Le giornate di Genova non sono state solo caccia all'uomo, cariche sconsiderate, militarizzazione della città. Sono state anche il teatro prescelto per scontri di potere all'interno delle stesse forze dell'ordine. In materia di ordine pubblico i carabinieri non possono fare alcunché senza l'autorizzazione del funzionario di polizia che ne accompagna i contingenti. A Genova però, su chi avesse «il manico» rimane ancora oggi molta confusione. Fini, allora ministro degli Esteri, era nella caserma di San Giuliano, il centro di controllo dei carabinieri - nonché con Bolzaneto carcere temporaneo per gli arrestati - a testimonianza del rapporto privilegiato dell'Arma con la destra italiana. Dall'altro lato una centrale operativa della polizia che più volte, ascoltando le registrazioni delle telefonate, appare in panne nella comunicazione tra reparti, tanto con i carabinieri, quanto nella gestione delle emergenze segnalate dai cittadini.
Una polizia che giunge al G8 con De Gennaro saldamente in carica, ma desideroso di dimostrare la propria lealtà anche ai nuovi padroni del centrodestra (era stato nominato nel maggio 2000 dal centrosinistra). Il sabato, soprattutto con l'irruzione alla Diaz, la polizia risponderà alle critiche di chi li accusava di avere fatto pochi arresti e di un comportamento in tono minore per le strade. Dopo l'omicidio di Carlo, i carabinieri durante la disastrosa giornata di sabato vengono tenuti in disparte. Il venerdì però lo scontro avviene, tra incomprensioni, decisioni autonome dei carabinieri, insulti via radio: il processo e i testimoni delle forze dell'ordine, tra mille tentativi di giustificare il tutto con difficoltà tecniche - pare non funzionassero bene le radio e gli auricolari in dotazione - hanno messo in evidenza contrasti tra polizia e carabinieri, sfociati in una generale disorganizzazione organizzata di cui hanno fatto le spese migliaia di manifestanti. Un altro dei tanti conflitti - come quello tra reparti mobili e squadre mobili in seno alla polizia emerso la notte e anche nel processo Diaz - consumatisi in quelle giornate del 2001.
Un Di Furia di carabiniere
Tra i carabinieri impegnati nelle vie genovesi c'è anche chi è rimasto fuori dai giochi, dando luogo ad una esilarante, se non fosse tragico il contesto, gag. E' il capitano maggiore Di Furia, ore e ore di comunicazione con la centrale di servizio a litigare con funzionari della polizia, per andare a caricare i manifestanti e infine per chiedere cibo: «Io ho già tutto il personale sui mezzi, i mezzi accesi, mi basta solo un via libera da parte vostra quando volete. 112: d'accordo. Dobbiamo ricattare la questura per farci liberare. 112: lo stiamo facendo. Perché io lo ammazzo questo funzionario, odio più lui dei no global, se dessero fuoco alla questura farei festa».
Dopo innumerevoli telefonate, dalla Centrale non arrivano novità, anzi dopo diversi tentativi Di Furia sembra non trovare mai un ascoltatore intenzionato ad aiutarlo.
«Sono il maggiore Di Furia, buongiorno con chi parlo? Di Furia che cazzo vuoi sono Biscotti. Bisco, senti qui abbiamo un cretino di funzionario che non ci sta facendo sganciare nemmeno un mezzo per poterci andare a prendere i panini che ci hanno tra l'altro preparato, sono 3 ore».
Con il passare dei minuti sale la tensione. Nel resto della città i carabinieri e la polizia stanno caricando, via radio passano le notizie, l'atmosfera si surriscalda anche per il reparto bloccato: «Di Furia, quanti siete? Siamo 72 incazzati come bombe. Ok va bene signor maggiore. Mandateci a lavorare per Dio. Va bene salve».
Di Furia sente via radio che i carabinieri sono in difficoltà. Cerca ancora il contatto, vuole aiutare i suoi colleghi: «Il bello che ci avevano detto che eravamo qui per rinforzo per emergenze, quali emergenze se questa non è un'emergenza, è da bruciarli tutti, siamo qui a non fare un cazzo».
Infine l'amaro epilogo: «Tranquillo, tranquillo, lo ammazzerei di legnate, sarei contento se gli dessero fuoco a tutta la questura, maledetti bastardi, scusa 112: no, fai bene a sfogarti, ma purtroppo la direzione ce l'hanno loro e c'è poco da fare, va bene. X: va bene, ciao».
«Massacrateli»
Nella trentaduesima udienza del processo in aula a Genova viene esaminato Raffaele Mascia, dirigente di un contingente di 100 carabinieri che venerdì vengono inviati sulla massicciata della ferrovia Brignole a protezione dei reparti impegnati nella carica di via Tolemaide. Poi seguiranno i contingenti fino in corso Gastaldi e infine chiuderanno i varchi in piazza Martinez in una mossa a tenaglia, sottolineata da molti testimoni. Giulietto Chiesa, chiamato a Genova a testimoniare, dirà che mai in vita sua aveva assistito a cariche senza lasciare vie d'uscita ai manifestanti. In aula vengono fatte ascoltare a Mascia alcune conversazioni radio, come questa: «Cot (Centro operativo telecomunicazioni, ndr): Mascia, devi scendere per corso Gastaldi, Archimede, via Giusti e vai in piazza Martinez, hai capito? Mascia: sì ho capito, con tutti quelli che ho qui con me? Cot: confermo con tutti però devi fare una cosa veloce e devi massacrare. Mascia: confermi? Cot: confermiamo piazza Martinez».
Carabinieri in autonomia
La catena di comando ha costituito per buona parte del processo l'argomento clou. Il tentativo, specie da parte delle difese, è stato quello di comprendere l'organizzazione delle forze dell'ordine, per evidenziare gli errori e una situazione di confusione creata dagli stessi apparati di sicurezza, che ha portato i manifestanti ad una difesa ad oltranza dagli attacchi. Il primo marzo del 2005 in aula a Genova si presenta il maggiore Frassinetto, responsabile della sala operativa dei carabinieri, presso la caserma di San Giuliano. E' lui a chiarire, si fa per dire, l'ambiguità gerarchica creata in quelle giornate: la questura comunicava le informazioni all'ufficiale in sala crisi, poi via telefono, alla centrale operativa dei carabinieri e infine a Frassinetto. Era quest'ultimo a comunicare gli spostamenti ai Ccir. Frassinetto è chiaro sulle autonomie operative riservate ai carabinieri: «Essere a disposizione della questura non significa prendere ordini direttamente dal funzionario di piazza» e ancora, «la questura non può muovere per proprio disegno gli uomini dei carabinieri».
«Sono stati loro, anzi noi»
Ai testimoni delle forze dell'ordine giunti in aula è stato più volte chiesto il riconoscimento di coloro che menavano e fendevano mazzate contro i manifestanti. A Guido Ruggeri, il comandante dell'ex Battaglione Tuscania, assorto nel 1996 - a Livorno - a Reggimento (e transitato nel 2002 dalle dipendenze della Brigata Folgore alla II Brigata Mobile dei Carabinieri) vengono mostrate scene di pestaggi. Il tentativo è scaricare sui colleghi: «Sono poliziotti - dice in aula - non personale del Tuscania. Eravamo riconoscibili per il cerotto arancione dietro al casco e per lo stemma verde del Tuscania sul petto». Infine, di fronte all'ennesimo video, non può che ammettere: «Riconosco un militare del Tuscania».
Vomito e attrezzature
Paolo Faedda, tenente dei carabinieri, responsabile del contingente del III Battaglione Lombardia, quelli di via Tolemaide, alcuni dei quali protagonisti nei pestaggi del San Paolo a Milano dopo la morte di Davide «Dax» Cesare, è il carabiniere che si vede vomitare durante una delle tante cariche. Faedda in aula non si riconosce in una immagine in cui compare di profilo, con un segno evidente sul retro del casco. Nega di avere avuto segni di riconoscimento, ma poco dopo è chino a vomitare con in mano il casco mostrato poco prima. Dice anche di non avere effettuato arresti in via Tolemaide. Ancora una volta un video lo inchioda: è lui che senza casco e con le manette in mano sta arrestando un manifestante. Finge di non sapere che il III Battaglione Lombardia ha fatto uso di manganelli irregolari, ammettendo però che possa essere accaduto «perché il tonfa non è sicuro e si può perdere», nonostante altri suoi colleghi avessero sottolineato, tra le mirabilie dei tonfa, proprio la sua forma, grazie alla quale era molto difficile perderlo. Nel finale dell'udienza un'altra sorpresa: si scopre infatti che «i carabinieri possono munirsi di materiale comprato a proprie spese». In aula si crea sbigottimento, ma il teste tenta il salvataggio in corner specificando che alludeva a «baschi, fondine, materiale deteriorabile». Le mazze di ferro di Genova e le mazze da baseball del San Paolo sono lì a testimoniare il contrario.
Il Presidente e Truglio
Nel febbraio 2007 arriva a Genova uno dei big, ovvero il tenente colonnello Giovanni Truglio, protagonista dei fatti di piazza Alimonda. Nella sua deposizione interviene pesantemente la Corte, che chiede chiarimenti e un giudizio del militare sui fatti. «Le chiedo proprio come fatto storico, cioè da parte sua non c'è mai stato il dubbio di aver commesso, o lei personalmente o altri colleghi suoi, o non colleghi suoi, tipo appunto la Polizia di Stato, degli errori nella gestione di quei momenti?» Alla domanda del presidente Devoto segue una risposta confusa. Sull'ennesima domanda, «l'Arma non ha fatto una sua ricostruzione dei fatti?», Truglio ha la risposta più decisa di tutta la sua deposizione. Un «no» forte e chiaro che dimostra e nasconde tante responsabilità non ancora appurate di quelle giornate.