Rete Invibili - Logo
Tre anni e 6 mesi di carcere agli assassini di Federico Aldrovandi
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 7 luglio 2009
7 luglio 2009


Non ha potuto fare a meno di applaudire (ed è stata sgomberata con le buone) la piccola folla che aspettava da ore nell'aula B del tribunale di Ferrara. Non hanno potuto fare a meno di piangere i genitori e i parenti di Federico Aldrovandi e i loro legali e gli amici del diciottenne ammazzato in un violentissimo controllo di polizia. Chissà se avrebbero pianto anche gli imputati, lo sguardo fisso davanti a sé, mentre il giudice leggeva la sentenza: tre anni e sei mesi, appena sessanta giorni di meno di quanto chiesto il 19 giugno dal pm Nicola Proto. In aula solo due dei quattro imputati. Uno di loro riceverà la notizia della condanna in primo grado a L'Aquila. Ci fosse un'opposizione, in questo Paese, magari chiederebbe se sia il caso che un condannato di omicidio colposo se ne vada in trasferta al G8.
La lettura della sentenza dura pochi istanti. Le persone, dietro i banchi delle parti civili si abbracciano. Una voce dal pubblico ricorda che Federico aveva solo 18 anni. Difese e imputati sciamano dall'uscita secondaria dando per scontato l'appello dopo la lettura, tra 60 giorni, delle motivazioni. Non è finita qui. Uno dei poliziotti, alla fine, sbotta: «Posso dire che stasera giustizia non è stata fatta. E posso anche dire che io la notte dormo sonni tranquilli, qualcun altro non lo so». Benzina sul fuoco che lui stesso, secondo il giudice, ha acceso. «Invece giustizia è stata fatta - dicono a Liberazione le voci rotte di Lino e Patrizia Aldrovandi - però Federico non torna, qualcuno dovrebbe chiedergli scusa. Dov'è Stefano?». Stefano è in cortile, con gli amici. Ha la stessa età di suo fratello quando incappò nelle due volanti all'alba del 25 settembre 2005, e gli stessi occhi. E' diventato grande partecipando al lavoro di controinchiesta sulla morte di Federico. Dopo cento giorni di silenzio assordante si decise di aprire un blog. Poi arrivò l'inchiesta di Liberazione a portare fuori dai confini ferraresi una vicenda di malapolizia. Ieri sera, alle 19, cronisti e telecamere non mancavano. L'hanno detto i pm della Diaz che mica è facile processare la polizia, che è come processare un maschio che stupra (perché si colpevolizzano le vittime) o un capo della mafia per via del malinteso senso di cameratismo che tenta di coprire abusi e violenze. A Ferrara il copione sembrava il medesimo di Genova. Il suo nome era Federico Aldrovandi, aveva 18 anni. Non c'è stato limite alle fantasie che sono state vendute al pubblico su di lui. Questa vicenda racconta anche come funzionari statali abbiano cospirato per proteggere quattro poliziotti colpevoli di eccesso colposo nell'ambito dell'omicidio di Federico. Gli amici, tutti in aula, lo chiamavano Aldro.
La sentenza è stata letta cinque ore dopo che il giudice s'era ritirato in camera di consiglio al termine di un ennesima mattinata di battaglia in aula, con il pubblico ministero Nicola Proto e i legali della famiglia Aldrovandi a ribadire che il diciottenne non sarebbe morto se non avesse incontrato le due volanti. Dall'altra parte della barricata, il collegio difensivo a rispolverare le tesi alternative delle droghe o della excite delirium syndrome, una sindrome inventata oltre oceano per giustificare morti strane ma tutte di persone arrestate o incatenate in un manicomio. Delle droghe killer, la preferita dalle difese pare l'Lsd ma nel sangue di Federico non ce n'era traccia e in questura saprebbero tutti che sono anni che non se ne trova nei sequestri di sostanze. Probabilmente i "francobolli" consumati dal diciottenne al Link erano un "pacco", una fregatura. Il nesso c'è, tra la morte di Federico e la condotta dei quattro degli equipaggi. Il pm insiste: «C'è, oltre ogni ragionevole dubbio». E la colpa degli agenti consiste nell'uso sproporzionato dei manganelli, due dei quali tornarono a pezzi in magazzino, anche sulla testa, anche quando era a terra e chiedeva aiuto. E i calci, e le ginocchia sul torace. «Federico ci parla ancora», dirà il pm pensando alle ultime foto del volto sfigurato. Quei segni sarebbero compatibili con i colpi raccontati dai testi e con le urla disumane ricordate anche dai quattro agenti. Tutti fattori che aumentano la fame d'aria di un ragazzino che nessuno aiutò a respirare. Due donne saranno le testi chiave, una italiana, l'altra straniera. Quest'ultima parlerà per prima, dopo molti mesi, dopo un lungo travaglio. Disse dei quattro coi bastoni, sopra Federico, come formiche. Ricordò i calci e i rantoli. L'altra, più faticosamente si deciderà a confermare solo nel dibattimento alcuni particolari raccontati poche ore dopo i fatti ad alcuni conoscenti. Aveva paura, se avesse rivelato ciò che aveva visto, di «passare dalla parte del torto». La polizia - che indagò su se stessa - aveva bussato quella mattina alla sua porta, interpellandola senza rilasciare alcun verbale. «Non ci voleva quella seconda colluttazione, quella raccontata da Annemarie», spiega a Liberazione, Fabio Anselmo, uno dei legali degli Aldrovandi. «Quando ci si trova di fronte a una persona in quelle condizioni la prima cosa da fare è chiamare un'ambulanza con un medico... nel frattempo si prova a dialogare... se poi è violento ci si chiude in macchina... una volta arrivato il medico con questi si concorda come intervenire». Così scrive in una drammatica lettera a Federico, consegnata ieri ai genitori, l'ispettore della digos a cui toccò il riconoscimento di un cadavere «vestito come uno dei centri sociali». Poi dovette bussare a casa degli Aldrovandi di cui era amico. Da allora «ho dovuto fare i conti con me stesso», confessa al ragazzino ucciso rivelando anche le pressioni, gli insulti, le minacce, le battute e i commenti del suo ambiente.
Le difese sembrano attestarsi sulla fredda «algebra delle prove»: la droga, appunto, e quella sindrome di cui sono documentati 216 casi. 196 sono ancora vivi, 2 sono stati strangolati, i pochi altri sono morti immobilizzati in posizione prona. Le difese non credono alle testimoni chiave e, se la colluttazione c'entra qualcosa non sarebbe provabile e il contegno degli agenti comunque sarebbe al di sopra di qualsiasi appunto. Ma lo stato di agitazione che, secondo le difese, avrebbe ucciso comunque Federico, richiede ore per spegnere una vita. E non lascia segni in faccia. E i brogliacci truccati, i reperti imboscati, le stranezze della scientifica di quella mattina, appesantiscono le responsabilità di chi non ha chiamato subito il 118 ma ha cercato una colluttazione imprudente e omesso il soccorso a un ragazzo che soffriva.
«C'è un tribunale in Italia dove le forze di polizia non sono al di sopra della legge», commenta Vittorio Agnoletto, testimone di Genova 2001.