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Aldrovandi, gli agenti vorrebbero i domiciliari
Checchino Antonini
12 febbraio 2013

La difesa di Paolo Forlani, uno degli agenti ora in carcere perché condannati in via definitiva per l'uccisione di Federico Aldrovandi, ha presentato istanza al tribunale di Sorveglianza di Bologna per ottenere la detenzione domiciliare (ai sensi della legge 199 del 2010 che la consente per pene non superiori ai diciotto mesi). Chi difende Monica Segatto, l'unica donna tra i quattro agenti delle volanti che la notte del 25 settembre 2005 massacrarono di botte il diciottenne ferrarese, sta meditando se fare la stessa mossa. I legali di Luca Pollastri hanno deciso di ricorrere in Cassazione contro l'ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna che il 29 gennaio scorso aveva respinto la richiesta di misure alternative e disposto il carcere. La medesima richiesta di misure alternative era stata avanzata anche dal quarto, Enzo Pontani, ma è stata rinviata al 26 febbraio per un difetto di notifica.

I poliziotti condannati devono scontare sei mesi, cioè il residuo della condanna a tre anni e sei mesi per eccesso colposo nell'omicidio colposo del giovane, visto che tre anni sono coperti dall'indulto.

«Non riesce il tribunale a individuare qualsivoglia elemento di meritevolezza atto a sostenere la concessione e poi la corretta fruizione, ai fini rieducativi, dei benefici penitenziari». Sta dentro quattro fitte pagine l'ordinanza che, il 29 gennaio, ha respinto le istanze di affidamento in prova, di detenzione domiciliare o di semilibertà per i quattro agenti aprendo loro le porte del carcere per lo scampolo di pena.

L'ordinanza del tribunale, presieduto da Francesco Maisto, richiama le motivazioni delle sentenze - tutte concordi nel sottolineare la violenza esercitata dai quattro agenti delle volanti accorsi in via Ippodromo all'alba del 25 settembre del 2005: lo hanno percosso «anche quando il ragazzo ormai era a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche a calci) e con il peso del corpo... fino a provocarne in definitiva la morte». I quattro sono venuti meno al dovere di «interrogarsi sull'azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola». Hanno agito come un branco «anche se erano al corrente dei rischi per la salute derivanti dall'esercizio di una notevole, continuata e intensa forza».

Ecco perchè nemmeno sono state concesse loro le attenuanti: i loro difensori hanno ricordato che erano incensurati ma per il giudice è «una condizione doverosa» per chi fa un mestiere del genere. Non solo: «Pubblici ufficiali, privi di procedimenti disciplinari, sono infatti portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale, rispetto a un imputato comune, e avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni ordite dai superiori. Il non avere voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta fin dalle prime ore ... getta una luce negativa sulla personalità degli appellanti». Con buona pace dell'«onorevole stato di servizio» vantato dalle difese. Ma i quattro anche al processo «hanno omesso di fornire un contributo di verità, da reputarsi doveroso da parte di pubblici ufficiali». Invece no, loro hanno coperto i superiori che li coprivano! «Alla gravità della colpa - scrive ancora il Tribunale - si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l'assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e ostacoli all'accertamento della verità».

Inaffidabili, dunque, senza autocontrollo né capacità di gestire adeguatamente una situazione. Ecco perché, per i giudici «non è dato di individuare una positiva evoluzione della personalità dei soggetti» che non hanno nemmeno «provato a mostrare l'effettiva comprensione della vicenda delittuosa». E autocritica o gesti simbolici, in sintesi, nemmeno a parlarne.