Due secoli e un quarto di carcere per i Venticinque di Genova? Non bastano: devono pagare in moneta sonante, oltre che con le loro vite. Due milioni e mezzo di euro, centomila a testa. Dopo le pene draconiane richieste dai pubblici ministeri Anna Canepa e Andrea Canciani contro il pugno di manifestanti anti-G8 posti alla sbarra in vece degli altri 300mila di quel luglio 2001, ieri è stata la volta della seconda voce dello Stato, la sua avvocatura. E le pene pecuniarie, a titolo di danno non patrimoniale ma «all'immagine», sono state invocate dall'avvocato Ernesto de Napoli, parte civile in nome della presidenza del Consiglio dei ministri e del ministro dell'Interno - allora Berlusconi e Scaiola, oggi Prodi e Amato. L'avvocato dello Stato ha anche aggiunto: se pure intervenissero assoluzioni dall'accusa di devastazione e saccheggio (quell'incredibile accusa d'un reato tratto dal decreto emanato nel 1944, in piena guerra, dal Luogotenente del Regno principe Umberto), ognuno dei Venticinque dovrà comunque risarcire, sempre all'«immagine dello Stato», 30mila euro.
Di cosa sono colpevoli i Venticinque per meritare queste punizioni, in ultima analisi? D'aver sfidato il 20 luglio di sei anni fa la repressione promessa dallo Stato medesimo: quella repressione che ha macchiato indelebilmente la sua immagine il 20 stesso con la trasformazione delle forze dell'ordine in esercito guerreggiante e con l'omicidio d'un giovane ribelle, Carlo Giuliani. E poi il 21 proseguendo nell'opera per le strade di Genova e attuando i massacri, di persone e del diritto, perpetrati nella scuola Diaz e nel lager di Bolzaneto.
I Venticinque di questo sono colpevoli: di rappresentare fisicamente nelle aule del Palazzo di Giustizia genovese la moltitudine di corpi contro la quale lo Stato si è reso colpevole delle colpe imputate a funzionari delle sue polizie in altri due processi. Funzionari in quali, a qualsiasi pena dovessero essere condannati, per i reati contestati beneficeranno interamente della prescrizione e dell'indulto. Quello contro cui si sono sempre scagliati i loro più accesi difensori politici.
La vendetta del colpevole, dunque. E' giusto. Se lo Stato è il monopolio della violenza senza più il vincolo di diritti garantiti, allora lo Stato alla sua colpa risponda pure con la sua vendetta. Che ne sarà poi della legge, è domanda oziosa: l'identico di quel che già ne è da quei giorni di sei anni fa, sino a quando i vertici della catena di comando delle polizie sono stati esclusi dai processi ed anzi nel frattempo, da un governo all'altro, promossi a più sicuri ed onorifici incarichi. Fatti che la grande informazione non ricorda: perché c'è bell'e pronto l'argomento dell'indulto sui "pesci piccoli" rimasti, a far tornare i conti dei forcaioli a pro del potere.
D'altra parte, questa "giustizia" ha costruito bene il suo calendario. Prima il 20 luglio dei "manifestanti violenti", poi il 21 delle "pecore nere" negli apparati dello Stato. Una sequenza soprattutto logica. C'era solo da rimuovere un ostacolo: quel cadavere in Piazza Alimonda, quello d'un manifestante, l'unico ucciso nei "fatti di Genova", ucciso dallo Stato. Così è stato fatto: e quel corpo di reato è sparito per la "giustizia" con l'archiviazione, previa la perizia del «sasso» miracoloso. Nessuno, ci scommettiamo, commenterà oggi queste parole pronunciate ieri da Haidi Giuliani: «Da parte dello Stato mi aspetto che qualcuno venga da me e Giuliano prima o poi a chiederci i danni, perché il sangue di nostro figlio Carlo ha sporcato la pavimentazione della piazza». Il quarto potere che fa corto circuito con gli altri, quel sangue l'ha archiviato a sua volta. Non l'ha mai visto. Dormiva, anzi non c'era.
Chi scrive, invece, c'era. Proprio lì dove Canepa e Canciani hanno individuato il cuore della «guerriglia», l'«intento violento» dell'assedio civile ad un G8 svolto ponendoci tutti in stato d'assedio. In via Tolemaide, il pomeriggio del 20 luglio. Non a guardare per poi dimenticare. Ma prima dentro lo Stadio Carlini e poi nelle prime file della "testuggine" che aprì il corteo della disobbedienza, che fu gasata e caricata dagli incursori dei corpi speciali dell'Arma, con le armi e a freddo, 500 metri prima della destinazione comunicata d'un corteo mai vietato. La ricomponemmo, quella testuggine, come potemmo: per resistere alla guerra scatenata contro i 20mila che venivano dietro. E resistemmo in tanti, per quei tanti massacrati in terra nei portoni e nei cortili, negli androni e nei garage.
Reagimmo, come potemmo, come venne spontaneo a tutto ciò che ci fu scagliato addosso: battaglioni scatenati, gas dagli elicotteri, blindati e idranti lanciati all'impazzata, e proiettili sparati. Fino a quello in piazza Alimonda, nella testa di Carlo.
C'ero. E c'ero alla sera, di nuovo al Carlini dove fummo tutti i 20mila, tranne quelli trascinati alle torture di Bolzaneto e rastrellati persino dagli ospedali, a decidere come gli altri alla Fiera del Mare che nessuna vendetta avrebbe ripagato quella vita, che dovevamo solo continuare a camminare: anche per Carlo.
Ora che lo Stato vuole compiere la vendetta della sua colpa sui Venticinque, chiedo lo faccia anche su di me. E chiedo che riconosca a me e a tutte e tutti gli altri di quel luglio che, preparandoci per lunghe settimane alla contestazione del G8 2001, abbiamo cospirato: per la democrazia. E non voglio che il partigiano don Gallo si autodenunci per noi, che eravamo lì, dov'erano quelli alla sbarra, tra i Venticinque: voglio che lo Stato mi ci veda accanto ora, insieme a tutte e tutti coloro con cui dello Stato abbiamo sfidato il volto più oscuro allora.
Ho scritto già, sulla requisitoria dei pm, di storia del potere contro la storia viva. E so bene che in troppi siamo colpevoli di aver lasciato la prima operare sola in quel Tribunale, coltivando la seconda altrove, e malamente. Leggo che per il 17 novembre alcuni con i quali ho condiviso da allora una parte del cammino, la disobbedienza segnata poi da separazioni ma che nessuno può strappare dalla vita mia e di quante e quanti vi si sono coinvolti, hanno proposto di tornare a Genova: «Perché tutti i compagni processati a Genova siano liberi, perché la storia del potere non sia un ostacolo alla corsa di tutti, quelli che c'erano e quelli che verrano, verso la libertà». Poiché da un po' non ho in tasca nemmeno la tessera del Trambus, sono ancor più d'accordo con l'appello di Supporto Legale, che sostiene gli imputati di Genova e Cosenza: invita anch'esso a tornare là il 17 novembre, «senza firme, senza identità, senza se e senza ma, perché Genova non è finita, è ancora qui,oggi, e riguarda tutti e tutti se ne devono fare carico, senza esclusioni». Spero bene che nessuno, soprattutto fra quanti si presero la responsabilità di chiamare quei 300mila sei anni fa, si sottragga ad un appuntamento che nulla toglie alle differenze: ma senza il quale sarebbe tolta dignità alla parola comune che un giorno sapemmo dire.