Visto dall'alto, dal quartiere Albaro, a metà del pomeriggio di sabato 21 luglio, corso Italia sembra il Cile. Gruppi di donne, di anziani, di uomini pacifici che camminano lentamente, le mani alzate sopra la testa in mezzo alla carreggiata, sgomenti, feriti, impauriti, mentre agli angoli delle strade i grupponi di poliziotti armati chiudono loro la via di fuga, minacciosi nelle loro tenute nere da lanzichenecchi futuristi. Ai lati, le file di prigionieri allineati con la faccia al muro, pesti, sanguinanti, minacciati e derisi. Erano arrivati a Genova la mattina col proprio gruppo di volontariato o col proprio centro sociale, con il pullman della parrocchia o con quello del Comitato contro la guerra, ora se ne stavano lì, come prigionieri di guerra, qualcuno seduto sul marciapiedi nel sangue, tra gli insulti degli uomini in divisa, senza soccorsi, altri alla ricerca di una moglie, di un figlio, di un amico... Quando me ne venni via, verso sera, non sapevo ancora delle torture a Bolzaneto, degli aguzzini che inneggiando al Duce spezzavano teste e dita. E non era ancora avvenuta la macelleria della Diaz. Le stesse notizie sulla morte di Carlo Giuliani erano ancora nebulose. Ma continuavo a ripetermi che quella non poteva essere Europa. Non XXI secolo. Forse America Latina, nell'epoca dei golpe. O l'Asia dei dispotismi. Ma non un paese con una Costituzione e una storia democratica. Immaginavo allora - ingenuo che se un giorno un governo non dico «amico» ma semplicemente «civile» avesse potuto sostituire quella banda di avventurieri che guidava il paese, il primo gesto politico che non avrebbe potuto non fare sarebbe stato quello di presentarsi in pubblico e dichiarare formalmente che la polizia vista in opera a Genova nel luglio del 2001 era incompatibile con la nostra democrazia. Che ciò che era avvenuto nei giorni del G8 non era accettabile né scusabile. E che gli autori di quel salto indietro nel nostro peggiore passato avrebbero pagato, dal primo all'ultimo, incominciando dai più alti in grado. Non avrei mai immaginato di vedere invece il principale responsabile (quantomeno per ufficio) di quello strappo violento alla «legalità repubblicana», il Capo della Polizia, promosso ai più alti livelli del Ministero degli Interni. L'omertà politica e amministrativa dei vertici dello Stato (Prodi o Amato hanno mai nominato Genova, anche solo per «deplorare»?). L'assoluzione morale offerta ai colpevoli da un ceto di governo indifferente o complice.
Dalla Diaz alle Twin Towers
Poi, neanche due mesi più tardi, l'11 settembre. Il passaggio a una nuova storia. A una nuova globalizzazione. A una nuova forma della politica. Tutte all'insegna della guerra. Era la conferma, sconvolgente, delle ragioni profonde del «popolo di Genova». Di quanto grande fosse la carica di distruzione e di odio accumulatasi nel mondo governato da quegli otto cosiddetti «Grandi» contro cui si manifestava. Di quale potenziale di violenza si concentrasse nella «zona rossa», sotto la superficie patinata della mondanità e dello spettacolo, in quella parte di città separata dal resto della società da barriere d'acciaio, popolata di armati e agenti speciali, asettica e pericolosa, come pericoloso era il mondo che i protagonisti del summit stavano preparando con arrogante superficialità. A sei anni di distanza possiamo ben dirlo, perché li abbiamo trovati, pressoché tutti, quei manichini e quelle facce ingessate del potere, chi con maggiore chi con minore responsabilità diretta, all'origine delle peggiori avventure belliche, dall'Afghanistan all'Iraq alla Palestina alla Somalia, a lavorare con tenacia a questo devastante nuovo «disordine mondiale». Catalizzatori della violenza altrui e protagonisti attivi della propria, alimentando lo scontro di civiltà. Gettando benzina sul fuoco di tutti i peggiori fondamentalismi. Portando le loro sfide muscolari con un nemico invisibile e pervasivo nel cuore delle nostre metropoli, rendendo la vita di tutti più insicura per potersi ergere a tutori della nostra sicurezza... Senza compiere, d'altra parte, il minimo gesto per fermare la corsa folle verso l'abisso ambientale e la diseguaglianza globale. Oggi quel grido di allarme disperato, lanciato in un contesto in cui ancora il rumore delle armi non soffocava ogni discorso «civile», da quella folla disarmata, quando la soglia irreversibile delle «dichiarazioni di guerra» non era stata ancora varcata, e si poteva pensare che davvero, nonostante tutto, un «altro mondo fosse possibile» prima dell'irreparabile, appare come l'ultima voce della Ragione sacrificata sull'altare della Forza. E noi, ora? Spiace doverlo ammettere, ma dobbiamo ben dirlo: noi abbiamo perso. Il «popolo di Genova» chiamiamolo così - non c'è più. Quella straordinaria composizione polifonica ed eterodossa di gente e culture, che teneva insieme le generazioni e i linguaggi più diversi, i nuclei radicali della residua militanza novecentesca e i boy scout, i frati francescani e la Fiom di Claudio Sabattini, i centri sociali del nord est e la rete Lilliput, e tante tante persone «comuni», ognuno con la propria identità e con la propria comunanza, quella è andata dispersa. Ne sopravvive la componente militante, fortemente politicizzata e organizzata, importante nella testimonianza di una realtà non interamente ridotta al silenzio. Ma priva della pervasività e della capacità di fare discorso condiviso e di produrre senso comune - di abitare lo spazio sociale con stile egemonico - che aveva invece la moltitudine di Genova. Cosicché quello che allora fu chiamato il «movimento dei movimenti» per sottolinerne l'inedita multiformità, si trova a misurare una dura sconfitta. E non tanto per mancanza di efficacia nell'azione (lo si sapeva, fin dall'inizio, di lavorare a lunga scadenza, senza illusioni sul successo immediato). Ma perché non è riuscito a mantenersi in vita. Non ha saputo «conservarsi», proprio nel momento in cui più ci sarebbe bisogno della sua voce nel deserto di coscienze e di idee che caratterizza il villaggio globale.
Crisi profonda
Le ragioni della sconfitta sono varie. La prima è stata sicuramente la totale chiusura della «politica» alle ragioni di quel nuovo soggetto che usciva da tutti i suoi canoni. L'impermeabilità assoluta dei livelli istituzionali, del «ceto» che li abita (di governo e di opposizione), dei suoi modelli di comportamento e di organizzazione, dei suoi stessi linguaggi, alle istanze che provenivano «dal basso» e «dal di fuori». Tutt'al più, nel migliore dei casi, dichiarazioni formali di disponibilità, nel peggiore offensivo disprezzo e arrogante derisione. Non un millimetro della pelle corazzata del decrepito Leviatano ne è sembrato segnato. Non una riga della cosiddetta «agenda politica» ne è stata nei fatti influenzata. Non un nervo, sulle facce impassibili dei leader, ha dato un segno di messaggio ricevuto. Nemmeno le sconvolgenti verità emerse nelle sedi processuali in quella per la morte di Carlo, in primo luogo -, nemmeno l'ascolto delle oscene conversazioni tra gli aguzzini, ha penetrato quella corazza. Come già nei casi delle peggiori trame italiane anche qui tutto è stato detto in pubblico, e nulla è accaduto. Ogni aspetto del crimine è stato svelato, e nessuno ha pagato. Di questo non muore solo la partecipazione. Si estingue la democrazia. Una seconda ragione della sconfitta è invece «interiore», per così dire. Riguarda l'incapacità di quel movimento di darsi una «vita civile». Di coltivare le proprie differenze interne come un bene prezioso, incominciando dal rispetto reciproco tra i propri componenti. Di «governare» la propria composizione plurale consapevoli che, se si vuole costruire «un mondo con dentro tanti mondi» - che è poi il problema cruciale della politica oggi - bisogna incominciare da sé. Imparare a parlarsi, tra i tanti «noi», per imparare a parlare a tutti, ai persuasi ma anche ai perplessi, a quelli che sono già convinti ma anche a quelli che lo potranno essere. Invece, praticamente da subito dopo Genova, la vecchia politica che ha fallito è tornata a prevalere: quella che punta a unire i simili anziché mettere insieme i diversi, a organizzare in piccoli contenitori blindati ciò che è omogeneo anziché far stare insieme ciò che è differente. E che si concentra sull'«avanguardia», tanto gli altri, come l'intendenza napoleonica, seguiranno. Infine, su tutte, una terza ragione di sconfitta, grande come il vuoto che si sta allargando: la persistente subalternità psicologica e pratica al quadro politico e di potere tradizionale. L'assunzione della sua centralità sia nell'illusione di poterne condizionare l'azione con una sorta di delega o di pressione, sia nell'assolutizzazione della sua contestazione da «competitori sullo stesso piano», come se fosse possibile al suo interno una alternativa. E in entrambi i casi la rinuncia a fare da sé. E a pensarsi come un «altro» radicale rispetto a esso. Come l'embrione di una politica che ne stia totalmente «al di là». Di questo bisognerà ben tornare a parlarne, almeno tra noi che abbiamo visto Genova.