La carica, quella carica sgangherata verso piazza Alimonda e il confuso ripiegamento in mezzo alla folla inferocita, l'ha scaricata senza complimenti sul funzionario di polizia. «Il vicequestore Adriano Lauro mi ordinò di occupare e bonificare, espressi le mie perplessità ma eseguii comunque l'ordine, perché altrimenti i colleghi della polizia sarebbero stati presi alle spalle». Così l'ha raccontata il maggiore Claudio Cappello, il parà che guidava i carabinieri negli scontri che portarono all'uccisione del 23enne Carlo Giuliani, ascoltato come testimone nel processo che si svolge a Genova contro 25 manifestanti anti-G8 luglio 2001. Ma giova ricordare che Lauro, sentito pochi mesi fa dagli stessi giudici, aveva detto che l'ufficiale «aderì» alla decisione di caricare. Cappello non è un carabiniere di quartiere, appartiene all'élite del Tuscania e della seconda brigata mobile, specializzata nelle missioni in zona di guerra. E' rientrato da poco dall'Iraq e il 12 novembre del 2003 si era salvato per miracolo dall'attentato che fece strage di militari italiani a Nassiriya. E prima era uscito vivo dalla battaglia del check-point «Pasta» (Mogadiscio, 1993) considerata - fino all'avventura irachena - come il più duro scontro a fuoco che abbia coinvolto le nostre forze armate in epoca repubblicana. Gli avvocati difensori ci hanno provato a lungo ma Cappello non ha detto una parola sui perché e i percome di quell'impiego eccezionale di reparti e mezzi da guerra al G8 di Genova, in tempo di pace.
Quel 20 luglio di quattro anni fa l'allora capitano Cappello era il comandante di Mario Placanica, il militare ventenne di leva che uccise Giuliani e ha ottenuto nel 2003 l'archiviazione dell'accusa di omicidio per legittima difesa e uso legittimo delle armi, uscito un anno fa dalla Benemerita. La jeep dalla quale sparò, che aveva seguito gli uomini nella carica ma era rimasta intrappolata al momento del dietrofront, era assegnata proprio a Cappello, all'epoca capitano e comandante di una delle cinque compagnie speciali «di intervento rapido e risolutivo» (Cirr) formate dalla Benemerita per il G8 del luglio 2001. «Placanica era insofferente - ha detto l'ufficiale - mostrava un eccessivo nervosismo. Decisi di togliergli il lanciagranate che utilizzavamo per i lacrimogeni - ha proseguito Cappello - Gli restava la sacca dei lacrimogeni ma non riusciva nemmeno a passare i colpi al collega. Lui, e l'altro carabiniere del quale non ricordo il nome, non erano più in condizioni... non erano piu' abili, insomma erano `cotti'. Dovevano essere `sfiltrati'. Così decisi di far caricare Placanica sul mio Defender». La pistola, purtroppo, non gliel'ha tolta.
Rispondendo agli avvocati dei no global imputati - tre dei quali accusati dell'assalto a quella jeep - Cappello ha affermato di non essersi neppure accorto, mentre comandava le operazioni «in testa al plotone, tra la prima e la seconda fila», che il veicolo, insieme a un altro Defender che per fortuna poi riuscì nella manovra di inversione, era partito alla carica con il plotone. Insomma la colpa sarebbe dell'autista, il maresciallo Filippo Cavataio - già indagato (e prosciolto con Placanica) perché passò con la jeep sul corpo di Giuliani appena colpito - che non comprese di doversi allontanare alla svelta con i due «non più idonei», anche perché alla guida di «un mezzo privo di protezioni che diventa un obiettivo in più da colpire».
Cappello ha confermato di aver saputo della tragedia pochi minuti dopo dal suo superiore, il colonnello Giovanni Truglio, altro parà, comandante in capo delle cinque compagnie Cirr e «titolare» della seconda jeep che non avrebbe dovuto essere in piazza Alimonda. «Se l'avessi visto sul Defender avrei detto anche a lui di allontanarsi». In un primo momento, ha riferito Cappello, Truglio gli parlò di un manifestante «investito dalla jeep». Quindi, insieme Lauro, il maggiore constatò la morte del ragazzo e vide il sangue che colava da sotto il passamontagna.