Rete Invibili - Logo
Caso Aldrovandi, la difesa degli agenti: "Non sapremo mai di cos'è morto"
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 1 luglio 2009
1 luglio 2009

«Non sapremo mai di cos'è morto quel ragazzo». Uno dopo l'altro, in due giornate serrate di arringhe, i legali dei quattro imputati per l'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, hanno provato a smontare le tesi della pubblica accusa fino ad approdare a una sorta di agnosticismo cosmico, uno scetticismo sitematico su ogni evidenza processuale. Conclusioni: sarebbe impossibile ricostruire le cause delle morte, ciò che è emerso «non rende plausibile (ma solo probabile, ndr) la catena causale» di eventi che hanno portato al decesso di un diciottenne incensurato e disarmato che tornava a casa all'alba di una domenica mattina di quasi quattro anni fa.
Sotto accusa, di nuovo, lo stile di vita presunto del diciottenne rimasto ucciso durante un violentissimo e misterioso controllo di polizia. In fin dei conti era un drogato, hanno insistito, un drogato perdipiù cintura marrone di karate. La tesi più cara ai difensori dei quattro membri degli equipaggi delle due volanti è quella della chetamina killer - «Sì, sì, sì», esclamava l'avvocata Vecchi del foro riminese: può dare allucinazione e agitazione - ma anche morfina ed Lsd. Eppure delle prime due sostanze furono trovate lievi tracce che non giustificherebbero l'agitazione, «l'incapacità di fermarsi di fronte allo sforzo». E di Lsd neppure quelle lievi tracce. Aldro, con ogni probabilità, fu truffato da chi gli vendette dei "francobolli" ma per le difese l'acido non si trovò «perché non fu cercato». I quattro legali e i loro collaboratori hanno spulciato ogni pagina degli atti e ne rendono conto con eloquenza in arringhe lunghe ore e ore. Confutano le perizie che, peraltro, a volte sono scritte con un linguaggio scivolosissimo e sono state svolte prima di conoscere le testimonianze che l'accusa considera decisiva. Ecco i "titoli": le difese puntano sul disaccordo tra il pm e i gli autori della superperizia che Proto ordinò quando sostituì la prima pm, quella di turno quella notte che non si presentò mai sulla scena del delitto, forse depistata da chi la avvisò appena si rese conto che il ragazzo era morto. E le indagini casalinghe? Appunto, per la difesa sarebbe tutta colpa della prima magistrata che poi, quando l'eco dell'inchiesta scavalcò i confini ferraresi, si dimise dal caso. Altro cavallo di battaglia delle difese: l'«indimostrabilità» del rilievo concausale del "contatto" tra i quattro e il giovane, pescato senza documenti in un'area - il parchetto di via Ippodromo - considerata sensibile. E la foto del cuore "spezzato"? Una «carta della disperazione» di un'accusa senza prove certe. Torna l'immagine di un ragazzo reso imbizzarrito dalle droghe, che si infurierebbe «alla sola vista del nemico», che terrorizza i passanti e poi salta sul cofano quindi sul tetto della volante, talmente forsennato da non sentire nemmeno il dolore allo scroto quando cade a cavalcioni dello sportello. Un'azione «fulminea» che nella ricostruzione delle difese si contrae in una manciata di minuti: la scena di almeno cinque minuti raccontata dalla superteste che li vide «come le formiche», «con i bastoni», sopra un ragazzo agonizzante che chiedeva di smetterla, diventa uno sketch da trenta secondi. Perché altrimenti la tesi del ragazzo "già morto", schiantato dalle droghe e dalla sindrome da eccitamento, ovvero che sarebbe morto indipendentemente dall'incontro con le volanti, non potrebbe reggersi. E i segni in testa? Solo uno sfregamento del cranio sull'asfalto. E sarebbe decisiva l'assenza di segni di manette sul dorso. E la posizione prona in cui fu lasciato nonostante non riuscisse a respirare? «Quella non compromette la ventilazione», si sente dire con ampie citazioni di letteratura scientifica. E le due testimoni residenti nella palazzina di fronte al cancello dell'ippodromo? «Non hanno visto nulla». E i manganelli? Calci e manganellate sarebbero la «leggenda nera di questo processo». Gli sfollagente, poi, erano vecchi. E le implorazioni di Federico citato da diversi testi? «Ma quelle parole erano davvero sue? Era allucinato, aveva un rapporto col mondo di tipo persecutorio». Insomma fu la droga, sempre la droga. «Il resto è probabile ma non può essere provato». Questa la trincea delle difese degli agenti che considerano le accuse «una prateria di illazioni», di suggestioni, congetture e bugie. E riservano frecciate a una stampa, a loro dire, troppo vicina alle parti civili, ossia ai genitori di Federico la cui ostinazione ha consentito l'approdo a un processo pubblico dopo mesi di depistaggi su cui indaga un'altra inchiesta.
Esplicite le citazioni in aula per il vostro cronista, da parte di uno dei legali, contro le citazioni «stonate» di questa vicenda che avrebbero «preconfezionato la sentenza». A irritare il collegio difensivo due libri: uno di Cristiano Armati ("Cuori rossi", Newton Compton) reo di aver accomunato Aldro alle centinaia di morti in ordine pubblico; l'altro quello scritto dal vostro cronista assieme al disegnatore Alessio Spataro ("Zona del silenzio", Minimum Fax) perché ci ostineremmo a «cercare verità e giustizia a senso unico, criticando insensatamente la polizia». Lunedì, dopo le probabili controdeduzioni del pm, il giudice monocratico si ritirerà in camera di consiglio.