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È giusto parlare ancora di Genova
Giuliano Giuliani
Fonte: da L'Unità - 10 maggio 2005
12 maggio 2005

Parlare ancora di Genova? Sì, ogni tanto è giusto farlo. Per un dovere di memoria. Per il diritto alla verità.
Per il rispetto verso chi è stato ammazzato ingiustamente e martoriato nel corpo. Per il risarcimento morale di chi è stato massacrato di botte senza il minimo motivo, umiliato, offeso, privato dei diritti essenziali. Per individuare le responsabilità e colpirle con gli strumenti severi della democrazia. Perché come cittadini di questo paese abbiamo il diritto di sapere da chi siamo tutelati e controllati e non solo da chi siamo governati.
Tra tanti forse e tanti distinguo, tra molte capriole verbali e qualche tardiva autocritica, si è fatta strada la convinzione che Genova abbia rappresentato simbolicamente il punto alto del governo della destra e dei corpi collaterali: adesso comandiamo noi e facciamo quello che vogliamo (magari con un irridente riferimento a Napoli: "Quella è stata una barzelletta!").
Lo aveva sintetizzato bene Gianfranco Fini la sera stessa di quel 20 luglio, quando, in barba alle abluzioni di Fiuggi e con la faccia arcigna dell'abituale militanza, preannunciò la sentenza: legittima difesa. Poco importa che in quella giornata si fosse intrattenuto per intere ore nei luoghi in cui si dirigeva il disordine pubblico: a portare solidarietà, stando alle sue dichiarazioni; a verificare che le cose si stessero svolgendo come erano state predisposte, secondo le mie maliziose deduzioni.
Insieme a questa convinzione se ne è andata consolidando un'altra: Genova segna, per la destra, l'inizio del declino.
Sì, perché faticosamente, lentamente, vincendo pigrizie e tentennamenti, documentando, parlando con la gente, e nonostante le menzogne dell'informazione "ufficiale", giù giù fino ai punto e a capo, una parte significativa del paese è andata oltre il legittimo sentimento di solidarietà umana e si è convinta di come quelle giornate avessero denunciato esplicitamente la volontà di intaccare nel profondo le regole della democrazia. Si è cioè disvelata la verità politica, anche se non si era voluto affermare la verità giudiziaria in un'aula di tribunale. D'altra parte siamo soltanto a meno di quattro anni, e non ai trentacinque e mezzo di Piazza Fontana, di che ci lamentiamo!
E tuttavia, anche qui, qualcosa si muove.
Nel processo in corso a Genova contro venticinque persone accusate di devastazione e saccheggio (pena prevista da otto a quindici anni) si stanno interrogando come testimoni dell'accusa alcuni protagonisti di piazza Alimonda ed emergono novità interessanti e sconcertanti. Cito alcuni esempi.
Al giovane carabiniere che dice di essere insieme a Placanica viene mostrata la fotografia in cui si vede il defender che si allontana passando sul corpo di Carlo. Si notano nettamente la mano di chi ha appena sparato e una persona che copre lo sparatore, ma lui dice che non era sopra e che la mano non è sua. Di grazia, ci vorranno dire chi era il quarto uomo?
L'autista, fra centinaia di non ricordo, confessa e ribadisce che prima di andare all'ospedale il defender è passato dal comando provinciale dell'Arma, dove tutti e tre sono stati medicati e curati, tanto per risolvere in famiglia la questione dei referti. Tutto secondo norma?
Ancora. Un comandante di reparto racconta che dovevano contenere l'avanzata dei manifestanti e che c'era tensione (stiamo parlando della decina di minuti prima dell'uccisione di Carlo). Foto e filmati dimostrano l'esatto contrario: nessuna avanzata e nessuna tensione, ma dimostrano anche che l'attacco di fianco al corteo dei disobbedienti (autorizzato ma attaccato da ore) è manovra insensata, che dura meno di un minuto, si conclude con una precipitosa e disordinata ritirata del contingente e configura una specie di trappola che culmina con gli spari mortali. Di grazia, ci vorranno spiegare perché?
Tuttavia in quella manovra si consuma un episodio fuori ordinanza. Il funzionario di polizia che comanda la piazza raccoglie i sassi e li rilancia, per sua stessa ammissione, contro i manifestanti.
Ancora. Lo stesso funzionario, resosi prontamente esperto in materia, parla di un sasso. Non è un sasso qualunque. È quello che, vicino alla testa di Carlo disteso sul selciato e circondato da un fitto cordone di carabinieri e poliziotti, prima non c'è e poi compare. È quello che volevano buttare via ma che una quanto mai tempestiva istanza della parte lesa ha fatto conservare presso l'ufficio dei corpi di reato. È il sasso con cui i carabinieri spaccano la fronte di Carlo, una obbrobriosa applicazione della legge del taglione (girava voce fra la truppa, falsa come tante altre, che un carabiniere fosse in fin di vita per una sassata di un manifestante). È il sasso che fa venire in mente a quello stesso funzionario di attribuire la morte di Carlo a un incolpevole manifestante ("bastardo, ti ho visto, tu l'hai ucciso, con il tuo sasso..."). Grande performance, complimenti! Il guaio è che una serie di fotografie dimostrano senza dubbio alcuno che la sceneggiata ha inizio quando la telecamera si è assestata per la ripresa e quando giornalista e operatore hanno ricevuto il placet dopo essere stati aggrediti verbalmente da un carabiniere. Di grazia, lo vogliamo almeno designare per un Oscar?
D'altra parte la storia dell'uccisione da parte di un sasso tirato da un manifestante dura un bel po' di tempo. Alle 18.04, trentasette minuti dopo, ne parlano ancora via radio i più alti comandanti dei CC sulla piazza.
Sono tutte cose già note, ma è importante che trovino conferma in un'aula di tribunale. Altre ancora potrebbero emergere, se tutti quelli che sanno si decidessero a parlare.
C'è chi ancora non lo ha fatto, e sarebbe tenuto a farlo per il mestiere che fa. Perché non parla quel poliziotto che prende a manganellate un carabiniere nella stessa scena di piazza Alimonda? Perché non parla quell'ufficiale dei CC che assiste alle scene più orrende? Mi riferisco soprattutto agli operatori dell'informazione, a quelli che hanno visto ma continuano a tacere e sono rimasti indifferenti anche al nobile appello del presidente Ciampi di tenere la schiena dritta. Piegarla perché "si ha famiglia" non è un bel modo di onorare il motivo dell'abiura alla propria dignità.
Sono cose note, ma anche pezzi di una trama che va svelata fino in fondo, per le necessarie misure di ripristino della legalità democratica anche nel settore decisivo delle forze dell'ordine. Non è peregrino chiedere all'Unione di assumere a chiare lettere la decisione di scrivere la verità con il lavoro indispensabile di una Commissione parlamentare d'inchiesta. Alcuni esponenti dell'Unione lo hanno detto in occasione di riunioni pubbliche. Non è affatto superfluo ribadirlo e confermarlo nella stesura del programma. La documentazione non manca e possiamo fornirla alla fabbrica.
Ecco perché è giusto, ogni tanto, parlare ancora di Genova.