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Aldrovandi, il Viminale rimette la divisa ai quattro colpevoli. Ecco dove
Checchino Antonini e Elisa Corridoni
13 febbraio 2014

Sono tornati in servizio, uno alla frontiera con l'Austria, due in una nota città romantica del Nordest e l'ultimo nella città che subisce il maggior carico delle servitù militari Usa e Nato nel Veneto: il ministero dell'Interno giura che saranno in ufficio, senza compiti operativi, ma la sospensione di sei mesi era giusta e solo quella. Il governo delle larghe intese dà largamente per inteso che i quattro che ammazzarono un ragazzo di diciott'anni, Federico Aldrovandi, pestandolo senza ragione, come hanno appurato tre sentenze, mandando in frantumi due manganelli, ignorando le sue richieste d'aiuto, tra i rantoli, non hanno disonorato la divisa e dunque non meritano la destituzione. E' una rivendicazione. Possono insomma indossare la medesima divisa di chi svolge il proprio dovere cercando di essere fedele alla Costituzione.

Da un governo che largamente non intende rispettare la Costituzione - dentro e fuori i suoi confini - non c'è da aspettarsi nulla di meglio. Altrimenti non costruirebbe la retorica bugiarda sui due marò, non porterebbe la guerra in Afghanistan e in Val Susa, non ruberebbe vita, salario e diritti alla stragrande maggioranza della popolazione forte solo del consenso ottenuto con una legge elettorale truffaldina.

Le violazioni contestate, a sentire il ministro degli Interni, sono apparse riconducibili alla disciplina normativa, un Dpr del 1981, relativa ai casi di negligenza in servizio di particolare gravità e di comportamento non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell'amministrazione della pubblica sicurezza.

Dice proprio questo la risposta del ministro di Polizia all'interrogazione di un deputato grillino, Paolo Bernini, che ha chiesto di leggere gli atti (gli arriveranno fra un mese e dicono sia l'era di internet) con cui le commissione provinciali di disciplina (composti di funzionari delle questure di appartenenza e di rappresentanti sindacali della Polizia) hanno rimesso in circolazione quattro agenti che uccisero un ragazzo ferrarese disarmato che non stava commettendo alcun reato all'alba di una domenica di settembre del 2005. Un violentissimo e ancora misterioso controllo di polizia che la Cassazione ha detto fu compiuto da «schegge impazzite» ma che per la polizia di Stato e il suo ministro possono continuare a indossare una divisa.

Eppure il velo di Maya che celava le politiche autoritarie dei governi che si sono succeduti è stato squarciato più volte in questi giorni: un rapporto di una ong di medici per i diritti umani dice che i Cie sono una macchina sadica, inutile e costosa; una sentenza della Corte costituzionale, proprio ieri, ha detto che la legge sulle droghe è in larga parte incostituzionale; le denunce sulla malapolizia si moltiplicano e sono ormai decine i comitati che in tutta Italia si battono a fianco delle famiglie delle vittime per verità, giustizia e per un'amnistia sociale che cancelli i guai giudiziari di 18mila attivisti che le questure provano a incastrare con un utilizzo di classe del codice penale.
Tutto questo c'entra con Federico e c'entra con la manifestazione di sabato prossimo a Ferrara dal titolo "Via la divisa".

C'entra perché secondo le testimonianze è stata la cultura del securitarismo a scatenare quel violentissimo "controllo" di polizia. E la mania per la sicurezza serve a mascherare gli effetti della crisi sulle nostre vite. Chi pestò Aldro forse non credeva che quel ragazzo senza documenti (li aveva dimenticati a casa) fosse italiano. Chi cercò di insabbiare e depistare (ci sono processi in corso e già hanno prodotto condanne) provò ad archiviare il caso come la morte di un drogato in piena sintonia con l'ossessione proibizionista che ha congestionato le galere italiche e gonfiato i bilanci delle narcomafie.

Ecco perché la storia di Federico è anche la nostra e di chiunque lotta per liberare la vita dalla violenza della crisi e del liberismo. Ci vediamo sabato a Ferrara.