E' stata colpa loro. Colpa di quattro agenti se Federico Aldrovandi è morto nel violentissimo e misterioso "controllo" di polizia messo in atto all'alba del 25 settembre del 2005 davanti all'ippodromo di Ferrara. Se non li avesse incontrati sarebbe ancora vivo. La sentenza, depositata ieri, tre mesi dopo la pronuncia della condanna in primo grado a tre anni e mezzo per omicidio colposo, spiega in 567 pagine le responsabilità dei quattro poliziotti e sembra anticipare il rinvio a giudizio di altri funzionari della questura estense per i depistaggi su cui indaga la cosiddetta inchiesta bis.
«Diciottenne, incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone perbene, padre vigile urbano, madre impiegata comunale, un fratello più giovane e un nonno affettuoso». Si può morire a quell'età, scrive ancora nell'introduzione il presidente del tribunale Francesco Maria Caruso. «Forse nessuno muore in quelle circostanze: all'alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna ragione». Senza alcuna ragione. Tornava da un sabato notte in un centro sociale bolognese, era voluto scendere dalla macchina degli amici per fare l'ultimo pezzo di strada a piedi. Un gesto così strano agli occhi di una donna che abita lì di fronte da farle chiamare il 112. Ferrara è una città intossicata dall'emergenza sicurezza, e con meno ragioni che altrove. Ma il caso Aldrovandi è divenuto un «affare pubblico» grazie alla controinchiesta della famiglia e, una volta avviato il processo, anche grazie alla decisione del giudice di aprire alle telecamere per evitare «il torbido che periodicamente si denuncia negli affari di giustizia». Tutto ciò ha consentito, almeno in parte, di rimediare i limiti di un'indagine preliminare nata col piede sbagliato poiché affidata «inizialmente non tanto e non solo ai colleghi di coloro che sono stati poi imputati ma agli imputati stessi autori dell'iniziale ricostruzione del caso posta a base di tutte le successive indagini». Da questo vizio di fondo, la strada «in salita» dell'accusa privata e «lo sforzo che essa ha dovuto profondere per far cambiare di segno all'indagine». Gli agenti, secondo il giudice, avrebbero dovuto esigere l'immediato intervento di un'istanza neutra, il pm, in grado di disporre di un'autonoma forza di polizia. Invece la pm di turno fu depistata al punto da non passare nemmeno per via Ippodromo. Sei mesi dopo, si dimetterà, per motivi familiari si disse, e le indagini presero una nuova piega.
Nelle considerazioni finali, la sintesi di un'estenuante processo durato da ottobre 2007 a luglio 2009 con 34 udienze: la morte «senza ragione» è spiegata dagli accertamenti medico legali della parte civile e fu conseguenza della violenta colluttazione, quattro contro uno, quatto manganelli contro un ragazzo disarmato. Sul corpo di Federico saranno riscontrate 54 lesioni, ciascuna delle quali potrebbe dare origine a un processo penale. Forse gliela volevano far pagare per una «precedente fase di conflitto con reciproci atti di violenza». Ma la stessa sentenza avverte che quella prima fase è oscura per via dell'inattendibilità della versione di due degli imputati, l'equipaggio della prima volante a incontrare Federico. Nemmeno l'ipotesi delle parti civili, su una misteriosa provocazione della polizia che avrebbe potuto indurre la reazione del ragazzo, ha trovato conferma. Così, da preterintenzionale, l'ipotesi di reato s'è attestata sull'omicidio colposo. Perché comunque l'«intervento armato della polizia, in assenza di pericolo, non può in nessun caso mettere a repentaglio la vita del cittadino tanto più quando si tratta di persona in uno stato di parziale alterazione». Così non fu a Ferrara. E dalla questura scaturì una versione che, anche ritoccando l'orario degli interventi delle volanti, spiegava la morte con l'overdose, poi, smentita dalle perizie tossicologiche, con l'excite delirium syndrome che non è condivisa da gran parte della comunità scientifica. Il giudice lo riconosce ma smentisce che Federico fosse in quello stato e che gli imputati agirono in «violazione di precise regole di comportamento». Federico presentava i segni di asfissia perché gli stavano sopra dopo una colluttazione prolungata che lo aveva messo in agitazione aumentando la sua fame d'aria. Ma i quattro sarebbero stati troppo presi a pestarlo per accorgersi che chiedeva aiuto e rantolava. Quella che nella versione ufficiale fu definita "resistenza all'arresto" era solo «una disperata ricerca d'aria». Una condotta, quella degli agenti, «dissonante dagli standard dell'agente modello» che dovrebbero assicurare l'incolumità personale del cittadino «salvo la ricorrenza di stato di necessità o legittima difesa». Ma il ragazzo era «disarmato e non pericoloso». Errori gravi che si associano all'«assenza di segni di pentimento e alle palesi menzogne e agli ostacoli frapposti all'accertamento della verità». Gente a cui manca «il senso della funzione sociale della polizia». Inaffidabili, pericolosi, incapaci di autodisciplinarsi, capaci di violenza gratuita e di incuranza per gli effetti di essa, spregiudicati nella strumentalizzazione dell'ambigua posizione iniziale di unici testimoni. E per tutto ciò capaci di «concordare una versione difensiva di comodo» e descrivere uno «stato della vittima a tinte fosche ed eccessive». L'appello, già annunciato, dirà l'ultima parola.
K.B.