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Un giorno di maggio a ponte Garibaldi
L'omicidio di una ragazza normale, venuta a manifestare per il terzo anniversario del referendum sul divorzio. In una città che il ministro Cossiga aveva messo sotto assedio. Giorgiana come Carlo Giuliani nella Genova del G8, tanti anni dopo
Pierluigi Sullo
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
12 maggio 2007

La giornata si concluse con una scena che, a saperla leggere, conteneva un pezzo di futuro che nemmeno potevamo immaginare. Quello dell'invasione televisiva, della mutazione di tutti noi in personaggi da talk show o da reality. Ma nel 1977 Silvio Berlusconi, credo, cominciava appena a muovere i primi passi da palazzinaro milanese, e la televisione era solo la Rai. Eppure, quando la troupe del tg chiese ai poliziotti di rimettere su un fianco l'automobile che era stata usata, sul Ponte Garibaldi, come una barricata, e che i celerini avevano appena rimesso sulle ruote, e insomma avevano preteso, i telegiornalisti, un replay della scena, e gli uomini in divisa e casco avevano eseguito, avremmo dovuto, noi che eravamo lì a guardare, coltivare un'inquietudine.
E' che eravamo stanchi, corri di qua e corri di là, e presi da quella spossatezza che ci aveva assaliti a ripetizione, negli ultimi sette o otto anni, quando un compagno, un ragazzo, una ragazza, restava sull'asfalto, sui sampietrini, il suo sangue sparso attorno e il corpo come un oggetto. Già, la memoria artificiale dei media è popolata dei fantasmi delle vittime, di quelle del «terrorismo rosso», e lo sono davvero, vittime, e quel clima che andava disfacendosi ha generato, sicuro, le brigate, le prime linee, i partiti combattenti e insomma tutti quelli che la storia volevano prenderla a pistolettate. Ma non si dice mai, non si dice più, che vittime sono stati anche Roberto, Walter, Giannino, Francesco e troppi altri. E Giorgiana.
Forse l'automobile che i celerini hanno usato come quinta del telegiornale era stata usata come riparo. Io non ero lì, quando qualcuno sparò. Qualcuno. Si potrebbe ipotizzare che a sparare alla schiena, alla testa, al petto di tutti quei ragazzi fosse stata una persona sola, sempre la stessa, in tutti gli anni Settanta, un uomo in divisa forse, ma più probabilmente con una maglietta a strisce e i capelli lunghetti come uno di noi. Non è una possibilità remota: a differenza di quelle altre vittime, e senza voler fare una competizione, mai nessuno, mai, è stato condannato per uno qualunque di quegli omicidi. Ecco un argomento che si potrebbe spendere in un talk show, non fosse che le Brigate rosse, dice Amato, ancora ci minacciano, e dunque bisogna andarci cauti.
Ma perché, allora, il 12 maggio del 1977 ci è rimasto inchiodato nella memoria? Perché una ragazza, Giorgiana Masi, del tutto inerme, è stata uccisa, mentre correva via, da un pallottola alla schiena? O perché la polizia di Francesco Cossiga aveva occupato Piazza Navona, per impedire una innocua manifestazione dei radicali a ricordo del voto sul divorzio (1974, tre anni prima), in un modo mai visto, così aggressivo, muscolare, strategico? Perché quando dalla parte di Campo de' Fiori gruppi di studenti avevano cominciato il gioco ti-vedo-non-ti-vedo agitando bandiere rosse un tipo con la maglietta a strisce si era inginocchiato di fianco a un'auto, aveva posato l'avambraccio sul cofano per mirare meglio e aveva aperto il fuoco, una due tre e non so quante volte? Perché Tano D'Amico aveva fotografato quel tipo e Stefano Bonilli e io, che eravamo lì in giro per il manifesto, abbiamo visto, e insieme abbiamo testimoniato, Tano con le immagini e noi scrivendo? Perché quel tipo era lo stesso che aveva sparato a Giorgiana, o magari era uno con la maglietta a strisce verticali invece che orizzontali, ma gli stessi capelli sessantottini e gli avambracci pelosi? Ce ne ricordiamo ancora perché quel giorno accaddero tutte queste cose, tutte nello stesso pomeriggio?
Eppure, in febbraio l'ondata di marea aveva buttato fuori Lama dall'università di Roma. In marzo, un altro tipo aveva ammazzato a Bologna Francesco Lorusso, con un altro colpo alla schiena, e Cossiga aveva mandato i blindati per occupare la città, e il giorno dopo, a Roma, centomila furibondi avevano condotto una battaglia mobile, chiamata corteo, per diverse ore. Ce n'è di cose da ricordare, anche solo di quell'anno. La mia idea - sbaglierò - è che era l'anno della fine di qualcosa, il periodo della penitenza, per la mia generazione, che, come ha scritto Marco Revelli a proposito di «Piove all'insù», il libro del settantasettino Luca Rastello, aveva lasciati soli quei ragazzi. Che peraltro non avevano bisogno di fratelli maggiori, anzi li rifiutavano, li detestavano.
Ma, a pensarci bene, come l'automobile rimessa sul fianco per la tv profetizzava il Grande Fratello, la polizia di Cossiga, coi suoi metodi sleali da pattuglia della Judicial di Città del Messico, ci stava annunciando le strade di Genova, la Diaz e Bolzaneto: la violenza legale che non conosce più mediazioni, trattative, che nutre la convinzione di potersi abbattere nuda su un movimento sociale che non gode di protezioni, perché è nuovo e solo, nel panorama consueto (quello della fine degli anni Settanta e quello all'indomani del ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi). E dunque Giorgiana Masi, ragazza, è come Carlo Giuliani, ragazzo: non erano militanti, e vivevano le rispettive epoche precarie, incerti tra un passato che non passa e un domani nebbioso.
Allora, come sei anni fa, i luoghi dove sono stati uccisi si sono riempiti di messaggi scritti a mano, sciarpe e fiori. E oggi che in Piazza Navona tornano i radicali, come quel 12 maggio di trent'anni fa, bisognerebbe evitare - se posso dirlo - di farne un braccio di ferro con un'altra piazza, più in là, che si riempirà di cattolici. Perché di prove di forza ne abbiamo abbastanza, e dovremmo provare rimorso, per la vita interrotta di Giorgiana Masi: noi, a quell'epoca, non le abbiamo sparato, e anzi avremmo potuto essere colpiti a nostra volta, come a Genova. Ma deporre un fiore sulla lapide che ancora la ricorda a Ponte Garibaldi significa riconoscere la nostra fragilità, ed è il solo modo di non essere «embedded» in una qualunque delle guerre che ci cadono addosso.