elementi significativi, tenuto
conto di quanto si è rilevato sui seguenti temi: l'unico plausibile movente
è riferibile proprio a Badalamenti Gaetano; lo stesso per di più
aveva l'impellente necessità di fare tacere l'Impastato e poteva riuscirvi
solo uccidendolo; il Badalamenti era il capo della famiglia mafiosa di Cinisi,
ancora coesa ed operante incontrastata nel territorio; le peculiari modalità
di esecuzione del delitto vanno ricondotte all'apparato di uomini, conoscenze
e mezzi da sempre a disposizione della predetta cosca (si pensi alla facilità
di procurarsi e maneggiare il notevole quantitativo di esplosivo in uso nelle
cave della zona, alcune delle quali riferibili di fatto allo stesso Badalamenti);
l'imputato, il principale possibile sospettato non solo dalla P.G., aveva il
particolare interesse ad approntare la complessa messa in scena dell'attentato.
E sotto quest'ultimo profilo vanno, altresì, richiamate le considerazioni
rassegnate a proposito di quel che si è potuto apprendere sul comportamento
di Luigi Impastato nell'ultimo periodo di vita, che comunque evidenzia che costui,
pur essendo al pari di altri familiari in intimi rapporti con il boss di Cinisi,
aveva esternato la preoccupazione che il figlio fosse ucciso a causa delle denunzie
contro la mafia locale.
Tenendo presente tale quadro, occorre adesso occuparsi delle dichiarazioni dei
collaboratori che attengono alla paternità del delitto.
Al riguardo, va rilevato che sono state acquisite tutte notizie "de relato",
che in quanto tali debbono valutarsi con quel particolare metodo che richiede,
anzitutto, il controllo della fonte di riferimento e l'approfondimento delle
modalità di trasmissione delle informazioni.
Considerato ciò, le dichiarazioni rese da Brusca Giovanni, Brusca Emanuele
(fratello del primo), Mutolo Gaspare ed Onorato Francesco a proposito della
responsabilità di Badalamenti Gaetano assumono una valenza probatoria
assai limitata, dovendosi prendere atto che i predetti collaboratori, pur soffermandosi
sulle persone e sul contesto di tempo e di luogo in cui avrebbero appreso le
notizie in questione, non hanno tuttavia offerto indicazioni sulle fonti dei
rispettivi referenti e comunque non le hanno fornite in modo convincente.
In particolare, Brusca Giovanni ha riferito che, in occasione di un incontro
in contrada Dammusi di San Giuseppe Jato fra suo padre Bernardo, Riina ed altri
esponenti mafiosi alleati dei "corleonesi", si era commentato di
questo Peppino Impastato che il Badalamenti avrebbe commesso questo fatto"
ed in particolare il Riina aveva affermato che Badalamenti aveva detto di
avere fatto il proprio "dovere".
Il collaboratore ha poi sostanzialmente confermato quanto aveva riferito al
P.M. e cioè che il Riina aveva riportato la notizia di cui sopra, in
quanto il Badalamenti "se ne vantava, aveva parlato con qualcuno …
perché questo qua (Giuseppe Impastato) faceva campagna contro
"cosa nostra" e gli dicevano ma quando te ne esci di questo fatto?"
.
Successivamente, il P.M. ha proceduto ad un'altra contestazione:
Pubblico Ministero: Leggo le parole testuali: "E' stato fatto, ordinato
da Gaetano Badalamenti; questo di qua, io lo so da commenti fatti da mio padre
e da Salvatore Riina, in quanto, quando è stato fatto questo omicidio,
è stato fatto in maniera particolare per deviare le indagini ….
Gaetano Badalamenti si vantava di avere fatto questo omicidio e di avere architettato
questo stratagemma per deviare le sue indagini da questo omicidio". Ricorda
di avere fatto queste dichiarazioni Brusca?
Brusca Giovanni: Sì sì, confermo … quello che volevo
dire, non so Salvatore Riina da chi l'ha appreso, confermo quanto lei ha letto
Pubblico Ministero: Ma quando lei dice Gaetano Badalamenti si vantava
di avere fatto questo omicidio, ci può chiarire allora che cosa intendeva
dire?
Brusca Giovanni: Che Salvatore Riina aveva appreso, non so se direttamente
dallo stesso o da altre terze persone, che Gaetano Badalamenti, quando andò
a riferire questo particolare, che se ne vantava di avere portato a termine
questo fatto. Non so chi gliel'ha detto, cioè il tramite se diretto o
tramite terze persone, questo non so.
E nel corso della sua audizione il collaboratore non ha mancato di evidenziare
come in quel periodo il Riina, davanti ai suoi alleati, fosse solito esprimere
giudizi poco lusinghieri sul conto del Badalamenti accusandolo fra l'altro di
essere un confidente dei Carabinieri.
Sicché, non può disconoscersi che Brusca Giovanni non solo non
è stato nelle condizioni di indicare la fonte iniziale delle notizie
recepite sull'omicidio Impastato, ma anche ha tratteggiato uno scenario da cui
emerge che i rapporti fra Badalamenti e Riina si erano tanto incrinati da rendere
poco plausibile che i due si fossero accordati in vista della consumazione del
delitto e che, comunque, il primo avesse fatto delle confidenze al secondo su
come aveva gestito il delicato caso
Gli stessi rilievi vanno espressi con riguardo a quanto riferito a Brusca Emanuele,
stante che costui si è limitato a riportare commenti di Bagarella Leoluca,
cognato del Riina, in occasione dei quali non si era persa l'opportunità
di censurare l'operato dell'odiato Badalamenti.
P.M.: … Lei ha accennato di aver appreso da Leoluca Bagarella un fatto
specifico attribuibile a Gaetano Badalamenti. Quale è questo fatto?
Brusca Emanuele: Cioè in sostanza siamo nel … nel 1978. In
quel periodo in Palermo venne ucciso un tale Giuseppe Di Cristina. In quell'occasione
io ebbi modo di assistere, perché fu ferito Antonino Marchese, che allora
fu accompagnato da Bagarella a casa mia per … perché ferito e poi
noi abbiamo assistito e quindi aiutato nel … nel … medicare il …
l'Antonino Marchese. In quel contesto di tempo, quindi in quel periodo di tempo
io ho avuto modo di … di … di scambiare con Bagarella pareri, opinioni
e il Bagarella ricordo che in una di queste occasioni mi parlava di una fatto
allora avvenuto in Cinisi, cioè a dire l'uccisione di un … di un
… di un attentato terroristico, diciamo di una persona impegnata politicamente,
un certo Impastato. Diceva che, andando per sintesi, che il … il …
questa era una messa in scena, in quanto il Badalamenti aveva voluto così
mascherare l'eliminazione di questa persona facendolo apparire come un fatto
politico - terroristico. Non so se ho reso il concetto.
P.M.: Si lei si ricorda dove vi trovavate con Bagarella in quel periodo
quando le fece queste confidenze?
Brusca Emanuele: Cioè Bagarella era molto vicino alla mia famiglia,
veniva spessissimo a casa mia, avevamo come punto di ritrovo una contrada che
si chiama contrada Dammusi in territorio di Monreale che è vicinissima
a Palermo. Ci vedevamo a Palermo, cioè con Bagarella non c'erano …
non c'era luogo, diciamo il rapporto era tanto intimo che … diciamo uno
vale … Non ricordo quale era il luogo preciso, però col lui avevo
questa …. Questa possibilità di incontrarmi in tutti questi luoghi.
P.M.: … Bagarella le specificò quali erano le ragioni che
avevano spinto Gaetano Badalamenti a ordinare l'uccisione di Peppino Impastato?
Brusca Emanuele: Cioè il Bagarella allora criticava Badalamenti
perché diceva che questo era un atto di debolezza del … del Badalamenti
o un atto addirittura di vigliaccheria, lo definiva in questi termini, perché
diceva che questo … questo Impastato derideva, sfotteva, provocava continuamente
in Cinisi e lui diciamo subiva … senza reagire. Quindi una persona della
portata di Badalamenti doveva in qualche modo dare una dimostrazione e il fatto
che camuffò la morte con … con l'attentato terroristico diciamo
fu … il Bagarella lo definiva un atto di vigliaccheria.
P.M.: … Leoluca Bagarella in quel periodo le specificò se
aveva appreso queste notizie direttamente da Gaetano Badalamenti o se no invece
da chi?
Brusca Emanuele: Non ricordo al momento, però lo dava come un
fatto certo, come un fatto assodato. Non me lo ricordo se … se mi disse
di averlo appreso da qualcuno, se … se ne era conoscenza diretta diciamo.
Da parte sua, il Mutolo, uomo d'onore della famiglia di Partanna Mondello
assai vicino al capo mandamento Rosario Riccobono, si è anzitutto soffermato
su quanto appreso sull'omicidio Impastato da altri esponenti mafiosi, in carcere
subito dopo il fatto e, da libero, quando già Badalamenti Gaetano era
stato espulso da Cosa Nostra, era stato sostituito dal di lui cugino Nino quale
capo famiglia e l'intero mandamento era stato posto sotto la "reggenza"
di Rosario Riccobono.
P.M.: … Mutolo riferisca alla Corte tutto quello che sa riguardo all'uccisione
di Peppino Impastato, e se ha saputo fatti e circostanze da terzi, specifichi
i loro nominativi.
Mutolo Gaspare: Guardi io mentre mi trovavo in galera … intorno
…. nel 1978 … nel 1978 … abbiamo sentito … perché
era in una … in un braccio … diciamo dell'Ucciardone in galera, che
ci eravamo tanti mafiosi di tutte le famiglie di Palermo ricoverati, l'omicidio
di questo … diciamo non che l'omicidio, questo omicidio …. Questa
persona che era stata trovata morta, ricordo dentro una macchina .. di piccola
cilindrata che era stata investita da un treno … noi … diversi detenuti
abbiamo commentato questo fatto, perché si parlava spesso di questi …
di tutto quello che succedeva attraverso la lettura dei giornali, delle ….
e della televisione e delle notizie che si avevano quando si andava nei colloqui
che si facevano in quel periodo, abbiamo sentito subito che non era affatto
diciamo un omicidio così ... causale, di un investimento del treno, ma
era stato un omicidio di mafia perché, diciamo, questo ragazzo che era
un cronista … aveva una specie di radio privata diciamo più di una
volta era stato richiamato da persone della mafia perché aveva assunto
delle … dei toni un pochettino critici e magari offensivi nei riguardi
di Gaetano Badalamenti … Soprannominandolo, diciamo, toro seduto oppure
Tano bada come te lamenti e questi oggetti così … Quindi c'è
stato qualche … qualche persona che ha detto no, questo dice … già
si sapeva da molto tempo prima che si doveva uccidere, perché dava fastidio
… diciamo a Gaetano Badalamenti.
Omissis
P.M.: ... lei ha accennato ad un investimento di una macchina sui binari
di una ferrovia. E' certo di questa circostanza …
Mutolo Gaspare: Ma guardi, io mi ricordo che abbiamo noi letto …
credo o commentato, non mi ricordo perché è un discorso di più
di 20 anni fa …
P.M.: Si quando dice noi, a chi si riferisce … lei e chi altri?
Mutolo Gaspare: Ma guardi, in infermeria, in quel braccio dove io mi
trovavo, eravamo circa 35 detenuti, tutti mafiosi di tutte le "famiglie"
palermitane, quindi ogni mattina si commentava se veniva uccisa qualche persona
… se veniva … tutti i fatti di cronaca li commentavamo insomma a gruppi
a gruppi insomma … con le persone che più eravamo in contatto. Io
ricordo che la prima notizia, diciamo, che … che si è avuta, che
questo Impastato, questo cronista … era stato investito. Dopo arrivò
la notizia no, che era stata una simulazione, che questo ragazzo era stato strangolato
e dopo fatto scoppiare con la dinamite, diciamo … facendo capire e facendolo
mettere vicino ai binari, diciamo … vicino dove passava la ferrovia per
far capire che era stato investito, qualche cosa del genere …
P.M.: Eh … ma in particolare chi le accennò a queste circostanze?
Lasci stare le notizie di cronaca, io vorrei sapere se lei ha avuto notizie
di terzi, da persone da uomini d'onore o da altri soggetti.
Mutolo Gaspare: Ma guardi … io in questa prima fase eravamo tutti
detenuti si andava ogni settimana oppure ogni 15 giorni a colloquio … e
ci venivano a trovare familiari, cioè persone che appartenevano alla
nostra famiglia mafiosa. Io le posso indicare in quel periodo sono per esempio
con un certo Lamberti Salvatore che è una persona … era in quel
periodo … era molto legato, diciamo a Gaetano Badalamenti, c'era un certo
Gaetano Fidanzato che era dell'area, diciamo, di … di Gaetano Badalamenti
… così come, tutte le persone in simpatia … Quelli della famiglia
di … Partanna Mondello.
P.M.: … Lei ha accennato a questo primo periodo relativo alla sua
detenzione nel carcere Ucciardone; successivamente ha appreso delle altre circostanze?
Se sì, da chi … relativamente a questa a questa uccisione?
Mutolo Gaspare: Sì, ma io questo stavo aggiungendo, quando io
proprio sono uscito, io ho parlato …. Mi sono trovato a parlare anche perché
la famiglia di Cinisi era sotto il mandamento di Rosario Riccobono, cioè
nella mia famiglia mafiosa e così parlando parlando con Rosario Riccobono,
che era il mio capo mandamento, il mio capo famiglia e con una compare mio,
un certo Micalizzi Salvatore e il fratello Michele Michele, che si parlava così,
ma per ridere, che questo Impastato che era stato diciamo ucciso, era …
perché aveva, diciamo … aveva di questi … questi atteggiamenti,
diciamo, così offensivi nei riguardi di Gaetano Badalamenti.
P.M.: … Riccobono, cioè Rosario Riccobono e i due Micalizzi
a cui ha accennato, le hanno riferito qualche particolare riguardo a questa
uccisione, le hanno detto chi aveva ucciso Peppino Impastato?
Mutolo Gaspare: No, chi precisamente è stato eseguito l'omicidio
no … io no mi ricordo, però che in quel periodo non si muoveva una
foglia d'albero, non si faceva la minima cosa a Cinisi, Carini … se non
c'era la volontà di Gaetano Badalamenti, quindi un omicidio era discorso
pacifico, sereno che … non l'avrebbe potuto ordinare che Gaetano Badalamenti,
perché era il capo mandamento di Cinisi, ma in quasi tutta la Sicilia.
P.M.: … Mutolo, queste sono sue valutazioni o Rosario Riccobono
le disse che Badalamenti Gaetano aveva ordinato l'omicidio di Peppino Impastato?
Mutolo Gaspare: No questi sono quello che mi ha detto, diciamo, Rosario
Riccobono e i fratelli Michele Micalizzi, a parte che io il Gaetano Badalamenti
io lo conosco da moltissimo tempo e quindi non è che parlo perché
è una persona che non conosco, è una persona che conosco benissimo
… da moltissimi anni. Questo fatto però … io siccome era in
galera, non lo potevo sapere, quindi l'ho saputo e ho avuto la conferma perché,
dopo l'estromissione di "cosa nostra" di Gaetano Badalamenti, la famiglia
di Gaetano Badalamenti passò nel mandamento di Rosario Riccobono, cioè
tutti gli uomini d'onore di Cinisi dovevano fare capo a Rosario Riccobono.
Omissis
P.M.: … io vorrei che lei puntualizzasse meglio, tornando indietro
a Rosario Riccobono, quando Rosario Riccobono le dice che l'omicidio di Peppino
Impastato era stato ordinanto da Gaetano Badalamenti. In che epoca siamo, se
si ricorda dove …
Mutolo Gaspare: Guardi siamo nel 1980 … siamo in un villino che
Rosario Riccobono, tra Partanna Mondello e Cardillo e quindi spesso io, quando
sono a Palermo, sono sempre con Riccobono, perché Riccobono, oltre a
essere il mio capo famiglia, è anche … è il mio amico, quindi
riconosciamo da tanto tempo, quindi stiamo con le famiglie assieme, in una occasione
che si parla, che spesso si nominava, diciamo, Gaetano Badalamenti … per
… per quei fattori che andavano … nascendo, perché molte persone
grazie, diciamo, a quel comportamento di Gaetano Badalamenti vengono uccisi,
vengono eliminati e quindi il Badalamenti è un personaggio che è
molto discutibile in quel periodo, sempre che ne parliamo, sia di bene o di
male, comunque non passa una giornata che non ne parliamo …
Poi il Mutolo, rispondendo alle domande dell'Avv. Gullo, ha ribadito che
nell'infermeria di "Ucciardone", nel periodo in cui si era discusso
dell'omicidio dell'Impastato, vi erano numerosi altri esponenti mafiosi (oltre
quelli già nominati) e fra questi anche Grado Gaetano.
Micalizzi Salvatore e Rosario Riccobono sono stati inghiottiti dalla lupara
bianca il 30.11.82; mentre Micalizzi Michele e Fidanzati Gaetano, entrambi in
atto detenuti e condannati per associazione di tipo mafioso ed altri gravi delitti,
sentiti in dibattimento su richiesta della difesa, hanno negato di avere parlato
con il Mutolo di argomenti come l'omicidio Impastato e non avrebbero potuto
fare altrimenti, avendo gli stessi sempre rinnegato conoscenze e rapporti con
altri soggetti in ipotesi riferibili ad una comune affiliazione al sodalizio
Cosa Nostra
Si è altresì proceduto ad escutere Grado Gaetano, il quale invece
di recente ha manifestato l'intenzione di collaborare con la giustizia.
Il Grado, uomo d'onore della famiglia Santa Maria di Gesù fin dagli anni
'60, ha premesso che il suo capo Stefano Bontade gli aveva presentato, prima
del 1970, Badalamenti Gaetano come il "rappresentante di Cinisi";
con costui si erano poi frequentati senza però commettere in concorso
delitti; nel periodo successivo al '70 -'71, non lo aveva più incontrato,
ma aveva potuto apprendere dal Bontade, che era stato "messo fuori famiglia"
per vicende che avevano a che fare con l'uccisione del padre del boss di Caltanissetta
Piddu Madonia
Il Grado ha poi ricordato che per circa un anno e fino a 17.5.78 era stato detenuto
all'Ucciardone e, poco tempo dopo "l'attentato" all'Impastato, ne
aveva parlato con il boss di Porta Nuova Pippo Calò.
Al riguardo il Grado così si è espresso: "Cioè
in pratica io incontrai dopo … è stato l'omi … dopo l'attentato
che hanno fatto a questo Impastato. Incontrai in un bar un certo Pippo Calò.
Cioè e gli dico ma come mai è successo sto fatto qui? Ma così
accademicamente. E lui mi fa, dice, non Gaetano Badalamenti non ne sa niente,
perché e … era giusto come mi aveva detto lui. Perché quando
c'era veramente che esisteva "cosa nostra", regola di "cosa nostra"
ferrea, in pratica se una persona era messo fuori "famiglia" non poteva
né chiedere di commettere nessun delitto e né avvicinare degli
uomini d'onore né le famiglie, questa era la vero regola di "cosa
nostra". Perciò io penso, escludo, a parere mio categoricamente
che Gaetano Badalamenti sia stato … l'autore principale … di fare
questo …. attentato Impastato …"
Nel prosieguo, il dichiarante, sempre interpellato dal P.M., si è
soffermato a riferire sul suo più recente incontro con il Badalamenti.
P.M.: ….Ha poi avuto modo di incontrare Getano Badalamenti fuori dal
territorio nazionale, diciamo dopo la guerra di mafia negli anni '80?
Grado Gaetano: Ma guardi l'ho incontrato io a Badalamenti mi ricordo
ma non so precisare sempre … ma prima allora che lui venisse arrestato
su a Madrid. Ero io latitante e lo incontrai su a Madrid Gaetano Badalamenti.
… Poi ho sentito del suo arresto e non ne ho saputo più niente.
P.M.: Lo incontrò per quale ragione?
Grado Gaetano: No, non è che ci siamo incontrati perché
avevamo un appuntamento. Per un puro caso, così lì a Madrid, io
ero su a Madrid un giorno stavo pigliando l'areo che mi stato trasferendo in
un'altra città, sempre da latitante, e a lui lo incontrai lì vicino
l'aeroporto. Poi dopo giorni ho sentito che lui è stato arrestato lì
su a Madrid. Ma non è che ho avuto più la possibilità di
incontrarlo, vederlo. … E' stato casualmente, non è che avevamo
un appuntamento su a Madrid.
P.M.: Sono passato latitante sulla Costa Azzurra, a Nizza, ci sono stato
quasi 4 anni. Poi sono sceso giù a Palermo quando ho deciso di fargli
la guerra contro Totò Riina e mi hanno arrestato nell'89 e ancora oggi
sono carcerato.
Il Grado è stato altresì interpellato dalla difesa a proposito
delle conversazioni in carcere sulla morte dell'Impastato riferite da Mutolo.
Avv. Gullo: … Lei conosce Gaspare Mutolo?
Grado Gaetano: Sì, lo conoscevo come "uomo d'onore"
de … fa … facente la parte la famiglia di Saro Riccobono.
Avv. Gullo: Dove lo ha conosciuto se lo ricorda?
Grado Gaetano: Ma guardi Gaspare Mutolo che abbiamo fatto pure una carcerazione
…. Assieme, perché ai tempi eravamo tutti concentrati quelli imputati
per mafia all'Ucciardone di Palermo in infermeria, che avevamo una sezione tutta
per noi, cioè un piano tutto per noi. L'ho conosciuto lì, lo vedevo
altre volte giù a Palermo, lo incontravo spesso, ma non ci ho avuto mai
niente a che … a che dividere o spartire.
Avv. Gullo: Con Mutolo non ha niente avuto da dividere e da spartire.
Paralavate di omicidi o di altro con … con il signor Mutolo oppure no?
Grado Gaetano: Ma completamente non esisteva, perché ripeto la
regola del … della vecchia mafia, di "cosa nostra", non è
che noi potevamo permettere che io incontravo un pinco pallino o un altro "uomo
d'onore" di un'altra "famiglia" e ne … e parlavamo di fatti
delittuosi, completamente non esisteva. Anche per non creare responsabilità
ad altri o creare delle responsabilità personali.
Avv. Gullo: Giusto. Quindi non le parlò mai della morte o dell'omicidio
o dell'incidente occorso a Giuseppe Impastato?
Grado Gaetano: No, no, completamente. Non avevo questi rapporti poi,
lui faceva parte della famiglia di Saro Riccobono, io facevo parte a un'altra
famiglia perciò non c'era poi questa … questa intimità di
… di parlare di fatti delittuosi. Se io ne dovevo parlare, quando ne parlavo,
con qualcuno della mia famiglia, appartenente alla mia famiglia.
Avv. Gullo: Certo. Quindi né Mutolo le parlò mai di questo
caso Impastato né ne parlò mai lei a Mutolo, giusto?
Grado Gaetano: No, no, completamente.
Osserva la Corte che l'attendibilità del Grado, sia in generale che
con riguardo alle dichiarazioni di cui sopra, va messa seriamente in discussione,
anche tenuto conto che la genuinità del contributo di tale nuovo "dissociato"
da "Cosa Nostra" - a quanto risulta - non è stata ancora acclarata
da alcuna pronunzia emessa all'esito di altri giudizi.
Del resto, il Grado, rispondendo alle domande poste dal Presidente all'esito
dell'audizione dibattimentale, ha inizialmente sostenuto, a proposito della
genesi della sua collaborazione: "Cioè in pratica signor Presidente
lei potrebbe dirmi ma non è da stupidi, io mi sono fatto tutta la carcerazione
mia. Quando ho finito la mia carcerazione in pratica con i benefici e tutto
io dovrei essere fuori, ancora oggi sono carcerato ….. Perché ripeto
signor Presidente, anche per … per adito alla sorveglianza di dove mi trovavo
a L'Aquila che in pratica io mi sono ripresentato. Perché ripeto tra
il carcere che avevo fatto, perché tenga presente che io sono stato arrestato
nell'89, 3 anni di condono mi hanno applicato, in pratica buona condotta che
ho carceraria che mi dovrebbero applicare ancora oggi i giorni che non li ho
chiesti io, io vado a finire a qualche 16 anni … 16 - 17 anni di carcere
signor Presidente. E lei mi insegna che con le leggi di oggi una persona con
30 anni definitivi la pena è quella lì, in pratica ero scarcerato
quasi signor Presidente e mi sono ripresentato a maggior ragione per questo
qui, perché volevo andarmene all'estero non ne volevo sentire parlare.
Quando ho capito che mi stavano per scarcerare, perché ero quasi arrivato,
allora ho deciso di collaborare e la mia collaborazione, guardi signor Presidente,
che non è indifferente perché io mi sto accusando di una serie
di omicidi, appartenenti tutti … collegati con il signor Totò Riina
e company. Non è che io gli ho fatto pochi omicidi al signor Riina …
Io sono uscito per un intervento chirurgico. A pena sospesa … Mi hanno
dato sei mesi di sospensione pena. … Quando ho finito la sospensione mi
sono presentato un giorno prima … Stavo dicendo questo io ho avuto …
non è che ho avuto la pena di trenta anni sospesa. Io ho avuto una sospensione
pena …. Per avere l'intervento chirurgico … ".
Sennonché, lo stesso Grado, quando gli sono stati chiesti dal Presidente
chiarimenti sulle sue pendenze giudiziarie al momento dell'inizio della collaborazione,
ha nella sostanza rappresentato una situazione meno tranquillizzante, avendo
fatto riferimento ad un procedimento instaurato a Varese - a suo di dire frutto
di una ritorsione perpetrata dal P.M. di quella città - in cui si trovava
accusato, unitamente a numerose altre persone, di associazione a delinquere
finalizzata al traffico di stupefacenti e di traffico delle medesime sostanze.
A ciò si aggiunga che, nell'intento di convincere la Corte della sicura
estraneità del Badalamenti allo "attentato" in danno di Impastato,
il Grado ha parlato di un'estromissione del boss di Cinisi da Cosa Nostra risalente
a molti anni prima (egli ha risposto positivamente e senza mostrare alcun dubbio
alla domanda della difesa: "Lei conferma che il signor Gaetano Badalamenti
era fuori "famiglia" molti anni prima del 78, cioè intorno
al 70, 71, 72, 73, conferma questa circostanza?").
Ebbene, ciò non solo è smentito dalle risultanze acquisite
nell'ambito del "maxi uno" e poi del "maxi quater" e dalle
dichiarazioni di buona parte dei collaboratori escussi in questo processo, ma
anche contrasta con quanto riferito in altro passo dallo stesso Grado, il quale
aveva infatti agganciato detta estromissione alla vicende connesse all'uccisione
del padre di Piddu Madonia, avvenuta nell'Aprile del '78.
Né si comprende per quale motivo la regola della riservatezza su episodi
come l'omicidio Impastato sarebbe stata rigorosamente rispettata in carcere
(ove il Grado era ristretto con Mutolo e tanti altri importanti uomini d'onore)
e non in occasione del successivo colloquio al bar con Pippo Calò, il
quale in quel periodo si accingeva a passare nelle fila "corleonesi"
e dunque fra gli antagonisti dello stesso Grado.
Così come è lecito ritenere che non sia stato casuale l'incontro
fra il Grado e Gaetano Badalamenti a Madrid, in un periodo in cui entrambi erano
in stato di latitanza, erano dovuti espatriare per sfuggire alle ritorsioni
"corleonesi" e stavano organizzando una controffensiva.
Sul punto, il Grado, rispondendo alle domande del Presidente, ha ancora riferito:
"Signor Presidente un giorno stavo io … perché stavo rientrando
perché avevo deciso … sono stato in Spagna io per andarmene via
da … dalla Spagna, per andare a stare ancora latitante nella Costa Azzurra.
Mentre stavo per avviarmi all'aeroporto che ero su un taxi ho visto Badalamenti
a piedi. Ho fatto fermare il taxi e ci sono andato incontro. Ci siamo salutati,
gli ho detto che fai qui? Siamo stati una mezz'oretta e me ne sono andato, io
per la mia strada e lui per la sua. Dopo quando ero in Francia nella Costa Azzurra
ho pigliato il giornale e ho sentito che hanno arrestato Gaetano Badalamenti
su a Madrid. Questo è stato tutto l'incontro".
E l'inattendibilità di tali ultime affermazioni è avvalorata
già dalla considerazione che non è plausibile che i due esponenti
mafiosi frequentatisi in passato per diverso tempo ed entrambi della stessa
fazione che aveva subito l'attacco "corleonese", si fossero limitati
in occasione dell'incontro a Madrid ad un saluto, senza che peraltro l'uno riferisse
all'altro il motivo del proprio soggiorno in quel paese.
Né ancora può essere un caso che il Grado abbia ammesso il suo
soggiorno in quel periodo a Nizza e cioè proprio in quella stessa città
che costituiva punto di riferimento degli spostamenti del Badalamenti, così
come si è accertato nell'ambito del "maxi uno" e del "maxi
quater" ed emerge dalle dichiarazioni dell'imputato in sede di interrogatorio.
Ve ne è, dunque, abbastanza per ritenere le dichiarazioni del Grado non
solo inattendibili, ma addirittura sospette di compiacenza.
Ma, se è vero che l'attendibilità delle notizie riportate dal
Mutolo non può dirsi compromessa dalle mancate conferme provenienti dalle
fonti di riferimento, rimane il fatto che solo tramite deduzioni può
ipotizzarsi che alla base della circolazione di dette notizie vi fossero le
confidenze dello stesso Badalamenti e di altri esponenti della sua famiglia,
nell'ambito dei rapporti ancora intrattenuti, ad esempio, con il Riccobono ed
i Micalizzi, ai quali i "corleonesi" faranno pagare nel Novembre 1982
la non tempestiva presa di distanza dal Badalamenti e più in generale
da esponenti e boss mafiosi della fazione "perdente".
Onorato Francesco, anch'egli facente parte della famiglia di Partanna Mondello,
ma "combinato" solamente all'inizio degli anni '80, ha parimenti riferito
notizie apprese da Micalizzi Salvatore e Riccobono.
P.M.: … signor Onorato riferisca alla Corte quanto ricorda in relazione
all'omicidio di Peppino Impastato, fatto avvenuto a Cinisi il 9 maggio del 78.
Onorato Francesco: Si. Per quanto riguarda Peppino Impastato era un omicidio
fatto dalla famiglia di Cinisi, all'epoca era il capo mandamento che era Gaetano
Badalamenti, cugino di Nino Badalamenti e dopodiché è stato ucciso,
dove è che io ho fatto anche parte del "gruppo di fuoco" a
Carini. Intimo di Badalamenti, sia di Nino Badalamenti che Gaetano Badalamenti,
tutti Badalamenti, Impastato, i Gallina con il nostro mandamento di Partanna
Mondello, di Rosario Riccobono. Era risaputo in … nel nostro mandamento
che Gaetano Bdalamenti ha voluto l'omicidio di Peppino Impastato, anche in quanto
io alle volte parlando con Salvatore Micalizzi sottocapo della famiglia di Partanna
Mondello di Saro Riccobono, si parlava di questo omicidio voluto da Gaetano
Badalamenti anche attraverso un discorso che era nato, perché c'era stata
una lite nella pizzeria di questo fratello … del fratello di Peppino Impastato,
poi parlò anche … Sì. Quindi io questo omicidio ne ho saputo,
ne ho sentito parlare, sono venuto a conoscenza nel 79-80-81, se ne parlava.
Poi verso l'81-82 ne parlavo con Saro Riccobono, con Salvatore Micalizzi, che
era il sottocapo della famiglia, in quanto mi avevano detto che il responsabile
di questo omicidio era la famiglia di Cinisi … di Terrasini.
P.M.: Lei ha saputo per quale ragione … fosse stato ordinato l'omicidio
di Peppino Impastato?
Onorato Francesco: Sì, perché dava … era un …
un ragazzo che dava fastidio alle famiglie mafiose di quel territori, voleva
diciamo combattere "cosa nostra" e dava fastidio.
P.M.: … Lei ha detto di avere appreso alcune notizie relative a
questo omicidio da Salvatore Micalizzi e Saro Riccobono. Le hanno indicato i
mandanti ed eventualmente gli autori di questo omicidio? Chi lo ha ordinato,
chi lo ha fatto?
Onorato Francesco: Diciamo che questo omicidio … come autori mi
hanno detto che era un omicidio voluto da Gaetano Badalamenti, all'epoca "capo
mandamento" del territorio, uno dei maggiori rappresentanti di "cosa
nostra".
P.M.: Le hanno fornito altri elementi?
Onorato Francesco: No, no, perché se ne parlò pure nel
… nello stesso discorso … cioè se ne parlò pure quando
si … si prese la decisione di uccidere Nino … il Badalamenti, quando
è stata la guerra di mafia nell'81, 82, dove è che noi cercavamo
i Badalamenti , i Gallina, Impastato qui a … su questo territorio.
E nel prosieguo della sua audizione l'Onorato ha continuato ad affermare
che quanto riferito sull'omicidio Impastato lo aveva appreso da Riccobono e
Micalizzi in diverse occasioni all'inizio degli anni '80
Ciò posto, con riguardo all'audizione dell'Onorato non può che
ribadirsi tutto quanto già evidenziato a proposito di quella del Mutolo.
Ad ogni modo, va rilevato che le dichiarazioni dei Brusca, di Mutolo e dell'Onorato
si prestano tutte ad avvalorare il dato che, nonostante le notizie diffuse dagli
organi di stampa sulla pista terroristica decisamente imboccata dai Carabinieri,
in Cosa Nostra non si era creduto alla messa in scena, essendo noto quanto ancora
potente fosse a Cinisi Gaetano Badalamenti e quanto Giuseppe Impastato si fosse
esposto al pericolo di gravissime ritorsioni accusando detto boss.
E indicazioni in tal senso si traggono anche dalle dichiarazioni di Siino Angelo,
il cui esame, con specifico riferimento alle notizie concernenti l'uccisione
di Giuseppe Impastato, si è svolto come segue:
P.M.: … signor Siino, riferisca alla Corte di Assise tutto quello che
sa relativamente all'omicidio di Giuseppe Impastato e se ha appreso notizie,
fatti, circostanze da terze persone, specifichi da chi.
Siino Angelo: Esattamente questa è la cosa che effettivamente
so, cioè ho appreso da altre persone … a qualcosa su questo omicidio
e precisamente da tale Silvio Badalamenti che è un personaggio che conoscevo,
era un mio buon conoscente, e che praticamente una volta, commentando, subito
dopo … qualche tempo dopo l'omicidio dell'Impastato, mi disse che effettivamente
.. ce la ficiru finiri con il fatto del "Tano seduto", cioè
me lo … mi fece capire che effettivamente … ce la ficiru finiri con
il fatto del "Tano seduto", cioè me lo … mi fece capire
che effettivamente l'Impastato era stato ucciso per delle offese arrecate al
Gaetano Badalamenti. Non abbiamo commentato altrimenti perché il Silvio
Badalamenti era una persona abbastanza chiusa e effettivamente non mi disse
altro. Fece anche alcuni apprezzamenti anche sulla madre del Badalamenti …
dell'Impastato stesso … e la cosa finì lì.
P.M.: Senta Silvio Badalamenti le accennò al ruolo che aveva avuto
in quel delitto Gaetano Badalamenti?
Siino Angelo: Ma mi disse che ce la fece finire, che effettivamente …
parole molto così ... non … non abbastanza chiare, ma abbastanza
intendibili, mi disse ce la fecero finire con u fatto du "Tano seduto"
e mi disse che era una persona che era figlia di gente buona … gente buona
ma INCOMPRENSIBILE parlando e praticamente era un … personaggio che non
doveva avere questo tipo di atteggiamento.
Omissis
P.M.: … quando fa riferimento alle notizie avute da Silvio Badalamenti,
in che epoca ci troviamo?
Siino Angelo: Alla fine degli anni 70 …
P.M.: Può essere più preciso?
Siino Angelo: Intorno al … signora … poteva essere … diciamo
che … 80 … 79, non … non riesco ad essere più preciso.
P.M.: … i suoi rapporti con Silvio Badalamenti erano frequenti,
occasionali … e quando le ha raccontato dell'omicidio Impastato, dove vi
trovavate, lo ricorda?
Siino Angelo: In macchina, stavamo andando in provincia di Trapani non
mi ricordo bene per che cosa … il Silvio Badalamenti era imparentato anche
con altro personaggio che io ben conoscevo, che era tale Vincenzo Randazzo,
anche lui parente del Badalamenti, mi pare che fosse nipote ….".
E va aggiunto che sebbene il Siino abbia precisato di non sapere se Silvio
Badalamenti fosse uomo d'onore, quest'ultimo era pur sempre il figlio del fratello
di Gaetano e dunque era nelle condizioni di rendersi ben conto di quanto intollerabile
fosse divenuta la martellante azione di pubblica denunzia portata avanti a Cinisi
dall'Impastato.
Né può sottacersi che, come si desume dall'allegata sentenza resa
nell'ambito del "maxi uno", anche Badalamenti Silvio pagherà
con la vita i suoi rapporti con lo zio, ma solo allorquando nei primi anni '80
prenderà corpo l'offensiva dei "corleonesi" nel territorio
di Cinisi.
Anche il collaboratore Calderone Antonino ha riferito, per averlo appreso dal
di lui fratello Giuseppe, che l'Impastato, nelle sue trasmissioni alla radio,
"parlava male" di Gaetano Badalamente e lo derideva chiamandolo "Tano
seduto", sicché, sempre a dire di Giuseppe Calderone, il boss di
Cinisi aveva ordinato l'omicidio di quel giovane.
Come chiarito da Antonino Calderone, suo fratello era giunto a tale conclusione
poiché allorquando aveva richiesto a Tano Badalamenti se sapesse qualcosa
di quel fatto costui si era messo a ridere.
Per comprendere bene il significato di tali dichiarazioni, occorre far presente
che il boss di Catania Calderone Giuseppe non solo era uno dei più importanti
esponenti di Cosa Nostra tanto da averne presieduto la "commissione regionale",
ma anche vantava intensi rapporti di amicizia, frequentazione ed "affari"
con Gaetano Badalamenti.
Calderone Antonino, anche lui uomo d'onore, seguendo il fratello nei suoi viaggi
a Palermo e coltivando i suoi stessi rapporti mafiosi, aveva così potuto
frequentare il Badalamenti e tanti uomini d'onore della famiglia di Cinisi e
di altre famiglie della Provincia di Palermo.
Proprio grazie a tali rapporti ed alle notizie apprese dal fratello, Calderone
Antonino, una volta divenuto collaboratore, ha potuto fornire preziose informazioni
per fare luce sulle vicende di Cosa Nostra negli anni Settanta, come emerge
dalla lettura delle sentenze allegate.
Come è stato ribadito dal collaboratore nel corso dell'audizione davanti
a questa Corte, suo fratello era ucciso l'8.9.78 dagli alleati dei "corleonesi"
che allora si stavano facendo avanti anche a Catania, capeggiati da Nitto Santapaola,
il quale quell'estate, una prima volta, aveva attentato alla vita di Calderone
Giuseppe piazzandogli nell'auto una bomba, che poi, però, era stata disinnescata
da tale Rampulla.
Proprio di questo attentato, a dire di Calderone Antonino, si era parlato con
Badalamenti, Bontade e Riccobono in occasione di un ultimo incontro avvenuto
nell'Estate 1978 in una villa fuori Palermo.
Ed ha ricordato il collaboratore che, all'esito di tale incontro, egli aveva
accompagnato in auto il Badalamenti, il quale, ripetendo le parole di una canzone
("spara Gonzales, spara perché altrimenti gli altri sparano a te"),
gli aveva fatto capire che avrebbero dovuto affrettarsi a difendersi e pertanto
avrebbero dovuto uccidere presto Santapaola.
Ciò posto, va rilevato che a quella stessa estate può farsi risalire
la "risata" del Badalamenti al cospetto di Calderone Giuseppe, alla
richiesta di costui di notizie sull'omicidio Impastato appena consumato.
Tale episodio lucidamente ricordato da Calderone Giuseppe assume un significato
che non va ricollegato alla mera interpretazione di una "risata" del
Badalamenti, posto che i contatti fra quest'ultimo ed il boss di Catania erano
allora tesi ad approntare una strategia difensiva comune rispetto ad attacchi
esterni; sicché, se il Badalamenti non fosse stato sicuro della paternità
dell'omicidio Impastato avvenuto nel suo territorio o meglio se non avesse egli
stesso almeno "autorizzato" il delitto come necessariamente competeva
al suo ruolo di capo, avrebbe ragguagliato l'alleato di una così allarmante
invasione di campo, che peraltro aveva colpito un familiare di uomini della
sua cosca ed avrebbe potuto fare scaturire imbarazzanti indagini e sospetti.
Rimangono adesso da esaminare, le dichiarazioni dei collaboratori Palazzolo
Salvatore e Di Carlo Francesco, i quali hanno entrambi riferito di avere appreso
notizie sull'omicidio da appartenenti alla famiglia di Cinisi che, in diverso
modo, ne sarebbero rimasti coinvolti.
Quanto alle dichiarazioni di Palazzolo Salvatore, va ribadito che il contributo
di costui, riguardante per lo più fatti e rapporti con altri esponenti
mafiosi personalmente vissuti, è stato già esposto e positivamente
valutato nella sentenza resa all'esito del "maxi quater".
In questa sede, invece, occorre apprezzare l'attendibilità di dichiarazioni
"de relato" che, come risulta dall'andamento e dalle contestazioni
dei due esami dibattimentali e dagli altri verbali di audizione acquisiti, presentano
una genesi e un'evoluzione del tutto particolare.
Segnatamente, emerge che il Palazzolo, all'inizio della sua collaborazione in
data 18.9.93, rendendo interrogatorio, riferiva al P.M.:
"Per quanto concerne la morte di Impastato Giuseppe nulla so per diretta
conoscenza. Credo che a quel tempo ero detenuto. Successivamente, quando divenni
uomo d'onore, ebbi conferma dai discorsi che si facevano nella famiglia che
non si era trattato di un incidente, ma di un omicidio e che vi era coinvolto
un tale Finazzo Giuseppe, uomo assai vicino a Badalamenti Gaetano e che per
questa sua vicinanza era stato ucciso negli anni '80.Non ebbi mai percezione
di altri particolari né avrei potuto fare domande".
Sentito il 18 Novembre 1994, dichiarava però:
"Quanto ad altri fatti a mia conoscenza di cui intendo parlare, preciso
che si tratta: … dell'omicidio di Impastato Peppino, del quale non avevo
parlato prima solo perché nel mio intimo lo considero un fatto particolarmente
riprovevole, e di ciò non ho mai avuto piena consapevolezza, se non adesso,
perché ho avuto modo di riflettere. In realtà è difficile
spiegare quello che penso, perché si tratta di valutazioni diverse di
uno stesso fatto, dipendenti dalle diverse mentalità di un uomo d'onore
e di chi ha scelto invece di combattere Cosa Nostra a costo di notevoli sacrifici.
Il vice rappresentante della nostra famiglia, Palazzolo Vito, mi ha raccontato
del fatto pochi anni fa, e solo allora ho saputo che il padre di quel ragazzo
era un uomo d'onore appartenente alla famiglia di Tano Badalamenti. La cosa
mi ha sorpreso, anche perché mi rendevo conto che lo stesso padre era
in un certo modo responsabile della morte di quel ragazzo, ed è proprio
ciò che mi ha fatto apparire l'episodio riprovevole. Sono infatti molto
legato ai miei figli e non riesco a capire le ragioni di un fatto così
grave. Anche di tale omicidio parlerò dettagliatamente in altra occasione,
ma posso dire sin d'ora che, secondo quanto ho appreso dal Palazzolo, è
stato voluto da Badalamenti Gaetano ed eseguito da Di Trapani Francesco e da
Badalamenti Nino. Al momento del fatto io mi trovavo detenuto nel carcere dell'Ucciardone,
sezione IV- infermeria. Era il 1976…".
In occasione di altro interrogatorio in data 23 Febbraio 1995, Palazzolo
Salvatore affermava:
"In ordine all'omicidio di Impastato Peppino confermo quanto già
in precedenza dichiarato (interrogatorio del 18.11.94). Le notizie che ho riferito
le ho apprese dal mio vice rappresentante Palazzolo Vito in un'epoca in cui
trascorrevamo insieme la latitanza in una casa nella periferia di Cinisi e ciò
dopo l'ultimo arresto di Badalamenti Tano. Io sono lontano parente di Palazzolo
Vito e comunque con lo stesso ho sempre avuto molta confidenza e amicizia anche
perché sono nato nella sua stessa strada e quindi egli mi conosce dalla
nascita. Preciso inoltre che Palazzolo Vito ha sostituito Badalamenti Tano per
tutti i periodi in cui questi è stato detenuto o al soggiorno obbligato;
la conoscenza del Palazzolo sugli affari della famiglia di Cinisi è quindi
estremamente precisa. Egli mi riferì che Impastato Peppino già
da tempo dava fastidio a Badalamenti Tano con le trasmissioni radiofoniche e
con le manifestazioni pubbliche che organizzava a Cinisi, nel corso delle trasmissioni
radiofoniche accusava Badalamenti Tano di traffici di stupefacenti e di varie
irregolarità in campo di appalti pubblici e nella gestione dell'aeroporto;
egli non usava minimamente perifrasi o allusioni ma pronunciava le sue accuse
indicando il Badalamenti con nome e cognome. Aggiunse il Palazzolo che avevano
tentato più volte di far diminuire l'intensità di tali attacchi
ma, l'Impastato, era andato avanti per la sua strada al punto che era stato
deciso in una apposita riunione degli esponenti di spicco della famiglia di
Cinisi era stata deliberata l'uccisone dell'Impastato. Tale delitto era stato
per varie volte rinviato perché sino all'ultimo si cercava di evitarlo
sperando in un mutamento dell'atteggiamento di Impastato. Si sperava inoltre
di evitare al padre dell'Impastato questo dispiacere e ciò perché
anch'egli era uomo d'onore della famiglia di Cinisi ….
ADR:
Sono a conoscenza sempre per averlo appreso da Palazzolo Vito, nella stessa
occasione della quale ho testé parlato, di un viaggio negli Stati Uniti
compiuto dal padre di Impastato Peppino in epoca di poco precedente all'omicidio
di Peppino. Secondo il racconto di Palazzolo Vito, l'Impastato (padre di Peppino)
chiese permesso a Badalamenti Tano di recarsi negli Stati Uniti "per rasserenarsi"
e ciò in relazione al comportamento del figlio Peppino. In buona sostanza
l'Impastato voleva allontanarsi da Cinisi sia perché "imbarazzato"
per il comportamento del figlio sia soprattutto perché non era stato
capace di farlo desistere dai suoi attacchi a Badalamenti Tano. Il viaggio negli
Stati Uniti fu quindi effettuato e l'Impastato fu ospite di alcuni dei suoi
numerosi parenti che abitavano negli U.S.A. Il Palazzolo Vito al termine del
suo racconto mi disse che alla fine erano proprio stati costretti a commettere
l'omicidio pur avendo tentato in ogni modo di evitarlo. Mi riferì che
l'Impastato era stato prelevato "all'uscita della sede della radio"
e ucciso. Era stato poi simulato l'attentato dinamitardo al treno all'ovvio
scopo di depistare le indagini. Degli esecutori materiali furono Di Trapani
Francesco e Badalamenti Antnino, entrambi deceduti, mentre è ancora in
vita Palazzolo Salvatore detto "Turiddu" uomo d'onore nonché
uomo di fiducia di Badalamenti Gaetano per tutti i fatti di sangue. La deliberazione
di tale grave fatto criminoso è ovviamente da ascrivere a Palazzolo Vito
che me ne ha personalmente parlato ed a Badalamenti Gaetano. Aggiungo che in
epoca immediatamente successiva a tale omicidio venne indiziato tale Finazzo
Giuseppe detto "u parrineddu", uomo di fiducia di Badalamenti Gaetano
ma non uomo d'onore. Ricordo ancora un titolo del giornale L'ORA tutto dedicato
a questo Finazzo che però era del tutto estraneo a questo omicidio.
ADR:
Prendo atto che l'omicidio di Impastato Peppino è avvenuto nel 1978 mentre
io ho dichiarato nel precedente verbale del 18.11.94 che appresi il fatto nel
76 in carcere, evidentemente si trattava di un ricordo errato visti gli anni
trascorsi io, comunque, ricordo di avere appreso tale episodio mentre ero al
carcere di Palermo …" (le stesse cose riferiva Palazzolo Salvatore
rendendo altro interrogatorio in data 16.7.96).
Quest'ultima versione è stata sostanzialmente mantenuta ferma nel corso
delle audizioni successivamente svolte nel contraddittorio, il 26.6.2000 nel
procedimento per lo stesso fatto a carico di Palazzolo Vito e il 21.3.2001 e
23.10.2001 nell'ambito di questo procedimento.
L'epoca in cui Palazzolo Salvatore avrebbe appreso da Palazzolo Vito le notizie
sull'omicidio è però rimasta assai approssimativa, posto che il
dichiarante, più volte interpellato al riguardo, ha fatto riferimento
ad un colloquio avvenuto, in un anno ricadente fra l'85 e il '90, in concomitanza
di un breve soggiorno nella casa di Terrasini, finalizzato a propiziare i contatti
fra la cosca di Cinisi e quella di Alcamo rappresentata da Stabile Benedetto,
emissario di Rimi Filippo.
All'impossibilità di fornire riferimenti temporali meno ampi, si è
aggiunta l'indicazione, seppur ad un certo punto in termini dubitativi, di tale
Badalamenti Manuele fra i soggetti della famiglia di Cinisi che, secondo il
racconto di Palazzolo Vito, avrebbero eseguito il delitto.
La difesa inoltre non ha mancato di evidenziare talune discrasie del racconto
rispetto a quanto si desume da altre risultanze: Peppino Impastato non era stato
prelevato "all'uscita dalla sede di Radio Aut"; suo padre si era recato
negli Stati Uniti ed era poi rimasto ucciso nell'incidente stradale a Cinisi,
diversi mesi prima del Maggio 1978.
Ma, ciò che suscita maggiori perplessità e fa ritenere poco affidabili
le dichiarazioni di Palazzolo Salvatore su tale episodio è il mutamento
della versione da lui riferita all'inizio della collaborazione, con una successiva
progressione accusatoria non plausibilmente spiegata.
Ed invero, al dichiarante nel corso delle audizioni dibattimentali è
stato più volte richiesto per quale motivo, fino all'interrogatorio del
18.11.94, avesse riferito di avere appreso solo del coinvolgimento del Finazzo,
così tacendo del tutto il contenuto del colloquio intercorso con Palazzolo
Vito che poi avrebbe rappresentato senza mostrare dubbi.
A queste domande Palazzolo Salvatore, nel corso dell'audizione nel procedimento
a carico di Palazzolo Vito, ha risposto come segue:
"Perché … ero un po' confuso Presidente, nel senso di volere
… di approfondirlo questo fatto. Poi ho cominciato a ricordare bene quelle
poche parole che mi sono state dette, che è quello poi che risulta e
allora ho detto ai Magistrati voglio dire come stanno le cose su questo fatto
… Un problema un po' emotivo, un po' di memoria, un po' di confusione che
avevo in me stesso Presidente, perché sono stato … ho parlato di
tante cose, di tanti anni, del 74, 75 a Trapani dove poi le Forze dell'Ordine
hanno fatto il solo percorso di indagine foto elicotteri. Io … hanno riscontrati
tutti i dati, l'Alta Italia, tutte le parti, cose molto vecchie dove sono alla
conoscenza. Poi quando ho parlato di questo fatto, devo dire la verità,
era indeciso a parlarne di questo Presidente, ero indeciso … Poi ho detto
ma io devo dire tutto, se ho preso questa strada devo dire le virgole, perché
è giusto dire le virgole. Perché sta "cosa nostra" è
stata la "cosa nostra" che mi ha rovinato totalmente, non mi ha dato
niente, mi ha dato solo infelicità …. Ma la perplessità era
perché sapevo che era una cosa di tanti anni fa, di 10 anni, non so quanti
anni avrà, 20 anni, quando ne ho parlato io già aveva credo 10
anni. Ho detto ma sta cosa vecchia, ormai sarà archiviata, chissà
cosa mi diranno che io ste cose chissà come le dico, ma come mai? Ho
detto ormai a lui non ci fanno … ormai questo fatto sarà archiviato,
non sarà più un fatto di … riaprire a processo. Invece poi
ho riflettuto ho detto no, io questo caso lo devo fare riaprire e lì
ho cominciato a dire come stavano le cose per quello che io sapevo.
E va rilevato che nel corso della prima audizione svolta nel dibattimento
di questo processo, ove l'argomento è stato approfondito dallo stesso
P.M., Palazzolo Salvatore ha affermato: "Ma non ho parlato io di questo
fatto di Impastato che … un po' di vari motivi, uno perché …
poteva essere magari non creduto, nel senso di dire a distanza di tutti questi
anni, un altro perché non me la sentivo di parlare di questo Impastato
per motivi di … di paura dei familiari che c'erano a casa mia, che potervi
succedere una relazione di loro di potere ammazzare a qualcuno dei miei, avevo
tanti problemi in quel momento, ero confuso in quel momento … se parlarne
oppure no; dopodiché ho deciso di parlarne perché se ho detto
tutto, è giusto che dicevo anche queste cose".
Occorre, altresì, dare atto che, dagli stessi verbali di interrogatorio,
emerge che Palazzolo Salvatore intorno al Febbraio '94 aveva abbandonato il
domicilio protetto recandosi in Germania, ivi era stato poi arrestato per essere
ricondotto in Italia e rimanervi in stato detenzione carceraria nel periodo
delle audizioni del 18.11.94 e del 23.2.95, nel corso delle quali avrebbe fornito
la nuova versione su quanto a suo tempo appreso in ordine ai responsabili dell'omicidio
Impastato.
Orbene, le diverse giustificazioni addotte in dibattimento da Palazzolo Salvatore
a proposito del suo iniziale atteggiamento riguardo a detto delitto non solo
sono di per sé poco credibili (nel corso dell'interrogatorio del 18.9.93
lo stesso non aveva mancato di parlare di altri fatti di sangue remoti e pertanto
oggetto di procedimenti già archiviati, aveva accusato anche di omicidio
Badalamenti Gaetano ed altri esponenti mafiosi ancora in stato di libertà,
né aveva mancato di riferire in ordine a collusioni con la mafia ascrivibile
ad alcuni rappresentati dell'Arma dei Carabinieri), ma anche contrastano con
quei chiarimenti forniti dal medesimo Palazzolo nell'interrogatorio del 18.11.94,
ove invece era stata rimarcata la natura riprovevole del fatto.
Ed anche queste prime affermazioni lasciano perplessi, poiché si era
trattato di un omicidio che, diversamente da altri già riferiti, non
aveva visto in alcun modo coinvolto Palazzolo Salvatore, il quale nel 1978 era
ristretto in carcere e neppure era inserito nel clan mafioso.
Di talché, la valutazione dell'attendibilità intrinseca delle
dichiarazioni risulta compromessa dall'assenza di adeguati e rassicuranti chiarimenti
sulle modalità contraddittorie della strutturazione nel tempo del contenuto
delle accuse, tramite il riferimento a notizie apprese all'interno dell'ambiente
mafioso in cui il dichiarante gravitava.
Ed infatti, a fronte di tale "rateizzazione" delle dichiarazioni se,
da un lato, appare arduo ipotizzare occulte regie e premeditate calunnie, dall'altro,
non può trascurarsi la possibilità che si tratti di ricordi labili
e pertanto inizialmente non evidenziati (più o meno volutamente), ma
che, ad un certo punto, magari di particolare difficoltà della collaborazione
e forse nello sforzo di rilanciare l'importanza della stessa, sono stati di
nuovo riesumati e rappresentati, con la coloritura dell'indicazione di determinate
fonti e specifiche circostanze di fatto.
Ecco perché neppure potrà tenersi conto di quanto inizialmente
detto da Palazzolo Salvatore a proposito del coinvolgimento di Finazzo Giuseppe
contestualmente indicato come "uomo assai vicino a Badalamenti Gaetano"
che all'epoca era il capo indiscusso della cosca.
Considerazioni completamente diverse vanno svolte in relazione all'attendibilità
delle dichiarazioni di Di Carlo Francesco, come raccolte nel corso dell'audizione
dibattimentale, senza che siano state mosse contestazioni dirette ad evidenziare
versioni difformi nel tempo.
Al riguardo, va premesso che tale collaboratore, diversamente da Palazzolo Salvatore,
all'epoca dei fatti che ci occupano, era un uomo d'onore con funzioni di comando
nell'importante famiglia di Altofonte, che vantava intensi e risalenti rapporti
mafiosi sia con Riina Salvatore, Brusca Bernardo e buona parte degli esponenti
che rafforzeranno la fazione "corleonese", sia con gli altri boss
di prestigio in posizione però contrapposta, come Stefano Bontade e Gaetano
Badalamenti.
Come si dà atto nella sentenza resa all'esito del maxi quater ed è
stato spiegato dal Di Carlo nel corso dell'audizione in questo processo, lo
stesso grazie alla suddetta collocazione all'interno di Cosa Nostra aveva potuto
personalmente rendersi conto della genesi e dell'evoluzione, nella seconda metà
degli anni Settanta, di quella frattura da cui sarebbe scaturita, solamente
nei primi anni Ottanta, la fase cruenta della seconda guerra di mafia: ci si
riferisce alle tendenze egemoniche del Riina spalleggiato dal Provenzano e da
altri; al conseguente progetto di isolare all'interno della Commissione il Badalamenti;
ai contrasti con il Di Cristina cui lo stesso Badalamenti era molto legato;
alla decisione di espellere quest'ultimo dal sodalizio mafioso.
Il Di Carlo, nel riferire questi fatti, giovandosi di un punto di osservazione
diverso da quello a suo tempo assunto dai collaboratori prima di lui dissociatisi,
ha offerto un contributo caratterizzato da significativi profili di novità,
ma in linea con le pregresse emergenze ed in seguito confermato dalle rivelazioni
di altri collaboratori ancora.
In questo ampio contesto della collaborazione si inseriscono le dichiarazioni
rese dal Di Carlo su Badalamenti Gaetano e su altri importanti esponenti della
sua famiglia, come Badalamenti Antonino, Di Trapani Francesco e Palazzolo Vito,
con una specificazione di ruoli, ma anche di episodi, rapporti ed interessi
mafiosi e non, che, tenuto conto dei riscontri acquisiti, dà piena contezza
della personale conoscenza di quanto narrato (il collaboratore si è potuto
soffermare anche sull'attività di vendita di materiale edile gestita
da Badalamenti a Palermo; sui rapporti da costui intrattenuti con il commercialista
Mandalari; sulle iniziative economiche inizialmente comuni al Badalamenti e
ai "corleonesi", anche nella zona di Cinisi; sugli interessi mafiosi
riferibili alle cave del Finazzo, personaggio vicino al Badalamenti).
La prima fonte cui ha fatto riferimento il Di Carlo, nell'esporre quanto appreso
sull'omicidio Impastato, è Nino Badalamenti, al quale era legato da sincera
amicizia dai tempi del "Triunvirato", quando costui era chiamato a
sostituire il cugino inviato al soggiorno obbligato.
In particolare il collaboratore ha dichiarato che, pochi mesi dopo avere appreso
dai giornali della morte di Giuseppe Impastato, aveva avuto modo di parlarne
con Nino Badalamenti, in occasione di uno dei loro frequenti incontri risalenti
pressappoco alla fine del 1978.
Il motivo che aveva spinto il collaboratore ad interpellare l'amico su tale
vicenda era dovuto al fatto che "gli Impastato a Cinisi erano una famiglia
molto rispettata, come erano i Badalamenti … come erano i Finazzo ….
come erano i Palazzolo" , stante che diversi appartenenti alla famiglia
Impastato, fra i quali Giacomo (che sarà ucciso proprio per la sua vicinanza
a Badalamenti Gaetano), erano uomini d'onore.
Nino Badalamenti aveva così spiegato al Di Carlo che "a volte
in qualche famiglia buona nasce una pecora nera" ed era proprio il
caso del ragazzo di cui si parlava, il quale "aveva studiato un po'
… aveva idee di sinistra e mal sopportava "cosa nostra", per
lui … abusi … soverchierie e si permetteva di criticare la mafia ….
persone di "cosa nostra" .. in particolare Gaetano Badalamenti"
; sicché la cosca di Cinisi ed in particolare i suoi "dirigenti"
erano stati costretti a prendere la travagliata decisione di uccidere il
giovane, senza che gli uomini d'onore che con lui erano imparentati potessero
far nulla per salvarlo.
Per salvaguardare "l'immagine" degli Impastato si era, però,
eseguito il delitto in modo tale che non apparisse pubblicamente un omicidio
e pertanto, dopo la soppressione della vittima, era stata approntata la messa
in scena dell'attentato dinamitardo alla linea ferroviaria.
La delicatezza del caso aveva, inoltre, richiesto il diretto intervento nelle
fasi esecutive di alcuni dei più affidabili esponenti della cosca, quali
erano, per l'appunto, in quel periodo lo stesso Nino Badalamenti e Francesco
Di Trapani, "figlioccio" del capo Badalamenti Gaetano.
E proprio a Francesco Di Trapani, il Di Carlo ha fatto riferimento a proposito
delle notizie da lui ricevute a conferma di quanto aveva già appreso
da Nino Badalamenti sulla morte di Giuseppe Impastato.
Secondo il collaboratore, con il Di Trapani, che conosceva e frequentava fin
dagli anni '60, si era soffermato sull'argomento poco tempo dopo, apprendendo
altresì che "in famiglia, a livello di famiglia di Cosa Nostra
…c'era stato un po' di malumore" , anche perché diversi
esponenti mafiosi di Cinisi si erano lamentati del fatto non era stato possibile
trovare il modo di ridurre finalmente al silenzio quel giovane (risvolto questo
che, invece, non era stato messo evidenza da Nino Badalamenti, il quale era
solito mantenere maggiore riservatezza).
Queste sono, in sintesi, le informazioni sull'omicidio Impastato riportate dal
Di Carlo, non senza la corretta specificazione che altri dettagli da lui rappresentati,
attinenti in particolare alle modalità dell'esplosione che quella notte
aveva straziato il corpo del giovane, erano stati invece appresi dalle notizie
giornalistiche via via diffuse.
La scarna descrizione degli incontri e dei temi toccati con Nino Badalamenti
e poi con il Di Trapani riflette né più né meno ciò
che è possibile rammentare, a distanza di tanti anni, su simili argomenti.
Tali contatti si inseriscono in un contesto di relazioni e di confidenze fra
uomini d'onore di per sé plausibile e perfettamente coerente con tutte
le altre risultanze, tenuto conto di quanto emerso "aliunde" sulla
collocazione nel panorama mafioso di tutti e tre i protagonisti.
E va rimarcato che il Di Carlo, a riprova della buona conoscenza degli interlocutori,
ha offerto tutta una serie di notizie non solo sul conto di Nino Badalamenti,
di cui ha ripercorso la carriera mafiosa fino al momento della morte, ma anche
di Francesco Di Trapani, il quale solo dopo qualche tempo avrebbe consumato
il suo tradimento ai danni del "padrino" Gaetano Badalamenti transitando
nelle fila "corleonesi", come si desume da quanto riferito da altri
collaboratori.
E' allora credibile, da un lato, che Nino Badalamenti e Ciccio Di Trapani si
fossero interessati di un fatto di sangue che così intensamente coinvolgeva
la cosca della quale erano qualificati esponenti, dall'altro, che il Di Carlo
potesse chiedere ad entrambi notizie in merito alla vicenda ed avere raccontato
la verità, sulla base di quanto dagli interlocutori appreso poco prima,
in forza di un'esperienza vissuta.
E va anche aggiunto che il Di Carlo, per i precedenti rapporti con molti dei
protagonisti dei fatti di particolare delicatezza, aveva buoni motivi per fissare
bene in mente e, pertanto, per ricordare negli anni almeno il dato essenziale
che, in effetti, era stato il vertice della famiglia di Cinisi, ancora saldamente
in mano a Badalamenti Gaetano, ad assumere la sofferta decisione di uccidere
Giuseppe Impastato con quelle particolari modalità e per ragioni altrettanto
particolari.
Tutte queste considerazioni che supportano il giudizio di attendibilità
intrinseca delle accuse "de relato" provenienti dal Di Carlo non possono
ritenersi smentite dalla mera constatazione che coloro che rivelarono i fatti
al collaboratore non sono più in vita, stante che in tali casi l'audizione
della fonte di riferimento costituisce un momento di verifica non necessario
né sufficiente e va, per altro verso, esperita solamente ove possibile
e ritenuta utile dal giudice o richiesta da una delle parti, come si desume
dalle disposizioni di cui all'art. 195 c.p.p.
E' invece ben più importante rilevare che il racconto del Di Carlo, avuto
riguardo in particolare ai retroscena del fatto e alla responsabilità
decisionale di Badalamenti Gaetano, risulta confermato dalle altre risultanze
di diversa natura e provenienza in precedenza evidenziate, che - come si è
visto - complessivamente considerate, assumono già un non trascurabile
significato indiziario a carico dell'imputato e, conseguentemente, ben possono
rivestire il carattere di riscontro "individualizzante" alla chiamata
in reità proveniente dal Di Carlo.
Essa allora, superando positivamente la verifica dell'attendibilità intrinseca
ed estrinseca di cui al comma III dell'art. 192 c.p.p., assume un'efficacia
dimostrativa idonea a completare il quadro indiziario.
A tal riguardo occorre ancora una volta evidenziare che l'eterogeneo, ma armonico
complesso di elementi acquisiti, cui si saldano perfettamente le accuse del
Di Carlo, consente di affermare che:
l'unico plausibile movente è riconducibile ad interessi facenti capo
direttamente al boss Badalamenti Gaetano, il quale, anche per ragioni di immagine,
aveva l'impellente esigenza di ridurre al silenzio Impastato Giuseppe ed avrebbe
potuto farlo solamente uccidendolo;
l'imputato era il capo della potente e ramificata famiglia di Cinisi, che all'epoca
dei fatti si muoveva compatta e governava incontrastata il territorio in cui
fu consumato il delitto, senza che ancora fossero messe in atto invasioni di
campo da parte o in forza di direttive dei componenti di altre famiglie di Cosa
Nostra ed in particolare di quelle che facevano capo ai "corleonesi"
Riina e Provenzano; di talché questi ultimi, come confermato dalla lettura
complessiva delle dichiarazioni dei collaboratori, nel caso specifico non ebbero
alcun ruolo;
le peculiari modalità di esecuzione del delitto vanno ricondotte all'apparato
di uomini, conoscenze e mezzi a disposizione nella zona solamente della cosca
di Cinisi capeggiata dall'imputato (si consideri, fra l'altro, la capacità
di maneggiare il notevole quantitativo di esplosivo proveniente dalle cave del
luogo, alcune delle quali di fatto nella disponibilità di Badalamenti
Gaetano e comunque dei suoi sottoposti);
lo stesso Badalamenti, essendo colui che avrebbe potuto essere subito sospettato
dell'omicidio sia dagli inquirenti che nell'ambiente di Cinisi (si ricordi quanto
si è rilevato a proposito dei rapporti intercorsi fra esponenti di Cosa
Nostra ed i congiunti della vittima), aveva quel particolare interesse affinché
fosse accuratamente predisposta e poi attuata la complessa messa in scena dell'attentato,
così salvaguardando anche l'esigenza di tutelare l'onore degli Impastato
a lui vicini.
A tutto ciò si aggiunga quanto emerso sull'attività di controllo
quella notte dei movimenti degli amici della vittima, proprio nelle ore in cui
può farsi risalire il delitto; attività plausibilmente attribuibile
a Pizzo Salvatore, soggetto da ritenersi vicino a Badalamenti Gaetano, alla
stregua delle indicazioni a suo tempo fornite da Lo Duca Vito.
Ed in questo contesto neppure vanno trascurate, quali dati a supporto di un
già pregnante complesso indiziario, le non casuali notizie in precedenza
apprese dagli Amenta (in contatto, guarda caso, con il Finazzo, "socio"
del Badalamenti e per questo parimenti accusato dall'Impastato) circa un grave
evento puntualmente verificatosi.
Così come deve ribadirsi che non senso significato appaiono, nella drammatica
sequenza dei fatti, le ultime iniziative di Impastato Luigi, il quale, da un
lato, non mancava di manifestare in occasione del viaggio negli USA, rimasto
senza spiegazioni per i familiari, le forti preoccupazioni nutrite per l'incolumità
del figlio, risoluto più che mai a denunziare le malefatte mafiose; dall'altro,
continuava a mantenere, prima e dopo il viaggio di cui sopra, i risalenti contatti
con gli esponenti mafiosi di Cinisi ed in particolare con l'imputato ed il suo
sottocapo Palazzolo, al plausibile scopo di ammorbidire la posizione del boss
che tanto era stato oltraggiato dal giovane Impastato.
Il quadro probatorio che, allora, può ritenersi validamente acquisito
conferma pienamente la particolare matrice mafiosa del delitto e soprattutto
consente di sciogliere quelle residuali perplessità fatte proprie dal
G.I. nella sentenza del 19.5.84, a causa dell'assenza all'epoca di notizie che
potessero fare escludere l'iniziativa inconsulta di singoli e, al contempo,
illuminare in ordine al processo decisionale, onde giungere a conclusioni certe
sulle responsabilità individuali.
Oggi, invero, anche grazie alle dichiarazioni dei collaboratori, non solo si
è potuto restringere il cerchio della responsabilità alla cosca
di Cinisi ed escludere ogni ipotesi di colpi di mano, ma anche è rimasto
accertato che Badalamenti Gaetano, avvalendosi delle prerogative di capo di
detta famiglia, decise l'omicidio e la sua esecuzione con quelle particolari
modalità, essendo il maggiore interessato sia all'eliminazione del giovane,
che alla successiva messa in scena dell'attentato; cosicché il composito
quadro indiziario, per la sua gravità, precisione ed univocità,
impedisce ogni altra lettura alternativa.
Alla stregua di tutte le considerazioni svolte, va pertanto affermata la responsabilità
del Badalamenti in ordine al delitto di omicidio aggravato dalla premeditazione
allo stesso ascritto al capo a), senza che sussistano i presupposti per la concessione
di attenuanti ed in particolare di quelle generiche, tenuto conto della personalità
dell'imputato, del riprovevole movente e dell'efferatezza della condotta.
Ne consegue la condanna di Badalamenti Gaetano alla pena dell'ergastolo, a quelle
accessorie dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e legale durante
l'espiazione della pena e della pubblicazione della sentenza, nonché
al pagamento delle spese processuali.
L'imputato va, altresì, condannato al risarcimento del danno cagionato
alle parti civili Bartolotta Felicia, Impastato Giovanni, Comune di Cinisi in
persona del Sindaco pro-tempore e Regione Siciliana, in persona del Presidente
pro-tempore; danno il cui esatto ammontare deve essere determinato dal competente
giudice civile; mentre in questa sede la prova già raggiunta consente
di assegnare ai congiunti Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni, una provvisionale
da determinarsi in 150.000 euro per la prima e 100.000 euro per il secondo.
Infine, il Badalamenti deve essere condannato a rifondere le spese processuali
sostenute dalle parti civili, che vanno liquidate in favore di Bartolotta Felicia
ed Impastato Giovanni in complessivi 35.000 euro, in essi compresi 25.000 euro
per onorario, oltre IVA e C.P.A., nonché in favore del Comune di Cinisi
e della Regione Siciliana in complessivi 5.000 euro ciascuno, in essi compresi
4.000 euro per onorari.
In ordine ai delitti di detenzione e porto illegale di esplosivo aggravati ai
sensi dell'art. 61 n. 2 c.p. (contestati al capo b), deve invece essere emessa
pronunzia di non doversi procedere perché i reati sono estinti per prescrizione,
essendo decorso dalla data del fatto il termine di cui all'art. 157 n. 2 c.p.
e dovendosi rilevare che ove si fosse avverata una delle ipotesi di interruzione
della prescrizione previste dall'art. 160 comma II c.p., tuttavia non potrebbe
che prendersi atto della maturazione anche del termine di cui al comma III dello
stesso articolo.
Ai sensi dell'art. 544 c.p., tenuto conto della gravità degli addebiti,
il termine per il deposito della sentenza va fissato in giorni novanta.
P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.;
DICHIARA
Badalamenti Gaetano colpevole del reato di omicidio premeditato di cui al
capo a) della rubrica e lo condanna alla pena dell'ergastolo, nonché
al pagamento delle spese processuali;
DICHIARA
l'imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente interdetto
durante l'espiazione della pena, ordinando la pubblicazione per estratto della
presente sentenza, per una sola volta ed a spese del condannato, sui quotidiani
"Il Giornale di Sicilia" e "La Repubblica" e mediante l'affissione
nell'albo del Comune di Palermo ed in quello del Comune di Cinisi.
Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p.;
CONDANNA
Badalamenti Gaetano al risarcimento dei danni in favore delle parti civili
costituite, Bartolotta Felicia, Impastato Giovanni, Comune di Cinisi in persona
del Sindaco pro-tempore e Regione Siciliana, in persona del Presidente pro-tempore,
rimettendo le parti per la liquidazione dei danni dinanzi al giudice civile
ed assegnando a Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni una provvisionale che
determina in 150.000 euro per la prima e in 100.000 euro per il secondo.
CONDANNA
altresì, l'imputato alla rifusione delle spese processuali sostenute
dalle dette parti civili, liquidandole in favore di Bartolotta Felicia ed Impastato
Giovanni in complessivi 35.000 euro, in essi compresi 25.000 euro per onorario,
oltre IVA e C.P.A. come per legge, nonché in favore del Comune di Cinisi
e della Regione Siciliana, d'ufficio, in complessivi 5.000 euro ciascuno, in
essi compresi 4.000 euro per onorari.
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di Badalamenti Gaetani in ordine al
reato continuato di cui al capo b) della rubrica, perché estinto per
prescrizione.
Visto l'art. 544 c.p.p.,
INDICA
il termine di giorni novanta per il deposito della sentenza.
Palermo 11 Aprile 2002
Il Giudice estensore Il Presidente