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Vandalismi gratuiti e cariche di polizia assurde: i giorni della paura
Marco Menduni
Fonte: Secolo XIX, 10 ottobre 2009
10 ottobre 2009

GENOVA. Marina Cugnaschi è una donna di 44 anni che sembra una ragazza, esile e dall'aspetto gentile. Uno scricciolo di un metro e sessanta per quaranta chili. Se la fissi sorride e, quasi un po' imbarazzata, abbassa gli occhi. Marina Cugnaschi, anarchica di Lecco, è una devastatrice, condannata a più di 12 anni per gli scontri del G8. Marina Cugnaschi negli anni Novanta è una volontaria che lavora per le cooperative della Caritas.
Marina Cugnaschi, pochi giorni prima del summit di Genova, viene spiata dalla Digos «presso la struttura occupata Villa Litta di Milano, che ha permesso di individuarla in una riunione di elementi di matrice anarchico insurrezionalista fra i quali era presente Aurora Betti Pasqua, ex brigatista della colonna Walter Alasia, detenuta in regime di semilibertà presso il carcere di Opera».
Inquadrata dalle telecamere mentre lancia molotov, mentre sfascia vetrine. Marina Cugnaschi è la linea di demarcazione delle due verità che coesistono in una stessa sentenza. Chi ha sfasciato Genova nel luglio 2001. E chi si è difeso da una carica delle forze dell'ordine che non sarebbe mai dovuta partire.
Primo flash. Ore 10 del mattino del 20 luglio. È l'inizio degli scontri sulle strade, l'episodio che scatena il caos, la lunga catena di violenze che per ore sarà impossibile arginare. Il crocicchio è quello che sta tra corso Buenos Aires e corso Torino. Lì vicino, in piazza Paolo da Novi, è previsto il concentramento dei Cobas. Già da mezz'ora tre giovani, volto coperto, stanno spaccando i marciapiedi, infilando nelle sacche mattonelle e sassi da usare come armi. Poi arriva un altro gruppo. C'è Marina Cugnaschi, c'è l'amico Vincenzo Vecchi: per tutta la giornata saranno sempre fianco a fianco. Le telecamere li riprendono. Smontano pezzo pezzo le impalcature che fasciano un piccolo edificio, il casotto oramai in disuso di un distributore di benzina. Imbracciano i tubi Innocenti come fossero spranghe. Va in pezzi l'insegna di un'agenzia immobiliare, poi la furia si rivolge verso la filiale di una banca. Sfasciate le vetrine. Distrutto il bancomat a calci. Un fotografo cerca di riprendere la scena, ma viene preso a calci, gli strappano la macchina dalle mani. Non c'è polizia. Non ci sono carabinieri. Chi prova a chiamare il 113 trova nel segnale di occupato un argine invalicabile. Le forze dell'ordine arriveranno solo più tardi. Gli uomini del battaglione Tuscania, come ricostruì anche il comitato parlamentare di indagine, sbagliarono strada, persi in una città dalla topografia impossibile che non conoscevano.
Secondo flash. Il grande corteo arriva, percorrendo via Tolemaide, davanti ai grattacieli di Corte Lambruschini, vicino alla stazione Brignole. È un corteo autorizzato. C'è, anzi, chi sostiene addirittura concordato. Lo ricorda il questore di allora, Francesco Colucci, davanti ai parlamentari: «C'era l'accordo per una sceneggiata». I no global, i Disobbedienti del Nordest, hanno sempre respinto questa ricostruzione con sdegno. Ma anche altri poliziotti l'hanno confermata davanti ai magistrati: i manifestanti dovevano arrivare fino alle barriere che delimitavano la zona rossa, qualcuno doveva anche riuscire a varcarla per poi essere respinto. Il corteo, al di là di possibili accordi, poteva comunque proseguire. Invece fu fermato con una carica. Perché? Per il lancio di pietre contro le forze dell'ordine dalla massicciata delle ferrovie, come hanno ricostruito alcune testimonianze anche tra i carabinieri? Non è l'unica versione raccontata. perché, ad un certo punto dell'indagine, spunta un funzionario della polizia genovese, Angelo Gaggiano, e sostiene di aver dato lui l'ordine di caricare: «Sì, ho dato io quel comando. Sono stati compiuti errori, in quei giorni? Ebbene, quello sicuramente non lo è stato. Anzi, avremmo forse dovuto farla ancora prima, quella carica». Ma non è neppure questa la verità. È una versione che fa a pugni con altre, sempre raccolte tra i responsabili della piazza e dell'ordine pubblico. E ancora oggi non è chiaro chi, e soprattutto perché, partì quell'ordine. Ora i giudici mettono almeno un punto fermo: non doveva essere dato.