Se dieci persone pagano per tutti con una condanna che ha dell'incredibile, che fine hanno fatto quei 300 mila che insieme a loro invasero le strade di Genova? E se davvero Genova è una ferita aperta, come si dice con una formula abusata, perché intorno a questa condanna c'è il deserto o poco altro? Lo abbiamo chiesto a qualcuno di quei 300 mila che si sentono parte di un passato che continua a pesare. E che annichilisce. Non per avere una risposta, ma per cercare di capire che ne è dello spirito di Genova undici anni dopo.
Diana Santini aveva 18 anni. Faceva parte di un gruppo di disobbedienza creativa milanese, oggi è redattrice di Radio Popolare: «Io a Genova ero molto giovane e quello è stato il primo evento politico importante della mia vita. Forse l'unico. Lo reputo un fallimento per tutta la nostra generazione, un trauma gigantesco. Ci siamo sentiti presi per il culo da tutti, dalla politica, dal blocco nero, da chi era nel movimento e aveva in mano le trattative, e in più abbiamo preso un sacco di botte e di paura soprattutto. Quando tutta quella vicenda è finita da 300 mila ci siamo sentiti minoranza ed è da allora che ci siamo sparpagliati in rivoletti che si esauriscono in situazione meritevoli ma microscopiche, c'è chi lavora sulle questioni di genere e chi si dedica agli orti urbani o all'antifascismo, che in termini di numeri è uguale. Io sono sensibile alla rivoluzione, ma quando arriva, e non mi sembra che stia arrivando».
Marco Bocciarelli di anni ne aveva già 47 anni, faceva il teatrante, oggi «per campare» fa il rappresentante: «Ho cominciato a fare politica negli anni '70 e allo spirito di Genova ci ho creduto veramente, ho visto il rinnovarsi di categorie politiche che mi sembravano morte e sepolte. Dopo venti anni mi sembrava che la lotta per un mondo più giusto avesse trovato un impianto teorico più valido. Quel disastro per me è stata la conferma di una sconfitta storica. Abbiamo esaurito un linguaggio comune e non mi stupisco proprio se non riusciamo nemmeno a dare un senso alla memoria recente».
Luciano Muhlbauer, all'epoca 38enne, era uno dei portavoce del movimento, oggi nel Prc di Milano: «Non c'è una reazione forte rispetto alla gravità della sentenza semplicemente perché non c'è più il movimento. Dobbiamo ammetterlo, quel ciclo importante di lotte si è esaurito nel 2004, dopo le mobilitazioni contro la guerra. Quei dieci sono rimasti soli anche perché una parte del movimento, sbagliando, non ha sentito il loro processo come proprio, pensando che riguardasse qualche black bloc. Invece non è così, queste persone hanno pagato non al posto dei 300 mila di Genova ma per essere esibite come contrappeso alla violenza della polizia, servono solo per poter dimostrare un teorema. Potevo esserci anche io al loro posto.
Gianni Meazza aveva 63 anni, era un militante della Rete Lilliput, oggi fa il volontario in un'associazione della periferia milanese: «Dopo Genova, nella mia città, la Rete Lilliput si è persa perché non si è trovata la quadra. Sono sincero: le persone sono disponibili a fare ma non a ragionare, e fare non sempre è fruttuoso senza un orizzonte politico. Voglio dire che un conto è sognare la rivoluzione, un altro è ritrovarsi ognuno a fare la propria piccola cosa, magari anche egregia, in piccole nicchie. Ci si ritrova tra amici più o meno buoni ma non ci si mette mai in gioco in una dimensione più ampia. E oggi quando ci provi le persone ti rispondono guarda che io ho già dato, eventi drammatici come Genova hanno esasperato questo misto di disillusione e senso di aver già fatto quello che era possibile fare.
Anna Serlenga a 19 anni era una militante del centro sociale Bulk, oggi è dottoranda e regista teatrale: «Il G8 ha rappresentato una frattura violenta che mi ha cambiato la vita. Ho deciso di fare teatro dopo Genova anche per reagire al fatto che non credevo più di poter raggiungere certi obiettivi facendo politica, è stato come il tentativo di trasformare l'attivismo in qualcosa di più personale. Per la mia generazione quell'evento è stata una mazzata, ha prevalso la paura, la violenza e la successiva mancanza di punti di riferimento. Oggi mi dispiace che non ci siano momenti importanti per solidarizzare con i dieci imputati, ma quel fare attivismo figlio della stagione dei centri sociali degli anni '90 è finito. Io ho firmato l'appello che gira in rete ma mi rendo conto che è un'altra cosa...
Renato Sarti, aveva 49 anni, era ed è regista e attore teatrale: «Secondo questa giustizia dovremmo tutti e 300 mila autoarrestarci almeno per qualche giorno. Si scusano adesso, ma dopo undici anni è troppo facile. Facendo teatro, cerco almeno di tenere viva la memoria in un paese che ce l'ha cortissima. Quelli di quel movimento sono un po' vecchietti, ci vorrebbero i giovani e non voglio dire che non ci siano, altrimenti mi deprimo. Qualcosa si muove sempre sotto traccia ma manca un elemento catalizzatore. In questi anni tutti, compresi i partiti che erano vicini a quel movimento, hanno abbandonato la piazza. I risultati sono questi».
Luca Casarini nel 2001 aveva 33 anni, era uno dei portavoce più in vista delle tute bianche, oggi fa parte di Global Project: «La crisi spinge all'individualismo e alla rassegnazione e non produce resistenza, il tanto peggio tanto meglio non porta a nulla, è evidente. Il governo Monti in sei mesi ha fatto ciò che non è riuscito a Berlusconi in venti anni. Questo è un problema che dobbiamo porci fin da subito, a ottobre. C'è poi il nodo della violenza della polizia e della galera, questo è il tema dei temi in un periodo drammatico come questo che si annuncia di macelleria sociale. Oggi basta il reato di resistenza a pubblico ufficiale e sei dentro. Lo scontro con il potere costa caro, e il tema della violenza, colpevolmente, non è mai stato elaborato abbastanza».
Michela Martegani aveva 29 anni, era ed è ancora insegnante di lettere, precaria: «Prima di Genova mi ero quasi abituata a considerare lo scontro con la polizia come una sorta di rito. Insomma, una scaramuccia. Lì ho capito che quando gli argomenti sul piatto sono pesanti si fa sul serio, o meglio la polizia e la politica fanno sul serio. Noi non eravamo e non siamo preparati a questo. Da allora prevale la sensazione che il mondo stia andando a rotoli ma non c'è altro da fare che consolarsi con le proprie piccole cose. E' una fuga non dalle botte, ma dalla politica. Mi spiace davvero per quei ragazzi, ma la realtà dice che in fondo sono solo fatti loro».