«L'ambasciata di Germania ha avviato un'indagine sul trattamento nelle carceri italiane di cittadini tedeschi. Un'indagine che farà l'ambasciata di Germania dato che è impedita al Parlamento italiano. Il rifiuto di questa indagine autorizza a sospettare che non si tratta solo di voler coprire responsabilità e inadeguatezze (...)
(...) ma che atti di violenza compiuti non genericamente dalle forze dell'ordine, ma da gruppi ristretti e determinati all'interno di esse, abbiano avuto copertura, avallo politico e forse incoraggiamento». Violenze con un segno politico «da clima cileno, di tipo fascista. È difficile trovare una diversa definizione. È come se si fosse lungamente attesa la possibilità di consumare una vendetta politica». Sono le parole di Massimo D'Alema, pronunciate il 26 luglio del 2001, dopo che la destra aveva respinto la richiesta di istituire una commissione parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova.
Poi la stessa destra si rese disponibile per un comitato d'indagine che frettolosamente, in una decina di sedute dal 7 agosto al 14 settembre compresa la pausa feriale, si concluse come voleva la maggioranza di allora. Un comitato del tutto inadeguato, nei tempi e nella conduzione. Basta ricordare alcuni dettagli: non si sapeva ancora che le molotov alla Diaz le avevano portate due poliziotti; e il presidente del comitato, il forzitaliota Donato Bruno, replicò più volte alle obiezioni di parlamentari del centrosinistra che quella della Diaz era stata «una perquisizione legittima».
D'altra parte lo aveva sostenuto in una lunga intervista televisiva anche l'allora capo della polizia De Gennaro, che, oggi, è difficile sostenere non abbia avuto responsabilità nella gestione del disordine pubblico.
Basterebbero questi cenni, insomma, per riconfermare la necessità di una commissione, come quella monocamerale che ha appena iniziato, con molte difficoltà, il suo iter.
Parole inequivocabili, quelle usate all'epoca da D'Alema, che mettono in luce le responsabilità politiche quanto quelle della catena di comando, così come l'intreccio che esiste fra esse.
Oggi il materiale a disposizione è immenso: fotografie, filmati, testimonianze, registrazioni. Basta volerli osservare, ascoltare e analizzare con cura e si possono ripercorrere gli avvenimenti: le violenze di strada, gli attacchi indiscriminati e ingiustificati a dei cortei autorizzati, l'assassinio di Carlo alle 17 e 27 del 20 luglio, gli scempi del 21 luglio, la macelleria messicana alla Diaz, le torture di Bolzaneto.
Noi lo abbiamo fatto con un dvd che raccoglie prevalentemente la documentazione per i fatti di piazza Alimonda. Un reparto di un'ottantina di carabinieri compie una manovra insensata e ingiustificata (l'attacco di fianco al corteo autorizzato delle tute bianche, sottoposto a cariche altrettanto ingiustificate da oltre due ore), che si conclude dopo meno di un minuto con una fuga precipitosa, un invito vero e proprio ai manifestanti a corrergli dietro. Una jeep si appoggia inspiegabilmente a un cassonetto in mezzo alla strada. A poche decine di metri ci sono ottanta carabinieri e un centinaio di poliziotti. Nessuno interviene. Sulla camionetta uno degli occupanti estrae la pistola, mette il colpo in canna e minaccia di uccidere. Un manifestante lancia un estintore (poco prima, durante la fuga, i carabinieri ne portano almeno un paio) verso la camionetta. L'estintore non colpisce gli occupanti (difficile che possa entrare nella jeep, date le dimensioni del finestrino posteriore), ma cade sulla gomma di scorta e rotola per terra ad oltre quattro metri di distanza. Carlo è arrivato tra gli ultimi nei pressi della camionetta. Ha visto la scena, udito le minacce. Raccoglie l'estintore e cerca di lanciarlo per disarmare chi minaccia. Legittima difesa. La pistola esplode due colpi in rapida successione, ad altezza d'uomo (si vede con precisione la posizione orizzontale della pistola mentre spara). Il primo attinge Carlo sotto l'occhio sinistro. Il presunto sparatore dichiara più volte di non avere visto Carlo. Legittima difesa? Nessun dubbio per il magistrato e per il gip, che si avvalgono anche dell'imbroglio allestito dai consulenti: sparo per aria e sasso che devia verso il basso il proiettile, tragica fatalità.
Recentemente la segreteria legale che assiste gli avvocati del Genoa Legal Forum ha prodotto un dvd che dimostra come gli attacchi al corteo autorizzato delle tute bianche in via Tolemaide fossero una scelta precisa, frutto di quella strategia politica, appunto, di cui parlò D'Alema.
Non solo. Appare evidente come le azioni del cosiddetto blocco nero lascino indifferenti e inattivi i vari reparti, mentre le violente azioni repressive vengono dirette contro i gruppi pacifisti e inoffensivi. In piazza Manin si assiste al pestaggio degli attivisti della Rete Lilliput, mentre dai centri direzionali arrivano via radio ai responsabili di piazza gli inviti a «fare dei fermati», o addirittura a «fare dei prigionieri». Un'anticipazione del tenore che ispira molte comunicazioni telefoniche e radio di quelle giornate fra i vari appartenenti ai reparti operativi. Fino a quell'indegno «uno a zero per noi» di cui parla al telefono, con un collega, la poliziotta al centralino della questura.
Dopo la nomina a capo della polizia, in un'intervista rilasciata a un quotidiano genovese, Manganelli ha annunciato interventi per ristabilire comportamenti accettabili. Benissimo. Ma preoccupa il chiarimento che ha accompagnato quell'affermazione: «Lavorerò nel solco tracciato da Gianni De Gennaro». Non pare proprio l'auspicio migliore. Il sabato 21 luglio, l'ex capo della polizia inviò a Genova il suo vice di allora, che giunse in città nel pomeriggio ed esautorò tutto lo staff preesistente, compreso il questore di allora, assumendo il comando esclusivo delle operazioni. A quell'ora i manifestanti stavano rientrando a casa e la cosa significativa che accade in tarda serata è proprio la macelleria messicana alla Diaz.
Occorre sottolineare anche un altro intreccio pericoloso per la stessa democrazia, quello tra potere e informazione. Ne offrono un esempio le notizie e i commenti che la televisione diede di quelle giornate: sarebbe troppo sbrigativo attribuirli alla fretta o alle incertezze. Dalle teche della Rai è possibile estrarne un florilegio. Vediamoli.
Erano trascorse da qualche secondo le ore 20 del 20 luglio 2001, più di due ore e mezza dall'omicidio, quindi. Le infermiere del Genoa Social Forum e i medici del 118 avevano già constatato da più di due ore il foro d'ingresso del proiettile sotto l'occhio sinistro di Carlo, ma al Tg1 riferivano ancora di pietre lanciate dai manifestanti e di investimenti da parte di una camionetta (gli investimenti ci sono stati, sottovalutati nel corso della perizia autoptica, ma non costituiscono la causa principale della morte). Eppure lo stesso Tg1, nell'edizione delle 18, aveva mandato in onda la precisa dichiarazione di un ragazzo: «Gli hanno sparato, non so se con un lanciarazzi o con un proiettile, è stato colpito qua (e si tocca l'occhio), io ero a cinque metri, potevano colpire anche me». Sull'immagine del ragazzo e sulle sue dichiarazioni il Tg3 delle 19 aveva addirittura aperto il servizio di Riccardo Chartroux. Ma l'ammiraglia dell'informazione pubblica ha ben presente chi comanda adesso, chi si deve servire. E poi, che diamine, come si fa a considerare affidabile un ragazzo che si è arrogato il diritto di dimostrare contro il G8 e tanto sfacciato da portare addirittura un cappuccio, vistosi occhiali da sub alzati sulla fronte, al collo qualcosa che assomiglia a una kefia! No, le veline del potere e degli apparati debbono prevalere. Puntualmente, nello stesso Tg1 delle 20, Antonio Caprarica ne cita una: «Le rappresentanze delle forze di polizia respingono come una provocazione la tesi del colpo di pistola». D'altra parte ci aveva provato anche il vicequestore Adriano Lauro a negare l'evidenza. Recentemente promosso, fra i tanti, Lauro dirigeva il contingente dei carabinieri che operava in piazza Alimonda ed è responsabile dell'assurda e ingiustificata manovra del reparto che portò all'omicidio di Carlo.
Quando nella piazza arriva la telecamera, si esibisce in un goffo inseguimento dell'unico manifestante presente, accusandolo di aver ucciso Carlo «con il tuo sasso». Una vera e propria pièce cinematografica che ha anche l'obiettivo di coprire uno degli atti più vergognosi e indegni di quelle giornate: un carabiniere aveva spaccato con una pietrata la fronte di Carlo, che ora giace lì, al centro della piazza.
Torniamo alla tv. Nel telegiornale, con il solito artificio dubitativo, lo stesso Caprarica iscrive d'ufficio Carlo ai black bloc («... era spagnolo, appartenente, sembra, alle frange estreme del movimento...»). Poi, in diretta da una delle sale di Palazzo Doria-Spinola, sede della prefettura, dà notizia così del disagio dei cittadini genovesi: «... lo spettacolo che Genova presentava in questi giorni era strabiliante, e andando un po' in giro per il centro, parlando con i residenti, quei pochi che sono rimasti nelle loro case, si avvertiva un senso di frustrazione, di rabbia, insomma ce l'avevano con i manifestanti perché capivano che queste iniziative non pacifiche, violente impedivano alla città di godere di quel palcoscenico internazionale per il quale si era preparata in tutti questi anni». Al palcoscenico casereccio appartenevano senz'altro i limoni finti, le facciate delle case di cartapesta, la litania sulle mutande stese, cioè le questioni che avevano costituito il principale impegno del presidente del consiglio di allora. Facevano parte della scenografia anche le inferriate alte cinque metri con le quali era stato ingabbiato tutto il centro storico di Genova. Il fatto che rendessero assai difficoltoso, quando non addirittura impossibile, il transito ai residenti non era notizia significativa.
Fra gli ospiti di un Porta a porta allestito per la bisogna, Bruno Vespa aveva invitato anche Gianfranco Fini, l'allora vicepresidente del consiglio. Nella giornata Fini era stato presente in tutti i luoghi nei quali si dirigeva il disordine pubblico, in particolare al Forte San Giuliano, sede del comando provinciale e regionale dell'arma dei carabinieri e centrale operativa, dove era accompagnato da un nugolo di parlamentari del suo partito e della maggioranza. Fra questi Filippo Ascierto, deputato di un collegio padovano, maresciallo dei carabinieri e responsabile di An per la sicurezza (di questo signore vale la pena di ricordare che ospitava sul suo sito internet un testo che confutava le camere a gas e attribuiva la morte di alcuni ebrei a un errore di dosaggio nello spargimento di antiparassitari). Fini non ha dubbi. Il tempo di pronunciare le solite parole di circostanza sulla perdita di una giovane vita, poi dètta la sentenza: «Gli occupanti della camionetta erano sottoposti a linciaggio, la legittima difesa è prevista dal nostro ordinamento». Sullo schermo dello studio è quasi sempre presente la fotografia delle Reuters che, scattata con un potente teleobiettivo, ha ingannato tutti sulla effettiva distanza di Carlo dalla camionetta, esasperando così la pericolosità del suo gesto difensivo. Osservando la fotografia, Fini interrompe Vespa e gli suggerisce un'allucinante precisazione: «Più che un estintore sembra una bombola di gas!». Al che Vespa, col cappello in mano, aggiunge: «Sì, verosimile!».
Per fare informazione ci vuole dignità. Un esempio lo offre, con il suo editoriale sull'Unità del 21 luglio, Furio Colombo: «C'è un ragazzo ucciso in maniera sudamericana, colpito e poi investito da una jeep. Persino se la tragedia è stata causata da panico e da perdita di controllo il fatto rimane gravissimo... Alla tragedia della giovane vita perduta in modo così barbaro, ai feriti, alle distruzioni si aggiunge l'umiliazione di vivere in un paese allo sbando dove manca la capacità di prevedere e di intervenire senza violare regole di civiltà».