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Primario e medico a giudizio per l'ambulante morto nel reparto di Psichiatria. La famiglia: un passo verso la giustizia
Elvira Corona
20 febbraio 2008

«Siamo un passo più vicini alla giustizia per mio padre, e adesso si va avanti». Queste le parole di Natascia Casu alla fine dell'udienza preliminare in Tribunale a Cagliari che ha stabilito il rinvio a giudizio per Giampaolo Turri e Maria Rosaria Cantone: il primario del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari e la dottoressa che aveva in cura Giuseppe Casu, il padre di Natascia. Il giudice per l'udienza preliminare ha accolto la richiesta del pubblico ministero Gian Giacomo Pilia - che aveva chiesto il rinvio a giudizio per i medici con l'imputazione di omicidio colposo - e fissato il processo per il 17 aprile.
I medici ieri mattina erano rappresentati dai loro avvocati - Gian Franco Macciotta e Guido Manca Bitti per il primario e Massimo Ledda per la dottoressa - e hanno preferito non commentare la decisione del giudice. Ma fra due mesi Turri e Cantone, ormai ufficialmente imputati, dovranno spiegare cosa sia realmente accaduto all'interno dell'ospedale Santissima Trinità tra il 15 giugno 2006 - giorno in cui Giuseppe Casu fu ricoverato a seguito di un "trattamento sanitario obbligatorio" - e il 22 giugno, giorno in cui il paziente morì. A chiedere l'intervento della magistratura era stata - pochi giorni dopo il decesso - la famiglia, tramite l'Asarp, l'Associazione sarda per la riforma psichiatrica. Troppe erano infatti le ombre su quella morte inattesa.
Giuseppe Casu era un venditore ambulante sprovvisto di licenza, che lavorava a Quartu Sant'Elena, e negli ultimi mesi era stato la vittima più colpita da parte del Comune, che aveva deciso di intraprendere una vera e propria guerra all'abusivismo. Le multe si erano accumulate rapidamente. Il 15 giugno era arrivata l'ultima della serie, mentre il signor Giuseppe - ricordano alcuni testimoni - si trovava nella piazza IV Novembre.
Una giornata come tante altre, con la sua motocarrozzella carica di frutta e verdura parcheggiata nella piazza e lui a chiacchierare e a giocare a carte con altre persone. Questa ricostruzione dei fatti lascia molti interrogativi sull'opportunità di intervenire con la forza pubblica per un "trattamento sanitario obbligatorio". Provvedimento estremo, che deve avvenire solo in situazioni particolarmente gravi e per questo stabilite dalla legge. La motivazione scritta nel documento che giustificava il TSO era "agitazione psicomotoria", ma a detta di che era con lui quella mattina il signor Casu non era affatto agitato.
La prima di tante irregolarità in questa storia. La più grave tra tutte è sicuramente la conferma del TSO da parte del giudice tutelare, che secondo la legge - proprio perchè si tratta di un provvedimento grave che limita fortemente la libertà delle persone che lo subiscono - deve avvenire entro 48 ore. «Ma per il signor Casu arrivò solo il giorno prima della sua morte» precisa Francesca Ziccheddu del Comitato Verità e Giustizia per Giuseppe Casu. Viene spontaneo pensare che se non ci fosse stato il TSO, probabilmente il signor Casu ora sarebbe ancora vivo. Ma «se a qualcuno verrà attributa la responsabilità di queste irregolarità, saranno solo illeciti amministrativi», spiega Dario Sarigu, che insieme a Mario Canessa difende la famiglia Casu in giudizio. Illeciti amministrativi che però hanno portato alla morte di una persona.
Durante quei 7 giorni, il signor Casu era stato legato mani e piedi e tenuto sotto costante effetto di sedativi fino alla sua morte, avvenuta per tromboembolia polmonare nel letto dell'ospedale. Nessuno si aspettava un epilogo del genere, la famiglia si era fidata dei sanitari, ma dopo una morte la richiesta di indagare sull'accaduto appare più che legittima. Se gli imputati siano responsabili, e in quale misura, lo stabiliranno i giudici il 17 aprile. Intanto è stata aperta un'indagine parallela, relativa allo scambio di reperti autoptici. Il magistrato infatti aveva disposto degli accertamenti medico-legali, ma dopo le analisi i medici nominati dal Tribunale stabilirono che quei reperti non appartenevano al signor Casu ma ad un altro paziente, morto anch'egli per tromboembolia polmonare ma che era malato di cancro. Un'altra ombra pesantissima sulla vicenda, per la quale è stata presentata - almeno per ora - una denuncia contro ignoti.
Oltre al caso in sé, Natascia Casu vuole la tragica storia di suo padre possa servire almeno a modificare le pratiche seguite all'interno del Servizio psichiatrico diagnosi e cura dell'ospedale Santissima Trinità: «Mio padre non tornerà in vita neppure se verrà fatta giustizia, ma quello che mi auguro è che questa storia possa servire ad altre persone che hanno subito e stanno subendo trattamenti simili». E a sentire Gisella Trincas, presidente dell'Arpas, da giugno 2006 a oggi le cose non sono cambiate, in quel reparto e altrove: «Noi stiamo continuamente denunciando casi di cattive pratiche, ma la cosa peggiore è che è il Santissima Trinità non è un caso isolato, in tutta Italia esistono ospedali con medici reticenti a mettere in pratica la legge Basaglia».
A 30 anni dalla sua entrata in vigore le resistenze culturali sono ancora molto forti, e si preferisce utilizzare il contenimento fisico e pesanti terapie farmacologiche e invasive, a volte persino l'elettroshock, anziché instaurare rapporti umani con i pazienti, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità per persone che dovrebbero essere seguite e curate da ambulatori territoriali, come stabilisce la legge 180. «Per questo non si crea un clima di fiducia tra pazienti e personale ospedaliero», continua Gisella Trincas: «c'è sempre la paura da parte dei pazienti che un ricovero da volontario diventi obbligatorio».