1972. Su via Velia a Salerno, in un pomeriggio di luglio, muore accoltellato il giovane militante del Msi Carlo Falvella. In carcere finisce l'anarchico Giovanni Marini e ci resta svariati anni. Qui, e lo diciamo con rispetto verso i parenti della vittima, non è importante ricostruire la dinamica del fatto. A quel tempo il clima politico era pieno di odio e bastava poco perché nascessero delle risse o delle forme di violenza sanguinaria fra giovani di opposte idee politiche. Qui si vuole ricordare un'altra cosa. Da quel giorno cambia anche la vita dell'anarchico salernitano Francesco Mastrogiovanni.
Lui vive con dolore quella tragedia la cui eco, proprio come succede in ogni piccolo centro urbano nel quale tutti si conoscono, è moltiplicata all'ennesima potenza e la cui radice storica affonda nelle secolari guerre fra i poveri conosciute dal sud d'Italia. Come se non bastasse, è schedato dai carabinieri perché, proprio come Giovanni Marini, ha idee anarchiche.
1999. Francesco viene arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale. Trascorre diversi mesi in carcere. Alla fine si scopre che è innocente e riceve un risarcimento per ingiusta detenzione.
2009. Il 31 luglio Francesco viene ricoverato all'ospedale San Luca in seguito ad una crisi di nervi e conseguente certificato di trattamento sanitario obbligatorio. Muore dopo quattro giorni di degenza. L'autopsia attesta che Francesco è morto per un edema polmonare provocato da un'insufficienza ventricolare sinistra. Inoltre si scopre che il suo corpo presenta profonde lesioni a polsi e caviglie.
Lacci e lacciuoli di ferro o di plastica? Questo sospettano in procura. La pratica della contenzione è ammessa per legge solo in stato di necessità e soltanto poche ore, fino alla terapia chimica. Invece, secondo la procura di Vallo della Lucania, le lesioni dimostrerebbero l'allettamento forzato e prolungato del paziente. Non si sa ancora se Francesco sia morto dopo quattro giorni interi di letto di contenzione. In ogni caso è morto in un letto di contenzione e il matto, statene certi, non era lui.
Venerdì 31 luglio le forze dell'ordine, con un dispiegamento da guerra di terra e mare, circondano il bungalow dove Francesco è ospite. La notte precedente, secondo la versione ufficiale, "avrebbe tamponato quattro autovetture".
Non ci sono le prove. L'automobile di Francesco è normalmente parcheggiata sotto la sua abitazione di Castelnuovo Cilento e non mostra segni di alcun danno. Francesco, sempre per nulla o poco fiducioso nelle istituzioni dello Stato, scappa verso il lido. Prende l'ultimo caffè e fuma l'ultima sigaretta. Viene acciuffato e spedito nell'ospedale psichiatrico San Luca, il posto in cui non avrebbe mai voluto finire perché temeva di morirci dentro. "Hanno ucciso un uomo in letto di contenzione", dice il pm nel suo atto d'accusa.
Che dire a tale riguardo? Conoscendo il carattere torturante delle carceri in quanto tali, non possiamo auspicare il carcere a nessuno. Sappiamo solo che l'ospedale San Luca dovrebbe essere posto sotto inchiesta amministrativa da parte della Regione Campania e invece quest'ultima finge che nulla sia successo. Sappiamo inoltre che a piangere la morte di Francesco, Franco per gli amici, sono stati i partecipanti al funerale svoltosi il 13 agosto, i suoi alunni della scuola elementare e l'intera popolazione, nessuno escluso, di Castelnuovo Cilento.
In un paese come l'Italia, in questo strano impero del bene, non dovremmo meravigliarci se gli attuali indagati per la morte di Francesco fossero assolti dall'accusa di omicidio colposo.
Nessuno però ci venga a dire che Franco, amico della vita, dei suoi giovani studenti, dei suoi concittadini e di tutti i libertari del mondo, si sarebbe suicidato. È da secoli che si racconta la favoletta secondo cui gli anarchici amerebbero suicidarsi. Adesso basta.