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Carlo Giuliani nel romanzo a fumetti di Francesco Barilli e Manuel De Carli
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 3 luglio 2011
3 luglio 2011

«Il mio futuro, il mio passato remoto, non saranno pratiche di polizia». Non lo sa Claudio Lolli (magari non lo sa ancora) ma anche stanotte m'è venuto in soccorso per cucire dieci anni di partecipazione all'ingranaggio collettivo della memoria. Lo sforzo sovrumano di non dimenticare che Carlo Giuliani è stato ucciso alla fine di due ore di scontri innescati, senza pezze d'appoggio, dalle cariche feroci di certi carabinieri che erano arrivati a Genova con armi illegittime, spranghe di ferro truccate da manganelli di gomma. In gergo si dice "fuori ordinanza". La stessa dicitura usata per indicare berretti o cravatte più à la page di quelli forniti dall'amministrazione dello Stato. Berretto e manganello, come fossero pezzi del look, elementi di stile. Anche la pistola che uccise Carlo era impugnata con un certo stile. Da killer professionista. Quei giorni c'ero anch'io e giravo con un fotografo assoldato da un sito di moda che lo pagava per catturare lo stile dei giovani guerrieri di strada. Quella rabbia sarebbe diventata stoffa colorata ammucchiata negli scaffali.
Poi, però, c'è scappato il morto. Un modo di dire senza senso. Fosse riuscito a scappare non sarebbe morto. Sarebbe ancora lo splendido poeta perditempo che ciascuno dovrebbe avere il diritto di essere. Per quanto mi riguarda ero orgoglioso, in qualche modo lo sono ancora, di essere un dente di quell'ingranaggio collettivo che fa inchiesta, che ricorda, che mette in fila fatti e si pone delle domande. Dieci anni dopo, in quell'ingranaggio, c'è finita troppa sabbia. E' successo un anno fa. Ero a fianco di Giuliano in un liceo di Verona. L'aula era strapiena di ragazzi e Giuliano spiegava loro il filmato montato da lui, con pazienza e perizia, per ricostruire le ultime ore di Carlo. D'improvviso mi sono reso conto che stava rivivendo per la milionesima volta la morte di suo figlio. E la sua voce pacata, ferma, seguiva i movimenti di un ragazzo di cui conosceva la voce, l'odore, di cui vedeva gli ultimi istanti e di cui ripercorreva ogni giorno l'agonia. Che paese è quello in cui un padre deve rivivere il suo strazio più grande per cercare di ottenere verità e giustizia? In dieci anni ho imparato a vedere la rabbia quasi nascosta nelle parole e nei gesti di Haidi e Giuliano. E loro hanno imparato a essere durissimi senza perdere la ragione. Carlo è il nome di pozzi d'acqua in Africa, di scuole nel Chiapas, di un parco autogestito a Berlino, di qualche centro sociale, è il nome di almeno due bambini che conosco e di chissà quanti altri. E' stato, per breve tempo, il nome di un'auletta a Palazzo Madama. Non è riuscito a diventare, non ancora, il nome di una piazza o di un fascicolo processuale. E, soprattutto, non è più il nome di un ragazzo. Anche oggi sarebbe un ragazzo. E ai loro occhi sarebbe stato sempre quell'impiastro di vecchio e bambino che ciascuno dovrebbe avere il diritto di essere.
A che serve la memoria se solo poche ore prima di scrivere questa post-fazione la polizia genovese e i reparti antisommossa della guardia di finanza si sono accaniti contro pochi sedicenni che partecipavano allo sciopero generale e volevano solo occupare i binari della stazione di piazza Principe? A che serve quell'ingranaggio collettivo se mentre scrivo la televisione manda in onda fiction e repliche di fiction con poliziotti buoni e carabinieri onestissimi e finanzieri incorruttibili e un noto sociologo pontifica a milioni di spettatori che polizie e magistratura sono ormai degne di una società moderna e matura? E nelle prossime rievocazioni, c'è da scommetterci, Carlo tornerà ad essere il ragazzo con l'estintore. E ricominceremo da capo a ricordare che fu ammazzato da veterani delle missioni "umanitarie" e che su di lui infierirono con una pietra. E gli altri lì a dire che chissà che voleva fare con quell'estintore vuoto.
Barilli e De Carli, Baro e Manuel, sono altri denti dell'ingranaggio collettivo che chiamiamo memoria e sono bravissimi a forzarne - con quest'uso dei fumetti - le gabbie in cui la memoria è mortificata dai tempi stretti del giornalismo, dalle censure e dalle autocensure che incombono sui giornalisti, da rapporti di polizia prefabbricati, da sentenze scritte a priori, forse prima ancora del delitto. Quando la procura fu costretta ad aprire d'ufficio un'inchiesta sull'omicidio di Carlo, il procuratore generale dell'epoca si fece riprendere all'ombra di un tricolore e in mezzo a due carabinieri. Disse, venti ore dopo lo sparo di Piazza Alimonda, che avrebbe esplorato tutte le possibilità della legittima difesa. Proprio così. E così fu. Nonostante un filmato dimostri che Carlo si chinò a raccogliere l'estintore solo dopo aver visto la pistola impugnata con stile e senza mai perderla d'occhio. E il procuratore generale in mezzo ai due carabinieri non sembrava Pinocchio. Sembrava la scena di una delle fiction che si rincorrono nei palinsesti e aveva la stessa funzione: rassicurare, costruire una realtà parallela che cancelli l'esperienza diretta. Ricordare è giusto ma non basta. Che cosa resterà di questo sforzo di raccontare di Baro e Manuel se non si mette a fuoco la relazione di Carlo con i tutori dell'ordine e della legge? Non solo nella scena finale e nell'annoso, inutile, strascico giudiziario. Ma in tutta la sua breve vita. Nulla di più inservibile che si considerino tutti eroi, tanto le divise quanto le toghe, o tutti servi del potere. Entrambi gli schemi rendono opache sia la trama che l'ordito. C'è troppa vita che sfugge da quegli schemi. Perché ricordare lui e tutti gli altri? Non riesco a compilare, e non sono ragioni di spazio, l'ennesimo elenco (ma avete notato l'impressionante coincidenza del cellulare nelle storie di Carlo e Federico Aldrovandi?) e forse non servirebbe quella lista perché in quella relazione opaca ci siamo tutti. Siamo tutti in balìa di un capovolgimento semantico a proposito delle parole sicurezza o libertà. A che serve ricordare Carlo e non domandarsi perché Genova è attraversata oggi da pattuglie di alpini? Cercano altri Carlo, tutti i Carlo possibili, cercano noi. Nessuno si senta escluso. Li hanno invocati gli stessi direttori che obbedirono alle veline o che parteciparono a costruire la versione ufficiale. Dovessero uccidere qualcuno nei loro misteriosi riti chiamati "controlli di polizia" ci saranno gli stessi magistrati ad archiviare, gli stessi medici legali ad apporre la dicitura "morte naturale" su corpi straziati sul fronte interno della guerra globale, nelle carceri, nelle periferie, nelle piazze, nei luoghi del lavoro nocivo. E ad applaudirli saranno gli stessi imprenditori che hanno applaudito il loro collega colpevole di non essersi curato del rischio che i suoi operai prendessero fuoco.
Serve l'intelligenza di tutti i Carlo per inventare il modo di mutare quella relazione. Quell'intelligenza, ogni tanto, l'abbiamo chiamata movimento. Cerchiamo di non scordarne mai l'energia o saremo ancora "pratiche di polizia". A Genova, quel luglio, pensavamo che nulla sarebbe stato come prima e, invece, nulla è come allora.

Checchino Antonini

(postfazione al volume "Carlo Giuliani, il ribelle di Genova" - Becco Giallo)


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