FRANCESCO Puglisi, operaio, 14 anni. Vincenzo Vecchi, muratore, 12 anni e 6 mesi. Marina Cugnaschi, assistente sociale, 11 anni e 6 mesi. Alberto Funaro, infermiere, 10 anni. Ines Maresca, educatrice, 6 anni e 6 mesi.
Ricordiamoli questi nomi perché sono stati condannati in via definitiva per «devastazione e saccheggio» ed entreranno in carcere per scontare la loro pena. Undici anni fa parteciparono agli scontri che misero a ferro e fuoco Genova durante il G8 ma oggi sono persone che hanno gettato quel passato alle spalle e hanno un lavoro, una famiglia, dei figli. La condanna di quegli episodi di vera e propria guerriglia urbana deve rimanere ferma, non solo per la gravità dei fatti in sé, ma anche perché quella violenza ebbe l'effetto di prosciugare le ragioni politiche e le rivendicazioni dell'intero movimento no-global. Su questo punto non ci può essere nessuna ambiguità. Ma questa condanna non può essere disgiunta da una riflessione critica sulla sentenza della Cassazione dell'altro ieri.
Sia chiaro, quindi: non sono in discussione i fatti e le responsabilità degli imputati, ma soltanto l'entità delle condanne. Anzitutto colpisce la sproporzione della pena. Basti pensare che durante gli anni di piombo, grazie alla legislazione emergenziale sui pentiti, ci sono stati autori di omicidi condannati a pene detentive molto inferiori a queste, per non parlare di chi si è reso protagonista di rapine a mano armata con finalità terroristiche o del reato di associazione mafiosa. La pena deve avere certamente una funzione riparatoria, ma anche un valore rieducativo come la stessa Costituzione ricorda e, in questa circostanza, entrambi gli obiettivi sembrano traditi. Nel primo caso, perché la sentenza arriva undici anni dopo i fatti ed è priva di qualsiasi valore retributivo per le vittime di allora; nel secondo caso, poiché gli imputati sono ormai altre persone prive di qualunque pericolosità sociale. Una pena che non è graduata sulle condizioni presenti dell'individuo che la subisce sarà pure corretta sul piano del diritto positivo, ma rischia di essere percepita dalla coscienza sociale come un'ingiustizia.
In secondo luogo, la condanna ha assunto un valore esemplare che deriva dall'applicazione del reato di devastazione e di saccheggio, più adatti a una guerra e a degli eserciti schierati che non a degli scontri di piazza in un Paese democratico. Non a caso questo reato è stato ereditato dalla legislazione fascista e l'applicazione del buon senso avrebbe portato a una maggiore flessibilità in grado di comminare pene comunque gravi, ma più commisurate all'effettiva dimensione dei reati commessi e al tempo trascorso dai fatti. Si ha piuttosto l'impressione di un uso astratto e simbolico della giustizia che ha voluto caricare sulle spalle di queste cinque persone, individuate tra le centinaia, se non le migliaia che si resero protagoniste delle violenze, tutto il peso e la responsabilità di quanto è avvenuto a Genova in quei giorni. C'è infatti un divario troppo grande fra la quantità di persone sfuggite a ogni sanzione e l'elevatezza della pena attribuita a questo gruppo di condannati, che li fanno apparire come il classico capro espiatorio. Da tale evidente sperequazione scaturisce l'ideologia dell'esemplarità che contrasta con l'etica e i doveri di un diritto mite, capace di confrontarsi con «i casi concreti della vita» e di non ridurre i giudici a «bocche della legge».
Infine, bisogna considerare che la sentenza arriva pochi giorni dopo l'assoluzione per prescrizione di quei poliziotti che a Genova si sono resi responsabili di lesioni gravi contro i manifestanti. Una formula ipocrita e riduttiva utilizzata in quanto l'ordinamento italiano non ha ancora recepito il reato di tortura che altrimenti avrebbe impedito quella prescrizione. Certo, anche gli agenti di polizia 11 anni dopo possono essere cambiati: ma tra l'impunità totale per quei rappresentanti delle forze dell'ordine che hanno seviziato degli esseri umani senza scontare un solo giorno in prigione e la condanna a 14 anni di carcere per chi ha rotto una vetrina, sottratto generi alimentari da un supermercato o tirato pietre, era doveroso trovare un giusto mezzo, da un lato come dall'altro, per evitare che questa sentenza stridesse con elementari principi di equità presenti nella coscienza dell'opinione pubblica. Una coscienza civica che è naturalmente capace di distinguere tra la devastazione di un corpo e quella di un bancomat e sa bene che prima dell'idolatria dell'ordine pubblico dovrebbero venire i diritti delle persone. Alla cultura giuridica di questo Paese lo ha insegnato a metà Settecento un pensatore come Cesare Beccaria, il quale ricordava che ogni pena per essere giusta ha sempre il dovere di essere «pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi». Un ventaglio di principi sacrosanti per mantenere quella «relazione tra l'oggetto e la sensazione» di cui parlava il grande illuminista milanese che la sentenza della Cassazione sembra avere smarrito.