Sarà un processo ai fatti (e in qualche modo alle indagini da cui è scaturito, o da cui rischiava di essere archiviato) o sarà un processo a Federico e al suo stile di vita? Sarà, senz'altro, un processo lungo, con quasi duecento testimoni, quello che s'è aperto ieri a Ferrara, per l'omicidio colposo del diciottenne ucciso durante un misterioso e violentissimo controllo di polizia all'alba del 25 settembre 2005.
Ieri, finalmente, la prima udienza, a 25 mesi dai fatti, e il primo braccio di ferro nell'aula B (gremita anche da esponenti dei comitati Verità per Aldro di molte città, tra loro la mamma di Renato Biagetti, Stefania), la più grande, sull'ammissibilità dei testimoni tra parte civile e difesa dei quattro agenti imputati, equipaggi delle due volanti che intervennero quella mattina in Via Ippodromo. I legali della famiglia Aldrovandi avrebbero ascoltato volentieri i 92 residenti nella stradina che costeggia il galoppatoio, molti dei quali furono sentiti a caldo, pochissime ore dopo i fatti, e diedero l'impressione di essere a loro volta piuttosto scossi, forse intimoriti, dal contegno «arrogante» di chi indagava e indossava la stessa divisa di chi era stato protagonista del controllo di polizia. Nessuno s'è presentato alle convocazioni dei legali della famiglia del ragazzo ucciso. «Per mesi c'è stata una grave carenza nelle indagini - ha voluto ricordare Fabio Anselmo, uno degli avvocati di parte civile - la prima pm non si recò neppure sul luogo, non fu sequestrata l'auto che impattò con Federico, non furono sequestrati i manganelli spezzati addosso a lui, non furono sequestrate le conversazioni con la Centrale». Ma il giudice monocratico, dopo una lunga pausa per deliberare, ha ristretto - per ora - il loro numero a una ventina, secondo la lista fornita dal pm Proto, spiegando che l'obbligo giuridico a testimoniare non coincide con l'obbligo morale, e che non si può convocare qualcuno solo ipotizzando che sappia. Perché qualcuno ha visto tutto, ma si sa solo grazie a testimonianze indirette molte delle quali saranno riascoltate nelle prossime udienze assieme a consulenti, investigatori, sanitari.
A presiedere il tribunale è Francesco Maria Caruso, molto stimato, proveniente da Caltanissetta dove fu presidente della Corte d'appello nel processo ai vertici di Cosa Nostra per la strage di Via D'Amelio. Sarà lui a gestire il processo Aldrovandi, scaturito dall'inchiesta condotta da Nicola Proto che ha ereditato il caso, sei mesi dopo le vicende di Via Ippodromo, imprimendo loro una repentina accelerazione e aprendo, perdipiù, un'inchiesta-bis per capire chi e perché congelò e manomise alcuni reperti (i brogliacci del 113 e i tamponi con le tracce di sangue di Federico) e, in definitiva, perché fu la polizia a indagare su sé stessa. Quanto sia stata poco opportuna quella decisione era evidente, ieri, dalla folta presenza di attivisti di due sindacati di polizia a sostegno dei colleghi imputati. Due sigle, Sap e Siulp, che durante le indagini sono intervenute più volte a gamba tesa contro la famiglia Aldrovandi e chi la sosteneva nella battaglia contro una versione ufficiale che faceva acqua da tutte le parti, fino a raccogliere 200 firme (la maggioranza dei poliziotti della provincia) contro un ministro, Amato, che s'è permesso di augurare alla madre dell'Aldro un processo che conduca alla verità.
Che le sostanze non c'entrino nulla con la morte dei diciottenne che non aveva mai commesso reati, né li stava commettendo al momento del contatto con le due volanti, era chiaro già dalla perizia disposta dalla prima pm. La superperizia acquisita in incidente probatorio minimizza ulteriormente la quantità, già definita lieve, di sostanze. Ma la linea della difesa sembra tutta tesa a fornire di Federico l'immagine di un tossico. Da rafforzare convocando a testimoniare un paio di carabinieri che avrebbe fermato Federico e chi, per la questura di Bologna, indagò sul Link, dove Aldrovandi trascorse l'ultimo sabato sera della sua breve vita con i suoi amici che la ricostruiranno il 29 novembre, prossima udienza. E ieri, la presenza in massa dei colleghi dei quattro è parsa ai familiari della vittima un segnale di ulteriore intimidazione ai testimoni. Sembrano non aver ascoltato il dispositivo che ha portato alla sbarra i quattro colleghi accusati di aver cagionato o concorso a cagionare la morte di un ragazzo che aveva bisogno di soccorso invece che di botte, che chiedeva aiuto e veniva percosso anche quando era già immobilizzato. «Sono vicini ai loro colleghi o alla verità?», si chiede il papà di Aldro. Quattro contro uno quella mattina, 200 poliziotti, ora, contro una città e buona parte dell'opinione pubblica nazionale tanto che il processo sarà registrato sia da "Chi l'ha visto?" (molto assidua sul caso), sia da Un giorno in procura, trasmissione di Rai 3, cui però gli agenti non consentiranno di essere filmati.
E, al termine dell'udienza, le prime parole pubbliche, con una dichiarazione spontanea al presidente, dei quattro imputati. Poche parole e lette da una voce diversa da quella registrata mentre spiega alla Centrale che l'avevano pestato per mezz'ora. Quella voce ha detto di «comprendere il dolore della famiglia Aldrovandi» ribadendo la «piena correttezza del comportamento di quella mattina». Ha detto anche di aver fiducia che il processo fugherà «tutte le ombre» maturate in due anni di «calvario giudiziario». Patrizia e Lino Aldrovandi hanno detto di sentirsi, di fronte ai quattro, nei panni di Federico. Cioè di sentirsi male. E che le prime parole degli imputati sono parse loro «fredde, senza anima, senza corpo. In linea con la loro condotta fin qui».