Dalla difesa degli agenti arriva un attacco al presunto «processo parallelo senza diritto di replica» su giornali e tv. Ce l'hanno con Chi l'ha visto? , in particolare, e con un giallista ospitato dal Corriere . Dall'ufficiale della polizia giudiziaria che imbastì le primissime indagini, l'ammissione, poco dopo, che l'inchiesta Aldrovandi decollò solo dopo la prima metà di gennaio 2006, centoquindici giorni dopo la morte di Federico, dunque dopo l'"esplosione mediatica" del caso sul blog dei genitori e su pochi quotidiani, per primo Liberazione . E, ancora, dall'allora capo dell'ufficio delle volanti una specie di bordata sulla prima pm a seguire la storia - «disse che non era il caso di venire sul luogo» - e che, subito dopo, giura di «non aver visto segni di niente» sul volto sfigurato di Federico. Segni che risulteranno più chiari, invece, al questore vicario, che giunse un'ora dopo, alle 8, e di cui sembrano far cenno anche le telefonate tra carabinieri e polizia che, alle 7.36, parlarono di «pecche», o, probabilmente di «pesche», ossia lividi. Che cosa fu detto alla pm Mariaemanuela Guerra per farle ripetere che non «c'era bisogno» di arrivare in Via Ippodromo? Il pm che ha ereditato le carte, Proto, ritiene si debba trovare il modo per far giungere in aula «la voce dell'ufficio del pubblico ministero» che non può salire sul banco dei testi.
Questo e molto altro nell'udienza di ieri a Ferrara per l'omicidio colposo del diciottenne incensurato nel corso di un violentissimo "controllo di polizia" effettuato da due volanti all'alba del 25 settembre del 2005. E nel catalogo dell'udienza va inserito certamente una sorta di crollo della memoria collettiva tra i protagonisti di quella mattina tanto da rendere difficile sia la concatenazione degli orari - tra l'orologio dell'Arma, ad esempio, è quello del 118 ci sarebbe un paio di minuti di sfasamento - e la linea di comando nelle fasi immediatamente successive alla constatazione della morte dell'Aldro. I sanitari lo trovarono faccia in giù, ammanettato. E senza vita. Anche i manganelli spezzati e ritrovati solo alcune ore dopo in questura non meravigliarono nessuno. A sentire il capo dell'ufficio volanti, a cui l'hanno riferito i quattro, si sarebbero spezzati uno con un calcio di Federico, l'altro in una caduta sotto il peso dell'agente che lo brandiva. Nel fascicolo del pm, però, c'è la perizia che certifica la compatibilità delle lesioni sul corpo e sul viso di Federico, con quegli oggetti «metallici e cilindrici». Sono le percosse di cui parlò un cronista locale, poche ore dopo, e subito zittito dal questore dell'epoca? L'accusa insiste sulle modalità della «imprudente colluttazione», chiederà a tutti dei manganelli.
Nell'aula - di nuovo strapiena di amici della famiglia Aldrovandi e di colleghi dei poliziotti - il capo dell'ufficio volanti (giunse verso le 7 e avviò i primissimi accertamenti) fornisce invece una versione abbastanza articolata della versione che potrebbero fornire gli imputati e che ricalca le relazioni di servizio ma fa a pugni col mattinale della questura che avallò la tesi del malore fatale e le ripetute allusioni a un'overdose. E' la storia già sentita di un ragazzo che avrebbe assalito una volante urlando frasi sconnesse. Due calci al paraurti mentre la macchina prova a fare retromarcia. Il capoequipaggio che avrebbe provato a parlamentare ma il ragazzo sarebbe stato così infuriato da prendere la rincorsa, saltare sul cofano, che risulterà non ammaccato ma solo con delle strisciate grigie, e tentare di scalciarlo da lì. Sempre urlando frasi sconnesse, tipo «Voglio di più». Lo slancio lo avrebbe fatto cadere a cavalcioni sulla portiera e cadere in avanti. Federico si sarebbe rialzato e i due lo avrebbero provato a bloccare. Tutti giù per terra. Ma di legargli le manette neanche a parlarne. Anzi, i due si sarebbero rifugiati in macchina in ritirata strategica, inseguiti dal feroce diciottenne. Decisivo l'arrivo della seconda volante. Avviene la colluttazione di cui si parlerà già pochi minuti dopo nelle telefonate. Finché non si spezzano due manganelli. «Finché il giovane non si calma, smette di agitarsi», si sentirà dire in aula, finalmente lo ammanettano anche se ricomincia a scalciare, arriveranno i carabinieri. «E smette di nuovo di agitarsi».
Stride il confronto tra la febbrile attività telefonica di chi intervenne quel mattino - sono state acquisite nuove registrazioni - e il mancato sequestro della volante ammaccata dall'assalto del ragazzino. «Nessuno per mesi mi ha detto nulla, né la procura né la squadra mobile. Nessuno disse che avevamo fatto errori, che avevamo sbagliato a non sequestrare le auto o che l'ipotesi che avevamo fatto era errata», si discolperà il funzionario. Ma se si chiedono particolari sul lavoro dei colleghi, ciascuno ricorda poco o niente. Nessuno ricorda di aver fatto delle ipotesi. Eppure la questura, già poco dopo le 7, sarà abbastanza preoccupata di capire se c'è una registrazione in cui qualcuno dica che Federico sbatteva la testa («Vedrai che servono»). Uno dei legali di parte civile, Riccardo venturi, arriverà a notare uno scaricabarile diffuso e la «melmosità dei rapporti interni» alla questura. Arrivò sulla scena anche il colonnello comandante dei cc locali ma sarebbe restato solo un paio di minuti. Stride il contrasto tra il Federico dipinto dalle relazioni di servizio e quello, sicuramente più lucido, da chiamare 9 numeri di suoi amici in soli 8 minuti, alle 5.15. L'ufficiale di pg non ricorda di aver "filtrato" i testi prima di mandarli dalla pm. Il capo della squadra mobile rivela che si indagò solo su Federico, un ragazzo vestito come uno dei centri sociali, senza documenti e col timbro del "famigerato" Link sulla mano. Quella mattina interrogherà alcuni amici dell'Aldro. Quei testi ricordano che li chiamava drogati, con uno di loro si sarebbe finto medico, lui nega le minacce. Fu lui, tempo dopo, a dimenticarsi di verbalizzare una delle frasi chiave nella trascrizione di una telefonata: quella di un imputato che diceva "lo abbiamo bastonato di brutto" o giù di lì. Dice che non si capiva bene. Fu lui a incontrare i genitori in questura 48 ore dopo per convincerli della possibilità di una morte per droga. Ricorda che era scosso perché Lino Aldrovandi piangeva. «E' stata l'unica volta che non ho pianto», ribatte uscendo il papà di Federico.