"I morti dipendono dalla nostra fedeltà..." perché il passato ha sempre bisogno di noi: forse c'è un desiderio nascosto nella nostalgia anche se questa parola, quotidianamente sciupata, nella profondità etimologica vuole, invece, esprimere la memoria del dolore, il ricordo forte di un'assenza che fa sempre male. Così l'11 marzo ha bisogno della nostra fedeltà o, forse, noi abbiamo bisogno di quel tempo, di quel desiderio nascosto, perché, ripetendo Umberto Saba "i morti amici e le morte stagioni rivivono in te"... Per Francesco, e per il significato che il tempo sa maturare, le "morti amiche" appaiono dure pietre di paragone dell'esistenza, del pensiero, della memoria: quegli avvenimenti, questi momenti... Allora si può dire che venti o trenta anni sono un nulla, perché la distanza da quel tempo non si misura col numero degli anni. Si misura col dispendio di libertà a cui ci ha costretti e ci costringe.
Non credo proprio che un modo di vincere il tempo nella sua durata e qualità sia quello di assecondarlo, anche se il tempo dà ai frammenti di vita l'opportunità di dispiegare il proprio valore. Ma ciò che risalta nell'indugio del tempo è quella memoria piena di significato che non ricostruisce ciò che non c'è più, ma lo restituisce al futuro come progetto, come profezia, come utopia: cioè come non-luogo della quotidianità. Allora anche la memoria diventa un gesto responsabile carico di futuro, di profezia, di libertà che resiste, che non si arrende, ma soprattutto progetta e sollecita la nostra fame quotidiana di giustizia.
Le morti "attese" di Francesco, di Piero o di Carlo non sono state, forse, figlie della paura di libertà o assenza di futuro di quelle città e società che vivevano, e vivono, nella parzialità del presente e nella fragilità di un pensiero vuoto e debole che imprigiona anziché liberare, che lega anziché sciogliere, che imbriglia le sfide e gli orizzonti nella monotonia di piccoli respiri, anziché ascoltare la polifonia delle speranze?
Ecco allora che veramente venticinque o trenta anni sono un nulla perché vivere è l'infinita pazienza di ricominciare: nella memoria di una giustizia negata a Francesco, a Piero, a Carlo e alla ribellione dell'angoscia innocente; nella memoria di una giustizia bugiarda che ha "atteso" Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi, sui viali ipocriti della mistica processuale; nella memoria di una giustizia vile che lascia nel rogo dell'irresponsabilità i ragazzi del Salvemini a Casalecchio e ne asciuga impudicamente le lacrime del male.
Si può ricominciare e continuare ad offrire profezia e progettualità, denuncia e creatività così da deridere con sapienza un presente miope che ha il respiro corto e che per l'ennesima paura delle differenze preferisce clonare se stesso, perpetuarsi immobile senza amore e senza amare.
Si può far capire dopo tanti anni a chi oggi ha venti anni che le nostre polifonie esistenziali continuano a costruire speranza, a indicare progetti carichi di futuro, ad aprire sentieri alle energie del cuore; ciascuno a suo modo e ciascuno nei luoghi della presenza che gli è propria e cara: dagli spazi liberi delle piazze alle parole di un pensiero liberante, dai circoli profani dell'amicizia ai rettangoli sacri degli altari, dalla durezza delle solitudini alla tenerezza delle compagnie, perché il sangue della memoria è sempre sangue teologico che ricorda all'uomo che dove c'è il suo prossimo c'è anche un Cristo che gli consegna come dono il desiderio di aurore sempre cariche di progetti d'amore e di libertà. E nei luoghi d'incontro sotto le infinite croci di una umanità che lotta, soffre e muore, "oltre le foreste delle fedi", per tutti sarà sempre tempo di memorie e di profezie, di amore e di verità.