Rete Invibili - Logo
Piazza Alimonda piena... e alle 17,27 risuona la voce di Carlo
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 22 luglio 2008
22 luglio 2008

Di più o di meno dello scorso anno? La memoria distorce i ricordi: nessuno sa dirlo con precisione tra le centinaia di persone che domenica scendevano per via Venti verso Piazza Alimonda. Era il 20 luglio di sette anni fa che la pistola di un carabiniere ammazzava un ventitreenne che s'era trovato incastrato nelle cariche illegittime contro un corteo regolarmente autorizzato che voleva solo contestare il G8. S'è marciato seguendo la banda senza nome di musicisti rom, gli stessi che suonano nei vicoli del centro. Un lenzuolo bianco colorato da mani intinte nella vernice e, più tardi, la decorazione con impronte digitali della piazza denunciano il razzismo dei governanti contro i bambini rom. Gli slogan e gli applausi rimbombano sotto il Ponte monumentale dedicato ai partigiani: "Carlo è vivo!". Gracchia la radio di uno della digos che a manifestare sono in 500 e altrettanti saranno già in piazza. Giuliano Giuliani, che ha fortemente voluto questo corteo, conta almeno 800 partecipanti. Avanti a tutti marcia, tenendosi a braccetto con Haidi, un gruppo di madri, sorelle, figlie. Stefania, la mamma di Renato Biagetti che lotta perché l'omicidio di suo figlio non sia rubricato alla voce "rissa tra balordi", proprio come fa Rosa, la mamma di Dax. Ci sono la sorella di Iaio, ucciso trent'anni fa dai fascisti col suo compagno Fausto, e c'è Natascia, la figlia di Giuseppe Casu, ucciso dalla malapsichiatria che l'ha legato a un lettino di contenzione per sette giorni. Anche di Carlo si dice che aggredì con l'estintore anziché che provò a difendersi.
In Alimonda Andrea Rivera ha dedicato uno dei suoi blues a Carlo, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, raccontando di un'Italia di ecomafie, lavoro nero, diritti negati, cocaina nell'aria, nuvole di Fucksas per cantarci sotto "Piove governo ladro". Non l'avessero ucciso, Carlo avrebbe avuto trent'anni, l'età in cui aveva promesso a Enrico, per tutti Gogo, che avrebbero aperto un bar insieme: «Sette anni fa ha pagato il prezzo più alto - ha letto Enrico dal palco - e il giorno dopo i violenti eravamo noi». La memoria è dolore: Carlo aveva 17 anni quando lesse, per un servizio tv, le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Domenica la sua voce registrata è risuonata a ridosso delle 17,27, l'ora dell'omicidio per il quale non c'è mai stato processo. Lettere di ragazzi come lui che chiedevano scusa alle famiglie ma non avevano nulla da rimproverarsi. Sulla cancellata della chiesa tornano gli striscioni, le poesie scritte sui fogli di quaderno, i quadri. In piazza, tra gli altri, don Gallo, alcuni dei portavoce di quel luglio - Raffaella Bolini, Vittorio Agnoletto, Alfio Nicotra, Luciano Muhlbauer, che il giorno prima avevano partecipato alla discussione sul prossimo G8 alla Maddalena - e tanta gente di sinistra e di Rifondazione genovese e nazionale, Paolo Ferrero, Claudio Grassi, Giovanni Russo Spena, Tiziana Valpiana. «Un dovere politico esserci - spiegano - specie dopo la scandalosa sentenza che ha finto di non vedere la tortura a Bolzaneto». A un angolo della piazza, quello che sembra il più alto in grado dei digossini ordina: «Bisogna capire che vuol dire quel 25!». Gli dev'essere sfuggito il tg regionale che ha mostrato alcune delle vittime di Diaz e Bolzaneto respinte poco prima del corteo all'ingresso di Tursi, il municipio, perché avevano indosso una maglietta con quel numero stampigliato. 25 come i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio, scelti a casaccio tra i 300mila per obbedire a un teorema e contro cui il predecessore di Vincenzi aveva provato a costituirsi parte civile. Volevano solo dire alla nuova sindaca (che punta a ospitare l'agenzia Ue per i diritti umani e che domenica ha ricevuto alcune delle vittime della Diaz) che «Genova non può essere una città dei diritti finché i responsabili delle violenze e delle torture continueranno a occupare posizione di comando e a essere promossi».