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Francesco Lorusso: un angelo ribelle quel giorno di marzo del '77
Stefano Tassinari
Fonte: Liberazione, 11 febbraio 2011
11 febbraio 2011

Da ieri fino a domenica 13 febbraio alle ore 21.00 all'ITC Teatro di San Lazzaro si terrà "Agli angeli ribelli", (dedicato a Francesco Lorusso), un reading letterario di e con Stefano Tassinari, accompagnato dalle musiche eseguite dal vivo da Fabio "Dandy Bestia" Testoni (chitarre), Massimo "Max Magnus" Magnani (basso elettrico), Gianni Battilana (percussioni) e con le immagini curate da Luca Gavagna.
"Agli angeli ribelli" apre una finestra su una vicenda drammatica del nostro passato recente, la morte di Francesco Lorusso.
11 marzo 1977: a Bologna, in via Mascarella, nel corso di una manifestazione studentesca un carabiniere spara e uccide il giovane militante di Lotta continua Francesco Lorusso. Da quel momento, e per quasi sei giorni, Bologna diventerà il centro non solo di una grande ribellione giovanile di massa - con durissimi scontri di piazza e l'uso, da parte delle forze dell'ordine, dei carrarmati M 113 - ma anche il luogo principale in cui si svilupperà l'ultimo grande movimento politico del secolo scorso, il cosiddetto "movimento del '77".
Attraverso una sorta di lettera indirizzata allo stesso Francesco e alla sua memoria, della quale pubblichiamo qui uno stralcio, lo scrittore cerca da un lato di riflettere sulle passioni individuali e collettive di una generazione che è anche la sua, e dall'altro lato di mettere a confronto - in modo realistico e piuttosto amaro - quell'epoca storica con quella che stiamo vivendo. Per farlo, sceglie un linguaggio lirico e segnato dalle emozioni, mischiando motivazioni politiche e aspirazioni culturali, senso di appartenenza e senso militante del dovere, amore per la musica e amore per la vita, generosità e disincanto.

Ti ho visto scivolare verso il fondo di un'epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di tutti quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente. E noi, che ci siamo salvati dal finire insanguinati e senza fiato, noi, che abbiam schivato i troppi anni di galera e le fughe solitarie da un Paese all'altro, noi, combattenti di strada congedati dalla Storia, in fila per dieci coi bastoni tra le dita e la "Hazet 36" nascosta da maglioni sempre più larghi, noi, dicevo, adesso vorremmo scampare anche a ciò che ci perseguita in silenzio, al ricordo del tuo viso un po' strappato e all'impotenza di non avere più la forza per.... E mi sembra di sentirla la domanda, su quale forza possa contare ancora chi la forza l'ha dispersa nel vivere dispersi, rinchiusi a due alla volta nelle stanze dell'attesa, di uno scontro a fuoco oggi e di una rivoluzione post-domani, fino a quando la porta si apriva all'improvviso e al posto della rossa primavera entrava l'aria cupa e violenta delle teste di cuoio. E tutti noi rimasti fuori, a guardare di lontano quella guerra di nervi più scoperti di altri, ma non sapendo calcolare le distanze tra un bene presunto e un male altrettanto presunto, perché le nostre ragioni erano anche le loro e loro, in fondo, non erano altro che noi cento metri più avanti, noi trasformarti nell'avanguardia di nessuno, noi devastati dagli stessi lutti - eppure disarmati di fronte alla protervia dello Stato - e infine noi all'ennesima potenza, convinti che bastasse qualche geometria a rendere più solida la nuova casa della Storia. Chissà, anche la tua mente - come la nostra, d'altronde - sarà stata martellata per giorni e giorni da quella sequenza di fotogrammi sparsi, stampati su un giornale d'altri tempi, con quel gippone allo stato brado che rincorre i marciapiedi, e poi i compagni uno per uno, e il corpo di Giannino sbalzato sulla strada, e il suo cervello schizzato a dieci metri dalla sua figura inanimata, e il cuore rosso di Milano mangiato dai nemici di ogni cambiamento e sputato addosso alla nostra pazienza, col chiaro intento di farcela svanire. Ed è svanita a tanti la pazienza, in fondo a un mese di agguati e rappresaglie - la campagna elettorale del '75 -, una dozzina i morti dalla nostra parte, persino il giorno della festa, e dalla parte loro neanche un graffio, con tutti noi a masticare amaro, a discutere per ore di come farla pagare a quei bastardi, se oggi, domani o un giorno che verrà, se a mani nude e solo un casco in testa o con qualcosa in tasca che pareggiasse i conti. Alla fine ognuno ha scelto per se stesso, lasciando agli altri il ruolo dei conigli o delle lepri, di chi ha paura e di chi corre troppo in fretta, ma segnati entrambi dallo stesso destino. Ed è un destino in bianco e nero, forse più nero che bianco, ma sempre migliore del tuo, che da quegli anni ti aspettavi un po' di luce e hai avuto, invece, il buio di una notte senza fine. Dentro quella notte, nascosti all'ombra di quel famoso ultimo sole, ci stiamo un po' anche noi, ma non tutti per la verità, perché nel tempo i colori possono sbiadire, e le fedi assolute vacillare, e il richiamo di troppe foreste far perdere l'orientamento anche ai veterani esperti, così che in tanti hanno lasciato un pezzo della propria vita per abbracciarne un'altra, comoda e serena come quella dei nemici di una volta. Tu non l'avresti mai fatto, ne sono certo, e adesso il tuo esempio pesa sui percorsi di chi crede che il tempo possa cancellare anche le tracce di un vecchio proclama, in base al quale "per i compagni uccisi non basta il lutto" - te lo ricordi? Quante volte l'avrai scandito anche tu... - perché alla fine, signori dello Stato, "pagherete caro, pagherete tutto!", e invece loro non hanno pagato un bel niente e adesso, magari a doppia firma con qualcuno dei "nostri", scrivono articoli di sdegno e di allarme ad ogni vetrina rotta, ad ogni palloncino pieno di vernice catapultato sulle visiere dei caschi blu, ad ogni gesto dissacrante compiuto da qualche nuovo ribelle. E giù inchiostro velenoso sugli anni Settanta che stanno per tornare, sui giorni bui che nessuno vorrebbe rivedere e sul piombo sparato da una parte sola - sempre la stessa, la nostra - come se nei caricatori delle armi loro ci avessero infilato i cartuccini rossi e gialli della Upim, al posto di quei proiettili color ottone con cui hanno interrotto anche la tua corsa.