Cara Patrizia, ti chiedo perdono.
Tu non mi conosci, ma da una settimana io ti porto nei miei pensieri e nel mio abbraccio. Da quando ho ricevuto i primi messaggi che parlavano di Federico, vivo con questa angoscia in più. Non so se avrai la pazienza e la voglia di leggermi. Quando muore un figlio, qualsiasi figlio in qualsiasi modo, le parole si fanno pesanti come macigni: è faticoso pronunciarle, è faticoso ascoltarle. Spesso ci ballano in testa lasciandoci ogni volta più confuse e spossate. Quando è stato ucciso il mio, anch'io sono rimasta in silenzio, come te: per cercare di capire che cosa era successo, capire perché e come. Anch'io, come te, non credevo a quanto mi era stato raccontato: perché conoscevo il mio ragazzo, il suo carattere, il suo modo di reagire alle situazioni. Come su Federico, anche su Carlo moribondo qualcuno ha infierito, prendendolo a calci in faccia, spaccandogli la fronte con una pietrata. Come di Federico, anche di Carlo è stato detto che era un drogato, un poco di buono, uno senza lavoro, senza casa nè famiglia, come se esistesse una condanna legittima e automatica alla pena di morte per chi lo fosse davvero. Anche a me è stato impedito per molte, troppe ore, di vedere il suo corpo. Anch'io, come te, non so chi l'ha ucciso. Anch'io, come te, ho aspettato che persone competenti, preposte istituzionalmente a questo compito, restituissero alla sua morte almeno la verità; persone impegnate per legge, così io credevo, ad assolvere il loro compito fino in fondo. Non è stato facile reprimere il dolore, schiacciarlo, nasconderlo per recuperare la lucidità necessaria a rivedere e raccontare migliaia di volte la morte di mio figlio: mi spingevano la disperazione di non poter fare più nulla per lui, la coscienza di tutti gli altri figli e figlie per i quali era necessario e urgente fare qualcosa. Le violenze portate ai manifestanti da parte di interi settori delle forze dell'ordine, nel marzo napoletano e nel luglio genovese del 2001, e l'uccisione di Carlo, avevano mostrato, a mio giudizio, diversi livelli di volontà repressiva: uno internazionale, che si manifesterà dopo l'11 Settembre e il Patriot Act; uno nazionale, dichiarato dal Governo di centrodestra, deciso a "mostrare i muscoli" nei confronti di ogni forma di dissenso; e uno individuale, covato in molti anni di distratta democrazia all'interno di caserme, questure, corpi di Stato, luoghi di detenzione. Il capo della Polizia De Gennaro, nominato dal Governo di centrosinistra, è stato promosso sul campo (quello genovese, probabilmente grazie all'operazione Diaz, come ha già osservato qualcuno) dal Governo di centrodestra e ha confermato i propri indiscussi poteri di uomo al di sopra di ogni sospetto. Mentre le televisioni pubbliche e private continuano a sfornare commoventi telefilm su marescialli integerrimi, eroici commissari ed umili agenti votati alla missione in difesa del Cittadino, ragazzi dei centri sociali, migranti, tossicodipendenti, continuano a raccontare (quando ne hanno il coraggio) di minacce, soprusi, violenze subite; di busti mussoliniani e gagliardetti (abbiamo visto qualcosa di simile anche nella sala di comando dei Carabinieri, a Nassyria); di canzoncine e saluti fascisti. Nessuno intende fare di ogni erba un fascio, naturalmente, ma negare la realtà è pericoloso, pericoloso difendere a priori l'operato delle forze dell'ordine (come a Genova così a Napoli, a Milano, a Torino, a Venaus... ma la lista è più lunga); pericoloso assicurare l'impunità a qualsiasi divisa; voler chiudere gli occhi, le orecchie, la bocca, anche all'opinione pubblica; pericoloso manipolare l'informazione. Per la prima volta, dopo la morte di Federico, abbiamo sentito parlare di mele marce, solo per essere subito rassicurati che erano già state allontanate.
Non ho smesso un momento, negli ultimi quattro anni, di richiamare l'attenzione di tutte le persone che incontravo sul problema dell'immunità di agenti che si trovano in ogni situazione "dalla parte del manganello", armati. A lungo andare, chi si rende conto che non sarà mai chiamato a rispondere delle proprie azioni, assume l'atteggiamento arrogante che troppo spesso (e neanche in tutti i casi) abbiamo potuto e dovuto constatare; finisce per sentirsi onnipotente, soprattutto nei confronti di individui isolati, deboli o emarginati. A volte è sufficiente una parola irriverente, un gesto, per scatenare la reazione "punitiva" da parte di agenti che intendono il proprio ruolo in modo così distorto. I manganellatori di Genova mi hanno spesso ricordato il militare che ha ucciso Francesco Lorusso, nel '77 a Bologna. Ad un giornalista che gli chiedeva perché avesse sparato agli studenti: "Te lo posso dire - ha risposto - tanto so che non mi faranno niente: ridevano di noi".
Non ho smesso un momento: sono stati quattro anni di raccolta e diffusione di notizie, di interventi, di appelli. Il comitato Verità e Giustizia, insieme al comitato Piazza Carlo Giuliani e all'Arci, hanno raccolto più di diecimila firme in calce a una petizione che chiedeva, oltre ad un'inchiesta parlamentare sui fatti di Genova, di istituire un costante aggiornamento professionale indirizzato ad una formazione non violenta delle forze di polizia. Con le Reti-invisibili (http://www.reti-invisibili.net ) - che faticosamente raccolgono la memoria di tante morti "di piazza", e di stragi, rimaste senza responsabili - è stato recentemente rivolto un appello analogo all'Unione. Quattro anni di lavoro, ma non è bastato: altrimenti, forse, Federico sarebbe ancora vivo.
Per questo ti chiedo perdono.
La mamma di Carlo
Haidi Gaggio Giuliani
Note:
http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/