Forse il sesto anno ci porterà qualcosa di buono, se non proprio tutta la giustizia necessaria, giusta e legittima: almeno ci sono parole pesanti scritte, indagini che iniziano a puntare in direzioni che sembravano impossibili, qualche scalfitura nel muro di silenzio e omertà. A sei anni dal G8 di Genova, proprio ieri, proprio nella settimana che precede i "giorni di Genova" così come ormai si dice nel lessico familiare coniato per la vicenda, l'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro è stato ascoltato a Palazzo di giustizia del capoluogo ligure per essere interrogato dai pm che lo indagano per concorso in falsa testimonianza insieme all'allora questore di Genova Francesco Colucci, il 21 luglio 2001 quando la polizia fece irruzione a tarda notte nella a scuola Diaz. L'ipotesi d'accusa degli inquirenti genovesi fa riferimento alla presunta induzione a far rendere falsa testimonianza all'ex questore, a sua volta indagato di falsa testimonianza per le dichiarazioni rese come teste dell'accusa il 3 maggio scorso al processo per i fatti avvenuti durante i G8. C'è una telefonata, che De Gennaro non ha ascoltato nell'udienza di ieri, intercettata dai carabinieri in quei giorni tra l'ex questore ed un alto funzionario della Polizia indagato per un'altra vicenda penale. In quella conversazione, Colucci ammette: «Il capo dice che sarebbe meglio raccontare una storia diversa».
Il "capo" è Gianni De Gennaro, oggi fresco di nomina alla guida del gabinetto del ministero dell'Interno. Secondo i procuratori, De Gennaro avrebbe "suggerito" al suo collaboratore di fornire ai giudici una versione meno scomoda sui fatti accaduti a Genova. E Colucci sembra abbia obbedito. De Gennaro, al termine dell'interrogatorio di ieri durato tre ore ha respinto ogni accusa. Il procuratore aggiunto Mario Morisani, unico ad aver rilasciato dichiarazioni alla stampa accorsa ha detto: «De Gennaro ha dichiarato di non aver invitato in nessun modo l'ex questore di Genova Francesco Colucci a rendere false dichiarazioni».
Fin qui la cronaca, punteggiata nelle scorse settimane dalla pubblicazione dei violenti scambi telefonici tra una poliziotta e un collega, nel corso dei quali la donna si rallegrava dell'uccisione di Carlo Giuliani, stilando una raccapricciante classifica tipica della brutalità da branco di certe tifoserie calcistiche, tipo "meno uno palla al centro", che spesso circolano nella speculare logica delinquenziale riferita alle forze dell'ordine, le teste da spaccare dei caramba e via così macellando.
Il punto è che qui, nonostante suoni stancamente retorico dirlo, le omissioni, i repentini cambiamenti di scenario, la sottrazione di verità che hanno l'unico gravissimo risultato di infangare il lavoro onesto di migliaia di donne e uomini della polizia, non vengono da piccoli o grandi delinquenti comuni, ma da persone che vestono la divisa, e persino da persone che si trovavano, e si trovano ancora, ai vertici delle forze dell'ordine. Per questo, per non mettere a rischio il senso stesso del fondamento della fiducia in chi collabora allo sviluppo della democrazia in questo paese, polizia compresa, si deve continuare a insistere sull'imperativa necessità di verità, chiarezza e giustizia su tutto, proprio tutto quello che accadde a Genova sei anni fa.
Si contano sulle dita di due mani i fatti storici recenti che sono stati raccontati, filmati, analizzati così tanto come lo sono stati gli avvenimenti del 2001, con l'attenzione, la cura e il desiderio urgente che la memoria privata e collettiva ne serbasse traccia, per chi c'era e per chi no, ma è importante che sappia, e non dimentichi. Si tratta di un fenomeno importante, nuovo e decisivo, per la creazione di un linguaggio e di una narrazione collettiva alternativa a quella dominante.
Sotto questo aspetto quella memoria registrata, annotata e narrata degli eventi prima, durante e dopo il luglio 2001 costituiscono una sorta di prova generale della capacità delle persone singole e dei gruppi di contrastare l'oblio prodotto dalla inesorabile macchina globale dell'informazione, che di continuo e aggressivamente immette miliardi di dati dai nostri pc, televisioni, radio fino ai nostri sensi, rischiando l'overdose veloce e acritica che nulla sedimenta.
Quello che accade ogni anno, di questi tempi, è un fenomeno di certo simile a quello che succede a New York l'11 settembre, o nella stessa data a Santiago del Cile, e in altri luoghi segnati da forti emozioni collettive: centinaia di migliaia di persone è come se si mettessero in rete, chi silenziosamente e in solitaria e chi in gruppo, per condividere lo stesso pensiero e stato d'animo. Chiamarla sindrome di Genova suona male, quasi fosse una malattia: credo assomigli più ad una melanconia, un se pur fugace, (a seconda dell'intensità dell'esperienza vissuta) tornare indietro nel tempo, a quei giorni, e a che cosa hanno significato. Un tributo specifico di questi giorni, accanto al lavoro instancabile di tanti gruppi che dal 2001 non si sono mai fermati nel cercare verità e giustizia, un ricordare a chi c'era che essere lì ha cambiato qualcosa nella propria esistenza, e a chi non c'era fa tornare forte il bisogno di fare domande. In un riprodursi, ogni volta, di quella morsa allo stomaco che credevi si potesse spegnere con il tempo, e invece non se ne va, come stenta a tornare indifferente il rumore degli elicotteri sulla testa, che sei anni fa per oltre un'ora stazionarono sulla Diaz. Respingere le accuse non servirà a Gianni De Gennaro a cancellare responsabilità, sue e di altri, nell'avere causato lutto, dolore e un pericoloso indolenzimento della fiducia verso chi, per scelta e compito, deve dare l'esempio e incarnare trasparenza, onestà e integrità. Forse, dopo sei anni, qualcosa si muove comunque.