La foto, riflessa sul vetro, ha come smarrito i contorni, i capelli scuri della ragazza sfumati via, confusi ai colori della stazione là fuori. Soltanto il rosso del sangue che le copre il volto è intatto, dal cremisi al porpora, a seconda dell'intensità di ciò che, là fuori, fa da sfondo alle sue ferite. Il libro lo avevo appoggiato sul sedile accanto al finestrino, aperto sulla pagina che stavo guardando prima di salire, seduto su una panchina del binario due. Mi sono chinato, l'ho chiuso, e ho incominciato il mio solito rito. Ogni volta che salgo in treno non so mai cosa scegliere, se sedermi in direzione di marcia o in quella opposta. A differenza di molti, per me è uguale. Poi però, due volte su tre, scelgo l'opposta. Forse, anziché andare con gli occhi incontro al paesaggio, preferisco esserne colto all'improvviso. Aggredito a volte. Trattenerlo nello sguardo quanto posso, tirando il collo oppure sbattendo la fronte sul finestrino, e passare subito alla sequenza, alla sorpresa successiva. Appena salito, ho appoggiato il libro, aperto, sul sedile, ho piazzato il trolley - leggero, questa volta al suo posto su in alto, lo zaino col computer temporaneamente fra i piedi, sfilato di dosso il cappotto. E qualcuno deve proprio averlo notato, il gesto di questo qui - me - in piedi in mezzo al corridoio, al momento di dover appendere il cappotto, il mio solito slittamento, quel gesto incerto, le braccia che accennano verso una direzione e poi, movimento impercettibile, vanno nell'altra. Dentro a quell'ingradualità lieve, notata da chissà chi, ho appeso il cappotto alla mia sinistra, con il treno già in moto verso quella direzione a cui io, da quel momento, prendendo posto - lo zaino fra i piedi, il libro con le foto di Magdalena in mano - ho dato le spalle. E ho guardato fuori. Subito. Ma poco fa, arrivando a Genova, le gallerie lunghe, buie dietro al finestrino nero - e la fronte salva, stavolta, il cappotto appeso al gancio, quasi un cuscino - mi hanno fatto da specchio, non da panorama. Subito, avrei dovuto vedere allora il mio di viso, specchiato sul vetro, e non quello di Magdalena, invece, mentre racconta di nuovo tutto con precisione, ravviandosi di tanto in tanto i capelli rasta dietro le spalle, ricresciuti attorno alle cicatrici. Mi sono chiesto a lungo quali sarebbero state le immagini, quali i ricordi che mi avrebbero sorpreso arrivando qui, anni dopo. Avrei potuto fare una lista infinita, forse anche azzardare una successione, delle probabilità. Ma poi la mente va per conto suo. Sempre. Così ho guardato fuori dal finestrino, poco fa, nel tunnel, e non ho dovuto nemmeno tirare il collo perché Magdalena non stava dentro a nessun paesaggio là fuori, buio o meno che fosse. Magdalena, che anche adesso, dentro a questa stanza al nono piano di un hotel di Genova, sta nel mio, di paesaggio, che ha fatto proprie quelle immagini, ripetute, nel tempo, con la cadenza di una soap-opera replicata di continuo. Il dvd dell'intervista sempre dentro al lettore, la conosco a memoria, ormai, un'ossessione che avrebbe potuto essere puramente virtuale e che scatena invece, ogni volta, un realissimo album dei ricordi. Play e, puntuale, riparte il mio film di Genova, e poi la storia di quella notte. Raccontata da lei, immaginata da me. Al buio di questa stanza d'albergo, adesso, e di quella lunga galleria, ore fa, Magdalena ha incominciato il suo racconto, come al solito. Sempre lo stesso. Arriva precisa, ma mai puntuale, da qualche anno a questa parte, Magdalena. Cadenze scandite da un immaginario, il mio, sprovvisto di timer. Arriva e mi racconta di come quella notte sia stata scaraventata a terra nonostante tenesse le mani alzate, di come quei dieci, dodici, quindici ma quanti, quanti erano gli uomini in divisa che quella notte la circondavano e che hanno preso a calci la sua schiena, il suo stomaco, le sue gambe? Loro, però, non li vedo mai, su questo strano schermo. Potrei immaginarli, non fosse inimmaginabile quel che hanno fatto. Risentirli, quello sì. Potrei approssimarli fin quasi al dettaglio, i suoni di quella notte. Perché li ho sentiti i suoni di quella notte, dentro a quella scuola. Distorti ma comprensibili. Per questo ignoro il play dell'audio e immagino ancora Magdalena, invece, che parla con la sua voce senza tono, come capita sempre, credo, quando ti tocca raccontare l'inverosimile. Con quella voce, come se in un ipotetico equalizzatore vocale le fossero stati ridotti gli alti, o amplificati i bassi, Magdalena racconta di come sia stata sorpresa nel sonno, svegliata di soprassalto da un botto, una specie di esplosione però ovattata che arrivava dal piano di sotto e poi le urla dei poliziotti, urla di minaccia, mica di paura e li ha sentiti salire le scale, di corsa, calpestando chi stava ancora dormendo o spostandoli a calci dal loro percorso e li ha guardati venire verso di sé, anche se alcuni si fermavano via via, a occuparsi di altri che, come lei, erano stati svegliati di soprassalto e avevano alzato le mani, e non era un incubo, quello. No. Avanzavano irriconoscibili dentro ai loro caschi blu. Avanzavano, deviavano e restavano comunque tanti a venire verso di lei. Troppi. Verso di lei, verso chiunque, ragazzo o ragazza, uomo o donna, giovane o vecchio e nemmeno il tempo di dire nulla, di chiedere perché. Neanche un grido. Niente. Si rannicchiò, Magdalena. Ritorni feto quando cerchi di proteggerti. Ritorni nel grembo, l'unico vero riparo della tua vita. Ai piedi di quegli uomini in divisa Magdalena tirò su le mani, ma non in segno di resa, questa volta, né per dire basta. Arrendersi perché, dire basta per che cosa, poi. Le tirò su d'istinto, le mani, a riparare la testa dai calci, dalle manganellate che venivano giù dritte, da ogni lato, impossibile anticipare nulla, prevedere niente, mani in alto e basta, e quelli il bersaglio lo beccavano sempre, ché anche le mani e le braccia sono di carne, di ossa, meno fragili del cranio, ma fanno un male cane pure lì le manganellate, i calci. Un calcio. Uno solo, fra tutti. Non più potente. No. Più preciso. Secco. Una punizione da quaranta metri. Inutile mettere le dita a far da barriera. Scrock. Questo - immaginatevelo - il rumore. La punta rinforzata dell'anfibio addosso alle costole di Magdalena. Fracassate. Una fitta atroce e le braccia giù, adesso. D'istinto, a proteggere il cuore da quel dolore. E gli altri su, allora, a mirare di nuovo alla testa, gli uomini in divisa. Manganellate e calci e insulti e risa. Ogni gamma possibile del dolore. Tutti i picchi possibili di sofferenza, quella notte, per Magdalena. Racconta senza dare nemmeno un'occhiata all'obiettivo. Guarda con intensità verso il basso, in diagonale. Come se nell'angolo della sua stanza di Amburgo la stessero riproiettando adesso la sequenza di quella notte, e lo stesse vedendo solo ora tutto quel sangue che le colava in faccia dalla testa squarciata. Nessuna traccia di rosso, invece, prima, dentro al buio del finestrino, né qui, dentro la stanza 914, la luce spenta. Ma la sua faccia piena di sangue, l'ho appena rivista nel libro, una foto scattata mentre la portavano fuori dalla scuola. La bocca piegata in quello che credevo un lamento. E forse l'ho sentito sul serio, il suo lamento, quella notte. Ammesso che riuscisse a lamentarsi, perché il volto nella foto è quello di una ragazza incosciente, con la testa fracassata e i polmoni sfondati dalle costole spaccate a calci. Poi ce n'è un'altra di foto, presa da dietro, si vede la testa, centrata dal flash del fotografo, e lo squarcio, giusto in mezzo all'inquadratura, dove i suoi capelli rasta si dividono. Il sangue fa di un blu ancora più scuro la borsa blu della Puma che le hanno messo come cuscino. Si vede la faccia trafelata dell'infermiere di mezza età. Preoccupato. Nelle due foto Magdalena è stesa sulla barella. Non come prima, riversa a terra, gli anfibi degli uomini in divisa davanti agli occhi. Avanti e indietro, come i piedi dei calciatori. Tiri di destro. Di sinistro. Il suo corpo come un pallone. Un destro al ginocchio, stum. Un sinistro alla testa, stum. Un rigore dritto in faccia, stum. E quella punizione al petto, tremenda, crack. Poi, finito il gioco, le loro mani, i loro guanti fra i capelli rasta. Come fossero briglie. Magdalena tirata su, di peso. Scaraventata contro il muro. Trascinata giù per le scale. A corpo morto. E lei, lucida, le mani davanti ai denti, al viso, e quel suo macabro conto alla rovescia. Conta i gradini, tum, tum, tum, una botta a ogni gradino quanti ancora? - e ogni gradino un colpo. Al collo, ai gomiti, al petto - ancora - alle ginocchia. Un dolore unico. Il suo corpo è come un gemito assoluto, un pennello intinto di rosso che lascia dietro sé le macchioline che io vedrò la mattina dopo, che riprenderò con la videocamera senza sapere che era il suo sangue. Tracce del suo passaggio, espurgo di quel gemito. Tum, tum, tum, altri gradini - ma quanti ne mancano? - altre botte, altre macchioline rosse a scandire il percorso verso l'arrivo, tum, tum, tum, prima del colpo finale. Improvviso, veloce, devastante. Sulla testa. Stock. Dissolvenza a nero. Black.