I "nostri" ragazzi, cittadini in divisa, spediti nei teatri delle guerre umanitarie, sono oggetto di indicibile retorica da parte della politica e del suo circo mediatico. Pensiamo a certe dirette strappacuore sulle reti ammiraglie del duopolio. Ricordiamo le mani apposte sulle bare da presidenti della Repubblica che le attendono affranti a Ciampino. Poi capita che muoiano di cancri e leucemie indotte dall'uranio impoverito. E allora addio tutto: niente mani apposte di inquilini del Quirinale, niente prima serata, niente retorica ministeriale. Ma, soprattutto, niente causa di servizio, nessun indennizzo, nessun diritto.
La Uil di Bari s'è appena vista archiviare, per la seconda volta, l'indagine sul mancato rispetto delle normative antinfortunistiche nelle missioni di "pace". La vedova del capitano Caruso, 18 mesi di Somalia, due elogi, due encomi e una medaglia, s'è vista respingere l'istanza di riconoscimento della causa di servizio, dopo undici anni, undici. Due episodi, a distanza di pochi giorni, che compromettono le speranze suscitate dalla sentenza fiorentina che, il 17 dicembre scorso, riconosceva i diritti di un caporale dei parà senza porsi nel vicolo cieco del nesso di causalità ma puntando sul semplice principio di precauzione.
Bari: sette giorni fa, il gip ha accolto la seconda richiesta di archiviazione dopo che, nell'aprile 2007, un'altra gip aveva invitato la procura a verificare il rispetto della normativa antinfortunistica in relazione a casi di leucemie e tumori contratti da numerosi - forse 2mila militari - che hanno operato nella guerra dei Balcani tra il '93 e il '99. Anche stavolta la procura non ha colto il nesso di causalità tra l'uranio impoverito, contenuto in razzi e proiettili sparati nell'area dalle truppe Nato, e l'insorgenza delle malattie. Vi sarebbe, in sintesi, la «insussistenza di fattispecie colpose sotto il profilo della omissione della comunicazione e della precauzione» da parte della Difesa. Il magistrato basa la sua conclusione sul fatto che «il primo avvertimento sulla pericolosità dell'uranio da parte del Pentagono e' del luglio '99» e «la prima direttiva del governo italiano del dicembre '99». Ma c'è di più: la sentenza di archiviazione getta dei dubbi anche sull'utilità di adottare misure di protezione quando afferma che «indipendentemente dalla condotta dell'uomo l'evento, malattia o morte, si sarebbe con apprezzabile probabilità verificato ugualmente».
Sentenza «degna di un Azzeccagarbugli», commenta Antonio Camuso dell'Osservatorio sui Balcani: «Una pietra tombale sul desiderio di giustizai dei familiari dei militari morti e dei soldati ammalati». Non volendo, la sentenza di Bari contiene una novità, che la Nato comunicò nel luglio 99 (anno in cui si venne a conoscere il primo caso in Italia, quello del caporale sardo Salvatore Vacca) alla Difesa i dati sulla pericolosità dell'uranio. Le misure di protezione da adottare erano semplici - tuta, maschera, guanti, occhiali - ma solo quattro mesi dopo questi dati vennero resi noti ai Comandi dipendenti. Firmato dal generale Ottogalli, un dispaccio dal titolo "Kossovo: provvedimenti cautelativi da adottare nell'area di impiego del contingente italiano" prescriveva la messa in atto di "tutte le misure cautelative per la protezione del personale militare dipendente e data la massima diffusione delle citate disposizioni". «Purtroppo erano passati 4 mesi nei quali nulla si è fatto per proteggere le persone», dice Falco Accame, dell'Anavafaf. Se reato c'è stato in quel ritardo, sarebbe comunque prescrivibile come si fa per le "normali" stragi sul lavoro, aggiunge Camuso.
Tra l'altro tra gli interessati c'erano anche i civili delle Ong e il personale di polizia, vigili del Fuoco, ecc.) oltre alle popolazioni civili che si pretendeva di liberare. Nelle suddette norme si legge: "Sia dardi (la punta dei proiettili ndr) sia i residui dei contenitori dovranno essere depositati in un contenitore metallico munito da coperchio da disporre in una zona custodita, appartata (possibilmente al chiuso) in maniera che il personale non possa avvicinarsi a meno di 5 metri". Difficile credere che, fin dalla Somalia, missione del '92, gli Usa non abbiano avvisato gli alleati italiani dei rischi del "metallo del disonore". Anche perché dalla fine del '95, mentre gli angloamericani concimavano il Kossovo con l'uranio impoverito, lo stato maggiore italiano decideva di dotarsi di una speciale unità Nbc (nucleare, batteriologica, chimica) capace di agire in territori contaminati. Si chiamerà 7° reggimento difesa Nbc Cremona.
Ci sarebbe da reistituire la commissione di inchiesta del Senato i cui lavori vennero brusacamente interrotti dalla fine del governo Prodi ma fece in tempo a stanziare 30 milioni di euro per i risarcimenti.
Nel caso del capitano Caruso la consueta mala-burocrazia si somma alle trascuratezze sopra indicate. L'ufficiale era reduce di Restore Hope. Nel '97 si ammalò di glioblastoma multiforme (un tumore al cervello) e il 28 aprile del '98 fece domanda per gli accertamenti sulla causa di servizio. «Appassionato e coraggioso comandante trascinava con esempio gli uomini guidandoli in combattimento nel corso delle operazioni del giugno '93 per il soccorso ai militari pakistani vittime di sanguinosi attentati», così recitava l'encomio solenne cui seguì la Croce di bronzo per l'opera di evacuazione all'ambasciata italiana di Mogadiscio. Morirà in "permanenza di servizio" e avrebbe avuto diritto immediato alla speciale elargizione prevista da una legge del '81. E avrebbe dovuto essere incluso nell'elenco delle vittime del dovere come recita una legge del 1980. Tutto ciò indipendentemente dal riconoscimento della causa di servizio. Ma con 11 anni di ritardo la vedova del capitano del Col Moschin s'è vista negare tutto, anche quello che è stato riconosciuto ad altre vedove.
In Somalia, i marines sembravano robocop a 40° all'ombra con tutte quelle protezioni. I "nostri" ragazzi operavano ignari in bermuda e maglietta. E a chi notava la differenza veniva spiegato che gli americani sono fanatici.